Jus poenitendi e rilevanza del benchmark nei contratti di gestione patrimoniale

Allegati

Con ordinanza pubblicata in data 18/08/2023, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su una controversia relativa a contratti di gestione patrimoniale sottoscritti da alcuni investitori ed un istituto di credito, cassando parzialmente una sentenza della Corte d’Appello di Bologna, nella specie impugnata dagli investitori.
Il caso merita di essere analizzato con particolare riferimento a due questioni, relative al cd. jus poenitendi previsto dall’art. 30 D.Lgs. n. 58/1998 (TUF) ed alle peculiarità del contratto di gestione patrimoniale.
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Corte di Cassazione -sez. I civ.- ordinanza n. 24839 del 18-08-2023

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Indice

1. La vicenda processuale: il primo grado di giudizio e la sentenza del Tribunale di Rimini sull’art. 30 TUF


All’esito del giudizio di primo grado, conclusosi nell’ormai lontano 2012, il Tribunale di Rimini aveva dichiarato la nullità dei contratti gestori per violazione dell’art. 30 TUF, statuendo che nel contratto di investimento concluso fuori dai locali commerciali della banca, l’acquisizione di un consenso informato sull’eventuale esercizio del diritto di recesso da parte dell’investitore entro il termine di sette giorni dalla sottoscrizione del contratto presupponesse un’idonea ed efficace distinzione “grafica” della clausola sul recesso all’interno del regolamento negoziale.
Il Tribunale romagnolo ha in tal senso concluso che non poteva attribuirsi alcuna efficacia allo jus poenitendi incluso nel regolamento negoziale, poiché tale disposizione non si differenziava in alcun modo in termini di visibilità nel contesto del modulo contrattuale, siccome inserita senza soluzione di continuità rispetto alle altre previsioni contrattuali e con il medesimo carattere e formato, tanto da renderla di fatto indistinguibile.
Secondo il Tribunale, pertanto, la dichiarata nullità dei contratti derivava dalla mancata sottoscrizione, ritenuta necessaria anche ex artt. 1341-1342 c.c., della clausola sul recesso in modo distinto, chiaro e separato, ciò che avrebbe assicurato un’effettiva conoscenza del diritto di recesso da parte degli investitori.


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2. (Segue): il secondo grado di giudizio e la riforma della sentenza di primo grado da parte della Corte di Appello di Bologna


La sentenza del Tribunale di Rimini è stata appellata dall’intermediario finanziario avanti alla Corte d’Appello di Bologna la quale, con sentenza emessa nel 2018, ha accolto il gravame stabilendo che non fosse occorsa alcuna violazione dell’articolo 30 TUF come invece ritenuto dal giudice di prime cure, dovendo ritenersi l’unico requisito richiesto dalla legge quello dell’indicazione da parte dell’intermediario dello jus poenitendi in favore dell’investitore, non imponendosi alcun obbligo di evidenziazione grafica o di particolare redazione dell’informativa sul recesso.
L’assunto è stato argomentato dalla Corte felsinea in base all’art. 14 delle Preleggi, rilevando, inter alia, che all’interprete non è consentito procedere a interpretazioni analogiche o estensive di norme eccezionali quali sono quelle relative alla previsione di particolari oneri formali restrittivi del principio di libertà delle forme contrattuali. Peraltro, la clausola relativa alla facoltà di recesso dell’investitore era stata riportata con i medesimi caratteri utilizzati per le altre clausole ed il regolamento negoziale aveva fatto espresso riferimento al diritto di recesso sia nelle premesse che nel contenuto del contratto. Inoltre, poiché la clausola in questione era stata redatta in favore del contraente debole, non poteva invocarsi il richiamo alla “sottoscrizione separata” ex art. 1341 e 1342 c.c. come invece statuito dal giudice di primo grado, evenienza giustificabile solo qualora la clausola fosse stata unilateralmente predisposta in favore del contraente “forte”, il che evidentemente non accadeva nel caso di specie.
Accolto il gravame principale, la Corte d’Appello è passata all’esame delle diverse domande e difese svolte in primo grado, così come riproposte dagli appellati e, per quanto di interesse ai fini del presente contributo, ha ritenuto infondata anche la censura relativa ai dedotti inadempimenti dell’intermediario finanziario agli obblighi della normativa settoriale finanziaria ratione temporis applicabile. Parimenti, il giudice di secondo grado ha ritenuto non accoglibile la censura relativa alla modifica unilaterale da parte della banca della linea gestoria di cui ai contratti di gestione patrimoniale oggetto di causa e ciò perché sul punto non erano state reiterate istanze istruttorie ed altresì perché, a dire della Corte d’Appello, gli appellati erano venuti meno all’onere di provare in cosa fosse consistita la difformità della strategia di investimento rispetto a quanto concordato, rendendo di fatto impossibile, la valutazione della relativa gravità (e ciò a maggior ragione, sempre ad avviso della Corte territoriale, in assenza di prova del nesso causale tra comportamento contestato e perdite subite dagli investitori).

3. (segue): L’ordinanza n. 24839/2023della Prima Sezione della Corte di Cassazione (il contratto, lo jus poenitendi e il benchmark


La sentenza della Corte d’Appello di Bologna è stata impugnata con ricorso in Cassazione da parte degli investitori, i quali hanno lamentato, in primo luogo, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 30 commi 6 e 7 e 21 comma 1 lett. a), b), c) e d) TUF, reputando che la Corte territoriale avrebbe errato nel considerare che l’intermediario finanziario possa astenersi dal riportare nel regolamento negoziale la clausola relativa allo jus poenitendi ricorrendo ad apposita evidenza grafica. Inoltre, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe errato anche perché non avrebbe preso in considerazione, nell’esame del merito della vicenda, i principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di trasparenza dei contratti finanziari e need of protection degli investitori codificati in particolare nella norma principio di cui all’art. 21 TUF; in tale prospettiva, il motivo di ricorso è stato argomentato richiamando il dovere di clare loqui dell’intermediario e specificando che un’informazione adeguata deve essere anche chiara, oltre che graficamente distinguibile e riportata in apposita modulistica (cfr. in argomento, tra le tante, Cass. civ., Sez. III, n. 7776 del 03/04/2014).
La Corte di Cassazione ha rigettato i suesposti motivi di ricorso, ritenendo sul punto condivisibili le osservazioni contenute nella sentenza impugnata e stabilendo che l’art. 30 commi 6 e 7 TUF non pone alcun obbligo di evidenziazione grafica, essendo all’interprete preclusa, ai sensi dell’art. 14 delle Preleggi, l’applicazione analogica di norme eccezionali, quale è quella contenuta nel TUF. In tal senso, l’obbligo di forma non può essere sancito al di fuori dei casi stabiliti dalla legge (come nel caso dell’ormai abrogato – ma all’epoca dei fatti di causa in vigore – art. 5 D.Lgs. n. 50/1992 che prevedeva un’indicazione grafica evidenziata riferita al diritto di recesso del consumatore nei contratti conclusi fuori dai locali commerciali).
La Suprema Corte ha altresì ritenuto condivisibile il rilievo della Corte territoriale secondo cui l’avviso relativo allo jus poenitendi ex art. 30 TUF non deve essere indicato in un documento separato ed appositamente sottoscritto. E, secondo l’ordinanza in commento, nemmeno occorre l’obbligo di specifica sottoscrizione la quale invece è configurabile solo se la clausola soggetta a doppia sottoscrizione è vessatoria e quindi stabilisce condizioni per il contraente “forte”.
A tutt’altro esito ha condotto la disamina di ulteriori motivi di ricorso avanzati dagli investitori in relazione al mutamento della linea gestoria. Con riferimento a tali motivi il ricorso è stato infatti accolto, reputandosi sussistente da parte del Supremo Consesso la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 comma 1 e 3 c.p.c. avendo la Corte d’Appello omesso di considerare una circostanza pacifica tra le parti, ossia la modifica operata unilateralmente dalla banca della linea di gestione contrattualizzata, ciò che configura omissione dell’esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n.5 c.p.c.
La Cassazione ha sul punto rilevato come i ricorrenti abbiano riportato, attraverso una specifica deduzione, gli atti del giudizio di merito dove la banca non aveva contestato (ed anzi aveva ammesso) tale modifica unilaterale, operata senza consenso dei ricorrenti, quale giustificazione alla base dell’allegato inadempimento contrattuale degli obblighi convenzionalmente assunti dall’intermediario finanziario, risultando per ciò solo il giudizio della Corte di Appello irrimediabilmente viziato.
L’ordinanza in commento ricorda che la stessa giurisprudenza della Cassazione ha avuto occasione di che nei contratti aventi ad oggetto la gestione di portafogli di valori mobiliari, il “benchmark”, cioè la linea d’investimento prescelta dal cliente, di cui all’art. 42 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, importa la costituzione di obblighi di condotta da parte del gestore, rappresentando un parametro di riferimento coerente con i rischi della gestione, al quale devono essere commisurati i risultati di questa; pertanto il “benchmark” prescelto, se anche non impone al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, costituisce un modo per valutare la razionalità e l’adeguatezza dell’attività dell’intermediario, derivandone che, ove la gestione sia risultata in contrasto con il predetto parametro e, quindi, con i rischi contrattualmente assunti dall’investitore, l’intermediario risponde delle perdite che il cliente abbia subìto in conseguenza (così Cass. civ., Sez. I, n. 23568/2020).
Ritenuti assorbiti i restanti motivi di ricorso, la sentenza della Corte d’Appello di Bologna è stata dunque parzialmente cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello in diversa composizione affinché la stessa si pronunci in relazione ai profili appena sopra disaminati.

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