Tra le altre censure, l’imputato lamentava un vizio di motivazione circa la ritenuta sussistenza dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale. Invero le espressioni contestate, a detta della difesa – che la stessa vittima non ricordava – erano generiche e del tutto prive di riferimenti alla presunta superiorità razziale.
Non serve l’esplicito riferimento alla inferiorità razziale
Una censura infondata secondo la Corte Suprema, la quale ricorda che la circostanza aggravante della finalità di discriminazione e odio etnico, nazionale, razziale o religioso ex art. 3 D.l. n. 122/1993, è configurabile in linea generale in espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa. Tanto che, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, non ricorre solo se l’espressione riconduca alla manifestazione di un pregiudizio nel senso dell’inferiorità di una determinata razza; ma anche quando la condotta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare ad altri analogo sentimento di odio etnico , e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.
Ora, nel caso di specie, la sentenza impugnata – concludono gli Ermellini – ha fatto corretta applicazione dei principi sopra indicati, laddove ha ravvisato il contenuto razzista nelle espressioni utilizzate dall’imputato, aventi in particolare in oggetto le frasi “che venite a fare qua …. dovete andare via”; essendo a tal fine irrilevante l’esplicita manifestazione di superiorità razziale, della quale il ricorrente lamentava la mancanza. Le connotazioni intrinseche delle frasi pronunciate erano infatti ritenute espressive della volontà che le persone offese, e gli altri cittadini extracomunitari presenti ai fatti, lasciassero il territorio italiano a cagione della loro identità razziale.
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