Interessi corrispettivi ed interessi moratori nei contratti bancari: criteri per la verifica del rispetto del tasso soglia anti-usura

Nota a Cass. Civ., sez. III, n. 26286/2019

Con sentenza n. 26286 pronunciata il 15.01.2019 e depositata il 17.10.2019, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha fornito alcune interessanti indicazioni in ordine al rapporto tra interessi corrispettivi ed interessi moratori applicati nel settore dei contratti bancari, utili al fine di comprendere quando possa ritenersi superato il tasso soglia dell’usura previsto dall’art. 2, c. 4, L. 108/1996.

Nel caso di specie, la Suprema Corte era stata chiamata a pronunciarsi su ricorso di un risparmiatore il quale, dopo aver stipulato un contratto di mutuo fondiario con un istituto di credito, era in seguito divenuto bersaglio di una procedura esecutiva immobiliare in quanto inadempiente nel rimborsare ratealmente la somma mutuata.

Nel proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., il mutuatario deduceva l’applicazione di un tasso di interesse usurario nel contratto di mutuo posto a base dell’azione esperita dalla banca nei propri confronti. Sospesa quindi la procedura esecutiva, nella successiva fase di merito il Tribunale di Monza rigettava le domande attoree, escludendo che – ai fini della verifica del superamento del tasso soglia – gli interessi corrispettivi e quelli moratori dovessero cumularsi e ritenendo, al contrario, che gli stessi fossero destinati ad essere applicati soltanto in via alternativa. Lo stesso giudice di primo grado rilevava inoltre come gli interessi di mora fossero automaticamente rimasti al di sotto della soglia d’usura individuata per legge, in virtù della clausola di salvaguardia inserita in contratto proprio al fine di contenere in ogni caso il tasso d’interesse entro il limite fissato dall’art. 2 della L. 108/1996.

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Il cumulo degli interessi corrispettivi ed interessi moratori

A seguito dell’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. con cui la Corte d’appello di Milano dichiarava inammissibile il gravame proposto dal risparmiatore, quest’ultimo proponeva ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1815 c.c. e 644 c.p. . A fronte di un unico motivo di ricorso, la Corte di legittimità era invero chiamata a risolvere due distinte questioni giuridiche: da un lato quella concernente la necessità o meno di cumulare interessi corrispettivi ed interessi moratori ai fini della verifica del superamento del tasso soglia anti-usura; dall’altro quella riguardante l’ambito di applicazione e la validità della clausola di salvaguardia normalmente inserita nei contratti di finanziamento al fine di evitare lo sforamento del tasso di interesse oltre le soglie fissate per legge.

Nell’approcciarsi a risolvere la prima questione, la Suprema Corte richiama innanzitutto la “netta diversità di causa e di funzione tra interesse corrispettivo ed interesse moratorio”: mentre il primo costituisce “la remunerazione concordata per il godimento diretto di una somma di denaro”, il secondo rappresenta invece “il danno conseguente l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria”.

Considerata la natura lato sensu risarcitoria che l’ordinamento riconosce agli interessi di mora, l’art. 1224 c.c. stabilisce che essi siano dovuti in misura pari al saggio legale (anche nel caso in cui in precedenza l’obbligazione pecuniaria non prevedesse affatto la corresponsione di interessi) o, se maggiore, nella stessa misura degli interessi corrispettivi eventualmente pattuiti. In conformità al principio per cui il risarcimento deve arrivare a coprire l’intera lesione patita, il comma 2 del medesimo art .1224 c.c. consente che il creditore dia prova del maggior danno subito ed ottenga quindi un ulteriore e corrispondente ristoro economico. Tale possibilità è tuttavia preclusa allorché le parti abbiano convenuto tra loro il tasso degli interessi moratori: in questo caso – osserva la Corte – “la determinazione convenzionale del saggio dell’interesse integra […] gli estremi di una clausola penale, in quanto costituisce una predeterminazione anticipata, presuntiva e forfettaria del danno risarcibile”.

Tracciata così la netta distinzione in merito ai presupposti che consentono la percezione degli interessi convenzionali da un lato e degli interessi moratori dall’altro, la pronuncia in commento passa ad esaminare le ipotesi in cui, in materia di rapporti bancari, può discutersi di cumulo tra le due tipologie di interessi oggetto d’analisi.

In una prima accezione, si parla di cumulo per indicare la modalità con la quale solitamente i contratti bancari definiscono il tasso di interesse di mora: questo è infatti spesso indicato “sommando uno spread, ossia un incremento di percentuale, al saggio egli interessi corrispettivi”. Questa prassi garantisce all’istituto di credito la certezza che il tasso di interesse moratorio sia sempre superiore a quello previsto per gli interessi corrispettivi, essendo questi ultimi suscettibili di fluttuazioni e di difficoltà di calcolo che sconsigliano la determinazione del tasso di mora attraverso il riferimento ad un preciso ed invariabile valore percentuale.

In questa prima ipotesi parlare di cumulo è tuttavia improprio: come rilevato dai giudici di legittimità, infatti, “in realtà non si tratta della contemporanea percezione di due diverse specie di interessi, [dal momento che] la banca percepisce soltanto gli interessi moratori, il cui tasso è però determinato tramite la sommatoria innanzi descritta”; in conseguenza di ciò “è al valore complessivo e non ai soli punti percentuali aggiuntivi che occorre aver riguardo al fine di individuare il tasso di interesse moratorio effettivamente applicato e percepito”.

Sotto altro profilo, la nozione di cumulo viene in rilievo in relazione alle concrete modalità con cui, nella prassi bancaria, è solitamente gestita la crisi del rapporto di finanziamento. Nella più o meno lunga fase che va dai primi episodi sintomatici di difficoltà di pagamento sino al definitivo “passaggio a sofferenza” del rapporto – attraverso il quale la banca esercita il proprio potere di recesso unilaterale dal contratto – l’istituto di credito è solito rivolgere al proprio debitore solleciti di pagamento: come osservato dalla Corte “questi, pur non determinando la chiusura del rapporto, sono efficaci nel costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 1219 c.c. e, quindi, comportano il decorso degli interessi moratori”.

Anche in questa ipotesi parlare di cumulo è improprio e frutto dell’illusoria apparenza in base alla quale, essendo il rapporto di credito ancora aperto, il debitore si troverebbe a corrispondere allo stesso tempo interessi sia corrispettivi che moratori. Ricordato come l’art. 1224 c.c. stabilisca che “dal giorno della mora sono dovuti gli interessi moratori nella stessa misura degli interessi previsti «prima della mora», ossia a titolo corrispettivo”, se ne deduce come in effetti non si verifichi alcun fenomeno di cumulo: “gli interessi corrisposti dal cliente moroso sono tutti di natura moratoria, sia per quel che concerne la maggiorazione prevista dal contratto nel caso di ritardato pagamento, sia per la parte corrispondente, nell’ammontare, agli interessi corrispettivi previsti «prima della mora» ma che, per effetto di quest’ultima, hanno cambiato natura, così come testualmente disposto dall’art. 1224 c.c.”.

Alla luce di quanto sopra si può – secondo la Corte – affermare che quello del cumulo fra interessi corrispettivi ed interessi moratori nel settore dei rapporti bancari sia in realtà un falso problema, poiché per effetto della costituzione in mora tutti gli interessi dovuti dal cliente assumono natura moratoria, indipendentemente dalle concrete modalità negoziali con cui essi siano stati definiti in contratto e a prescindere altresì dal già intervenuto o meno recesso unilaterale dell’istituto creditore. La validità di tale conclusione pare del resto confermata dall’espresso dettato dell’art. 1383 c.c. in tema di clausola penale, secondo cui “il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”: attesa la riconducibilità degli interessi moratori di cui le parti abbiano pattuito la misura all’istituto della penale inteso in senso lato, ne deriva l’impossibilità che gli stessi vengano richiesti congiuntamente a quelli corrispettivi, integranti l’oggetto della prestazione principale.

Tutto ciò chiarito, la Suprema Corte enuncia quindi il principio di diritto per cui, nell’ambito dei rapporti bancari, “qualora il contratto preveda che il tasso degli interessi moratori sia determinato sommando al saggio degli interessi corrispettivi previsti dal rapporto un certo numero di punti percentuale, è al valore complessivo risultante da tale somma, non ai soli punti percentuali aggiuntivi, che occorre aver riguardo al fine di individuare il tasso degli interessi moratori effettivamente applicati”.

Sarà quindi compito del giudice di prime cure – al quale la causa viene rinviata – individuare con esattezza il saggio di interesse moratorio convenzionale previsto dal contratto e applicato nel caso di specie. Nel compiere tale valutazione il giudice non potrà sollevare le stesse incertezze già più volte in passato manifestate dalla giurisprudenza di merito, segnalando che per gli interessi di mora la Banca d’Italia non procede alla rilevazione del tasso effettivo globale medio praticato per le varie tipologie di contratti (T.EG.M.).

La giurisprudenza di legittimità

Trasponendo nel caso di specie il meccanismo già impiegato dalle Sezioni Unite per verificare il carattere eventualmente usurario della commissione di massimo scoperto (SS.UU., n. 16303 del 27.02.2018, dep. 20.06.2018), la Suprema Corte osserva come “la Banca d’Italia, pur non includendo la media degli interessi di mora nel calcolo del T.E.G.M., ne ha fatto una rilevazione separata, individuando una maggiorazione media, in caso di mora, di 2,1 punti percentuali”. Ne consegue che “per individuare la soglia usuraria degli interessi di mora sarà dunque sufficiente sommare al “tasso soglia” degli interessi corrispettivi il valore medio degli interessi di mora, maggiorato nella misura prevista dall’art. 2, comma 4, della legge n. 108/1996”.

Il giudice del rinvio dovrà quindi attenersi al principio di diritto per cui, “nei rapporti bancari, anche gli interessi convenzionali di mora, al pari di quelli corrispettivi, sono soggetti all’applicazione della normativa antiusura, con la conseguenza che, laddove la loro misura oltrepassi il c.d. “tasso soglia” previsto dall’art. 2 della legge 7 marzo 1996, n. 108, si configura la c.d. usura “oggettiva” che determina la nullità della clausola ai sensi dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ. . Non è di ostacolo la circostanza che le istruzioni della Banca d’Italia non prevedano l’inclusione degli interessi di mora nella rilevazione del T.E.G.M. [… in quanto, sulla base delle rilevazioni della media dei tassi convenzionali di mora comunque effettuate dalla stessa Banca d’Italia…] è possibile individuare il “tasso soglia di mora” del semestre di riferimento, applicando a tale valore la maggiorazione prevista dall’art. 2, comma 4, della legge n. 108/1996”. In conseguenza di quanto osservato sopra in ordine alle modalità con cui nella prassi vengono spesso determinati gli interessi di mora, “dovendosi procedere ad una valutazione unitaria del saggio di interessi concretamente applicato – senza poter più distinguere, una volta che il cliente è stato costituito in mora, la “parte” corrispettiva da quella moratoria –, al fine di stabilire la misura oltre la quale si configura l’usura oggettiva, il “tasso soglia di mora” deve essere sommato al “tasso soglia” ordinario.

L’assimilabilità degli interessi convenzionali di mora alla clausola penale si riflette sui mezzi di tutela riconosciuti al debitore: accanto alla nullità della pattuizione sancita dall’art. 1815, c. 2, c.c. nei casi di accertato superamento del tasso soglia anti-usura (con conseguente radicale esclusione della debenza di qualsivoglia interesse) si colloca infatti il rimedio della riduzione ad equità ex art. 1384 c.c., applicabile da parte del giudice in caso di manifesta eccessività del saggio di mora convenuto tra le parti, a prescindere dalla circostanza che esso oltrepassi o meno il limite di usurarietà. In tal senso si esprime l’ulteriore principio di diritto affermato con la sentenza in commento.

La Suprema Corte affronta infine la seconda questione prospettata dal ricorrente in ordine a validità ed effetti della clausola contrattuale di salvaguardia, diffusa nella contrattazione bancaria al fine di contenere comunque entro il tasso soglia eventuali fluttuazioni del saggio di interesse convenzionalmente pattuito ed evitare così la doppia sanzione rappresentata dalla nullità della pattuizione rivelatasi usuraria e – soprattutto – dalla perdita di tutti gli interessi che la banca avrebbe tratto dal rapporto di mutuo.

Rilevata la non contrarietà di tali clausole rispetto al duplice parametro delle norme imperative e dell’ordine pubblico, dirette anzi “ad assicurare l’effettiva applicazione del precetto d’ordine pubblico che fa divieto di pattuire interessi usurari”, i giudici di legittimità osservano come “la “contrattualizzazione” di quello che è un divieto di legge” comporti inevitabili riflessi sul piano del riparto dell’onere della prova: “infatti, se l’osservanza del “tasso soglia” diviene oggetto di una specifica obbligazione contrattuale, alla logica della violazione della norma imperativa si sovrappone quella dell’inadempimento contrattuale, con conseguente traslazione dell’onere della prova in capo all’obbligato, ossia alla banca”. A fronte di contestazioni circa l’effettivo sforamento del tasso soglia, in sede di giudizio di rinvio “spetterà [dunque] alla banca, secondo le regole della responsabilità ex contractu, l’onere della prova di aver regolarmente adempiuto all’impegno assunto”.

Facendo puntuale applicazione di istituti e categorie propri della parte generale dei contratti, la Suprema Corte ha offerto indicazioni pratiche, chiare e concrete per l’analisi di situazioni nelle quali frequentemente il cliente-debitore si trova in condizione di debolezza, dinanzi a documenti contrattuali predisposti unilateralmente dall’istituto di credito quale parte forte del rapporto di finanziamento.

Come visto, l’indicazione della Corte è duplice: da un lato si richiama l’attenzione sulla corretta qualificazione giuridica di ciò che viene preteso a titolo di interessi, al fine di scongiurare improprie sovrapposizioni tra istituti aventi funzione e natura completamente diverse; dall’altro lato si rimarca il fondamentale criterio che in materia contrattuale disciplina il riparto dell’onere della prova, dovendosi evitare automatismi in forza dei quali il semplice inserimento di una clausola di salvaguardia a favore dell’istituto bancario varrebbe di per sé ad escludere la possibilità di un effettivo superamento del tasso soglia anti-usura.

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