Il contribuente °°°, esercente l’attività professionale di medico di famiglia, con istanza del 29.2.2000 al Centro servizio di Palermo richiedeva il rimborso di £ 5.599.000 per l’IRAP versata per l’anno 1998.
Il Centro servizio di Palermo rigettava l’istanza con provvedimento del 23.4.2001, prot. 03501AC012230/7
IL contribuente, rappresentato in giudizio da difensore abilitato, deduce: 1) che l’IRAP non colpisce né il redito, né il consumo, né il patrimonio, essendo il suo presupposto individuato nell’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi; 2) che l’IRAP costituisce un’imposta che assoggetta a tassazione una capacità contributiva impersonale, basata sulla capacità produttiva che deriva dalla combinazione di uomini, macchine, materiali, ecc, e quindi una capacità contributiva autonoma, reale, separata dalla capacità contributiva personale propria dei singoli individui; 3) l’illegittimità costituzionale dell’IRAP per violazione dei principi sanciti dagli artt. 3, 53, 35 e 76.
L’Ufficio, costituito in giudizio, controdeduce: 1) che i giudici costituzionali si sono già espressi sulle censure d’incostituzionalità mosse al nuovo tributo, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione; 2) che le altre problematiche, connesse all’introduzione del tributo, sono già state affrontate e risolte negativamente in sede di decreto correttivo alla legge istitutiva dell’IRAP.
Il ricorrente, con memoria illustrativa depositata il 9.6.09, precisa: 1) che presupposto dell’IRAP è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi; 2) che la Corte Costituzionale ha statuito che l’IRAP applicata ad un lavoratore autonomo o professionista privo di qualsivoglia struttura organizzativa capace di potenziare il suo prodotto, rispetto al prodotto di collaboratore autonomo e continuativo o al prodotto di un lavoratore dipendente, verrebbe infatti a costituire una mera soprattassa sul reddito, che graverebbe solo sui lavoratori autonomi; 3) che la Corte di Cassazione, sezione tributaria, ha affermato che si ha esercizio di attività autonomamente organizzata soggetta ad IRAP, ai sensi dell’art. 2, del D.Lgs. n. 446/97, quando l’attività abituale ed autonoma del contribuente dia luogo ad un’organizzazione dotata di un minimo di autonomia che potenzi ed accresca la capacità produttiva del contribuente stesso. Di guisa che l’imposta non risulta applicabile ove in concreto i mezzi personali e materiali di cui si sia avvalso il contribuente costituiscano un mero ausilio della sua attività personale, simile a quello di cui abitualmente dispongono anche soggetti esclusi dall’applicazione dell’IRAP; 4) che per lo svolgimento dell’esercizio della professione di medico di famiglia utilizza beni strumentali che non eccedono il minimo indispensabile e che l’attività del ricorrente si poggia solo sull’attività professionale dello stesso, in quanto la dipendente di cui si avvale non rappresenta un effettivo collaboratore né interno né esterno, ma un mero ausilio di portineria e pertanto non può costituire presupposto di autonoma organizzazione, concetto che è alla base dell’imposta.
In diritto
Il Collegio osserva che il presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive consiste nell’esercizio abituale, da parte di professionisti e imprese, di attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi, per cui la questione da risolvere è l’individuazione del significato da attribuire all’espressione “attività autonomamente organizzata”.
Il Decreto istitutivo dell’IRAP (D.Lgs. n. 446/97) all’art. 2, afferma che “presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi.
Il collegio ritiene, aderendo alla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte di Cassazione, che è possibile assoggettare all’IRAP quel soggetto che nell’esercizio della sua attività, di lavoro autonomo o d’impresa, si avvalga di un’autonoma organizzazione -intesa come capacità contributiva qualificata, autonoma, ulteriore e diversa rispetto alla remunerazione dell’attività lavorativa- data dai capitali, dai beni strumentali impiegati e dalle collaborazioni interne ed esterne che contribuicono al conseguimento dei risultati reddituali.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 156/2001, ha preferito dare una definizione di attività autonomamente organizzata -affermando che il tributo non colpisce il reddito personale del contribuente, bensì il valore aggiunto che un soggetto apporta all’attività svolta tramite l’organizzazione di capitale e lavoro- demandando al Giudice Tributario l’accertamento in fatto dei predetti requisiti previsti dalla legge istitutiva dell’IRAP, con ciò mettendo in evidenza che possono esistere casi di attività professionale per i quali viene meno i presupposto impositivo.
I casi in cui non sussistono i presupposti impositivi non possono essere solamente quelli in cui l’attività si svolge in modo occasionale ovvero quelli in cui l’attività professionale è prestata nell’ambito di attività organizzate da terzi, per cui deve ritenersi che il requisito dell’autonoma organizzazione non sia fungibile con il concetto di “attività svolta in regime di autonomia”, ma sia qualcosa da accertare caso per caso, di ulteriore rispetto all’abitualità della professione autonoma.
In altre parole, non può ritenersi che anche in assenza di utilizzo di capitali o lavoro altrui il professionista svolga attività autonomamente organizzata, nel senso di autonomia di scelte sui tempi e modi di svolgimento della stessa, dovendosi piuttosto per “autonoma organizzazione” il caso di attività professionale fornita di capacità produttiva oggettiva, ossia tendenzialmente autonoma rispetto all’apporto del professionista, che per effetto di un’entità a se stante e da lui distinta possa limitarsi a svolgere un ruolo d’indirizzo, coordinamento e controllo.
Mentre è facilmente identificabile in presenza di esercizio di impresa, in quanto la definizione stessa di impresa si esplica proprio nell’organizzazione di capitale e lavoro, non è altrettanto facilmente identificabile nell’ambito del lavoro autonomo, in quanto l’attività professionale può essere esercitata anche in assenza di organizzazione di capitale e lavoro altrui, come nel caso in esame, e, quindi, occorre in tale caso valutare nel concreto la sussistenza di determinati requisiti.
Nel caso in discussione l’accertamento dell’esistenza del presupposto impositivo, ossia l’esistenza di autonoma organizzazione quale presenza di direzione dell’organizzazione ed impiego di beni strumentali eccedenti la quantità che comunemente costituisce il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività stessa – sicché l’autonoma organizzazione deve fornire un apporto apprezzabile al fine di assicurare all’attività professionale maggiore capacità produttiva, ossia una capacità produttiva impersonale ed aggiunta rispetto a quella propria del professionista che ne viene accresciuta e potenziata, è compito della commissione Tributaria.
Il contribuente, ha allegato di svolgere la professione di medico di famiglia”, ossia di medico convenzionato con l’ASL per l’assistenza di medicina generica agli assistiti: si tratta, cioè, di un’attività professionale parasubordinata, caratterizzata da una collaborazione coordinata e continuativa e, quindi, rientrante proprio in quei casi di esenzione riconosciuti dalla stessa Agenzia delle Entrate, la quale con Risoluzione n. 32 del 31.1.2002 ha riconosciuto che l’attività lavorativa/professionale svolta con i connotati della collaborazione coordinata e continuativa non realizza la soggettività passiva per l’applicazione dell’IRAP.
Il caso in esame presenta la peculiarità dell’esercizio della professione medica in regime di “Convenzione” con l’ASL di Ragusa, per l’assistenza sanitaria di quei cittadini che lo hanno scelto come medico.
Il particolare rapporto di lavoro in essere tra il ricorrente e l’ASL, inquadrato nel regime del lavoro parasubordinato di collaborazione coordinata e continuativa, è una ulteriore fatto, oltre le considerazioni già sopra svolte, che induce il collegio a ritenere nel caso in esame l’inesistenza del presupposto impositivo.
Il Consiglio di Stato, con decisione n. 5176/04, ha affermato, con motivazione condivisa dal Collegio, che il rapporto di lavoro del medico convenzionato con l’ASL va inquadrato come lavoro parasubordinato, in quanto lo stesso viene svolto sotto il controllo dell’ente pubblico sanitario.
Un breve cenno, al fine del decidere, va fatto, al fine di meglio intendere il particolare rapporto giuridico che lega ASL e Medici convenzionati, al sistema sanitario per quanto riguarda le modalità di scelta di quei Medici con cui stipulare i contratti di convenzione e i criteri con i quali è determinato il numero di medici che devono erogare il servizio.
Le Regioni, stabilito che ogni medico convenzionato può assistere un certo numero massimo di persone (1.600 circa per i medici generici di base e 800 circa per i medici pediatri di base) e censita la popolazione assistibile, bandisce dei concorsi per garantire l’assistenza sanitaria su tutto il territorio.
Il contratto stipulato dal medico con la Regione prevede quindi l’assistenza di un numero prefissato di cittadini; assistenza per la quale è corrisposta al medico convenzionato una somma pro-capite annua da ripartire in dodici mensilità.
Il corrispettivo dei medici convenzionati –cioè la capacità produttiva- presenta quindi una certa stabilità e continuità annua che dipende esclusivamente dal numero degli assistiti prefissato per legge, prescindendo comunque, come nel caso in esame, dall’ausilio della dipendente con mansioni di portineria, la cui attività, anche a prescindere dalla particolarità del regime giuridico di lavoro, da sola non può assumere quei connotati tali da potenziare ed accrescerne la capacità produttiva.
Lo stesso ricorrente ha dichiarato di avvalersi per l’esercizio della propria professione beni strumentali di modesto valore e di esercitare l’attività con l’ausilio di un dipendente con mansioni di portineria.
Queste circostanze, non contestate dall’Agenzia delle Entrate, sono assunte dal collegio, ai fini della decisione, come fatti realmente costituenti la natura dell’attività professionale del ricorrente.
Questo collegio condivide il costante orientamento della Suprema Corte di Cassazione secondo il quale l’imposizione è legittima solo quando si è in presenza di una struttura organizzativa “esterna” del lavoro autonomo e cioè quel complesso di fattori dei quali il professionista si avvale e che per numero ed importanza sono suscettibili di creare valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili di corredo al suo Know-how. La ricchezza prodotta dal proprio sapere, esperienza professionale, spirito d’iniziativa, costituisce profitto derivante solo dalla capacità del professionista che come tale non può essere ritassato dopo avere scontato l’IRPEF quale reddito di lavoro autonomo. E’ il surplus di attività, favorita dall’organizzazione autonoma che collabora ed aiuta il professionista nelle incombenze ordinarie, ad essere interessato dall’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale. E’ questo l’elemento differenziale che rimanda ad un’organizzazione di capitali o lavoro altrui affiancata al lavoratore autonomo ma da lui distinta e che interagisce nella produzione del profitto riconducibile all’organizzazione in quanto tale e non al singolo suo componente.
Il presupposto dell’imposizione avvince così con carattere di realità un fatto economico diverso dal reddito comunque espresso dalla capacità di contribuzione in capo a chi è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta dai vari elementi che in diversa misura concorrono alla sua formazione.
Nel caso in esame si tratta di capire se la dipendente con mansioni di portineria da sola costituisce quel presupposto dell’autonoma struttura organizzativa “esterna” del professionista, cioè quel complesso di fattori suscettibili di creare un valore aggiunto all’attività intellettuale propria dello stesso. Si tratta di capire, se la predetta dipendente, collaborando ed aiutando il professionista nelle proprie incombenze, realizza quel quid pluris proprio e distinto da quello del professionista, quale conseguenza di una propria capacità auto-organizzata ovvero se la sua attività si risolva in un mero “ausilio” all’attività del titolare dello studio legale. Si tratta, in definitiva, di capire se il lavoro autonomamente organizzato della dipendente-segretaria, come pronunciato dalla Corte Costituzionale (sent. 156/2001), aggiunge un valore in più ed ulteriore rispetto a quello prodotto dal lavoro del professionista, così da accrescerne la capacità produttiva.
E’ notorio che il lavoro dei dipendenti, con mansioni di portineria, negli studi dei medici di famiglia si risolve in un mero ausilio dell’attività intellettuale del professionista, consistendo esclusivamente nella ricezione delle telefonate dei clienti dello “studio” e di regolarne l’accesso allo studio. E’ notorio, altresì, che le dipendenti con tali mansioni non si occupano nemmeno della gestione interna delle pratiche (formazione delle cartelle del cliente, …); questo compito è svolto direttamente ed esclusivamente dai titolari degli studi medici ovvero da loro collaboratori in possesso degli stessi titoli professionali.
Il contribuente in giudizio ha affermato che la dipendente costituisce un mero ausilio alla propria attività professionale.
Dai documenti in atti non emergono elementi utili a dimostrare il contrario. Non risulta che il contribuente abbia collaboratori interni e/o esterni ovvero altri dipendenti, oltre quello di addetto alla portineria, con altre mansioni. Non risulta che il contribuente si sia avvalso della collaborazione di altri professionisti della stessa o di altre discipline; così come non risulta in atti che il lavoro svolto dalla dipendente fosse inserito in una organizzazione tale da assumere una valenza propria ed ulteriore da produrre un valore aggiunto a quello proprio del titolare dello studio professionale.
L’utilizzo di uno studio ove ricevere gli assistiti e di mezzi strumentali indispensabili per l’esercizio di detta professione, con l’apporto di un solo dipendente addetto alla portineria, non possono certamente andare a modificare la rilevata natura del rapporto professionale convenzionato, né costituire quell’autonoma organizzazione che giustificherebbe l’imposizione IRAP.
L’Ufficio finanziario, anche se è vero che, trattandosi di istanza di rimborso, l’onere della prova è posto in capo al contribuente, alle deduzioni di questi avrebbe dovuto controdedurre con fatti e circostanze idonee a corroborare la fondatezza della propria tesi dell’assoggettabilità de reddito prodotto dal contribuente all’imposta regionale sulle attività produttive.
Il caso in esame presenta la peculiarità dell’esercizio della professione medica in regime di “Convenzione” con l’ASL di Ragusa, per l’assistenza sanitaria di quei cittadini che lo hanno scelto come medico.
L’Ufficio, al di là di una affermazione di principio della ricorrenza dei presupposti impositivi in linea generale, non fornire alcuna prova che il caso in esame sia assoggettabile ad imposizione fiscale.
Per le superiori considerazioni, il ricorso sul punto è fondato e merita di essere accolto.
Il Collegio, pertanto, dichiara illegittimo il provvedimento di rigetto del Centro di servizio di Palermo del 23.3.2001, protocollo n. 03501AC012473/3, e conseguentemente dichiara il diritto del contribuente ad ottenere il rimborso dell’IRAP versata nell’anno d’imposta 1998 per l’importo di £ 5.599.000, oltre interessi e rivalutazione per legge a decorrere dalla data dell’istanza di rimborso.
La complessità delle questioni trattate, l’evoluzione legislativa, il dibattito di dottrina e giurisprudenza che ha portato anche a soluzioni diverse e contrastanti ed ancora in continua evoluzione soprattutto nei gradi di giudizi di merito, comporta la compensazione delle spese del giudizio.
PQM
La Commissione tributaria accoglie il ricorso e dichiara il diritto del ricorrente ad ottenere il rimborso dell’IRAP versata per l’anno d’imposta 1998 ed ammontante a £ 5.599.000, oggi € 2.891,64, con interessi e rivalutazione come per legge, con decorrenza dalla data di presentazione dell’istanza di rimborso. Compensa le spese del giudizio.
Così deciso in Ragusa il 22 giugno 2009
Il Relatore Il Presidente
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento