La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 7361/2012, è tornata recentemente ad occuparsi del delitto di “Interferenze illecite nella vita privata” (art. 615 bis c.p.) statuendo che il consenso prestato dalla persona offesa ad essere fotografata in relazione ad un rapporto sessuale non può ritenersi altresì esteso alla diversa attività di ripresa del medesimo tramite strumento audio-video.
La fattispecie portata all’attenzione degli ermellini vedeva imputato il sig. V. per il reato di cui all’art. 615 bis c.p. in quanto, nel corso della relazione sentimentale (poi interrotta) con la persona offesa, aveva indebitamente fotografato e filmato rapporti sessuali intrattenuti con la partner. Successivamente, peraltro, tali immagini venivano mostrate a terze persone ed altresì diffuse mediante internet, tramite un programma di condivisione.
In primo grado il V. veniva condannato per i reati interferenze illecita nella vita privata, diffamazione e per violazione del T.U. della privacy (d.lgs. 196/2003).
La Corte d’Appello di Milano, pur dando una diversa qualificazione giuridica dei fatti rispetto al giudice di prime cure (in particolare, sussumendo la condotta di immissione del filmato in rete sotto la più grave fattispecie di cui all’art. 615 bis, comma 2 c.p.), confermava la ricostruzione della vicenda operata da quest’ultimo e quindi condannava l’imputato, il quale ricorreva per Cassazione. In particolare, il difensore lamentava l’errata applicazione di legge e vizio di motivazione in quanto non si sarebbe tenuto in debito conto del fatto che la vittima fosse non solo consapevole ma avesse addirittura prestato il proprio consenso alle riprese oggetto del contendere. Inoltre, si sosteneva che non sarebbe stata raggiunta la prova richiesta dal codice di rito in relazione al fatto che le immagini pubblicate in rete fossero effettivamente quelle riprese dal sig. V., anche in relazione alle dichiarazioni della persona offesa e all’esito della perquisizione domiciliare tenuta presso l’imputato.
I giudici del “Palazzaccio”, tuttavia, pur dando atto della diversa qualifica giuridica dei fatti operata in primo e secondo grado, confermavano per il resto la condanna in quanto era da considerarsi pacifico che il consenso della persona offesa fosse stato prestato solo ed esclusivamente per lo scatto di alcune foto, mentre l’imputato aveva indebitamente posizionato l’apparecchio sulla modalità di registrazione, carpendo in tal modo immagini in violazione della disciplina penalistica posta dall’art. 615 bis c.p.
Del tutto inconferenti apparivano poi le doglianze a proposito della mancata prova circa l’effettiva paternità delle immagini diffuse in rete. Infatti, come già ricostruito in sede di merito, il reo aveva mostrato le riprese ad un terzo soggetto e le aveva altresì utilizzate per inviare sms (anonimi) alla vittima contenenti evidenti allusioni allo stesso. Poteva, dunque, considerarsi corretto l’iter logico e la ricostruzione giuridica effettuata in sede di merito.
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