La Corte Suprema olandese aveva sottoposto il caso alla CJEU ponendo la seguente questione: “se si configuri una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva [2001/29], ad opera del gestore di un sito Internet ove sul sito in parola non si trovano opere protette, ma esiste un sistema (…) con il quale vengono indicizzati e categorizzati per gli utenti metadati relativi ad opere protette disponibili sui loro computer, consentendo loro in tal modo di reperire e caricare e scaricare le opere protette“.
La decisione è di particolare rilievo per diversi motivi perché alcuni principi fissati dal Giudice Europeo risultano essere in piena sintonia con la più recente giurisprudenza italiana e in particolare, con la recentissima sentenza della Corte d’Appello di Roma, sentenza 2833/2017, nel caso RTI c. Break Media.
La CJUE, come i giudici di Roma, nel valutare il grado di coinvolgimento della piattaforma di condivisione di contenuti nella gestione dei dati da essa trattati (al fine di decidere se si sia in presenza di un atto di comunicazione al pubblico), ha osservato che nel caso in esame i gestori della piattaforma online in oggetto non realizzano una mera attività tecnica e dunque neutra. Infatti, la piattaforma “provvede a indicizzare i file torrent, di modo che le opere a cui tali file torrent rinviano possono essere facilmente localizzate e scaricate dagli utenti della suddetta piattaforma di condivisione. Inoltre, dalle osservazioni presentate alla Corte emerge che la piattaforma di condivisione online TPB propone, in aggiunta a un motore di ricerca, un indice che classifica le opere in diverse categorie, a seconda della natura delle opere, del loro genere o della loro popolarità, e che gli amministratori di tale piattaforma verificano che un’opera sia inserita nella categoria adatta. Inoltre detti amministratori provvedono ad eliminare i file torrent obsoleti o errati e filtrano in maniera attiva determinati contenuti” (cfr. paragrafi 36, 37, 38, 39 della decisione).
Peraltro, specifica la Corte, “non si può contestare che la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento principale, sono realizzate allo scopo di trarne profitto, dal momento che tale piattaforma genera, come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte, considerevoli introiti pubblicitari” (cfr. paragrafo 46).
Tale attività, continua il Giudice europeo, non realizza una “mera fornitura” di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione, ai sensi del considerando 27 della direttiva 2001/29. Bensì, costituisce una chiara condotta attiva del provider costituente atto di comunicazione, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.
Tale reasoning ricorda molto quello fornito dal giudice d’appello nel già richiamato caso (RTI-Break Media). Infatti, anche in quell’occasione il giudice italiano aveva ritenuto che l’attività svolta dal provider Break Media non poteva ritenersi limitata alla sola fornitura di un supporto tecnico per consentire agli utenti di accedere alla piattaforma digitale; ma tale attività era “risultata ben più complessa ed articolata di una attività di tipo neutro, automatico e meramente tecnico , tenuto conto delle pluriarticolate attività svolte dal provider nella gestione dei contenuti immessi sulla propria piattaforma digitale”.
Più nel dettaglio, il primo giudice romano, aveva chiarito che tale attività di gestione si concretizzasse proprio nell’attività di indicizzazione e catalogazione dei contenuti, oltre che allo sfruttamento degli stessi a fini economici.
Negli stessi termini si è già espresso il Tribunale delle Imprese di Milano, con le due sentenze RTI c. Italiaonline ed RTI c. Yahoo!: in entrambi i casi i giudici milanesi avevano rilevato la presenza di un coinvolgimento diretto delle piattaforme di condivisone dei contenuti, tra l’altro, sulla base di attività di catalogazione dei video e sfruttamento economico degli stessi.
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