Jus variandi e demansionamento;il rifiuto della prestazione

 

Nel potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro è incluso lo jus variandi,ossia il potere delle stesso di apportare variazioni alla posizione e alle mansioni dei propri dipendenti ( p.es. lo spostamento da uno ad altro reparto o da uno ad altro ufficio o ancora nello stesso reparto o ufficio da una ad altra mansione).

La normativa

L’art.2103 del codice civile regolamenta tale materia.

In origine il suddetto articolo prevedeva che il datore potesse operare a sua discrezione. Più propriamente l’imprenditore, salvo diverso accordo, poteva, in relazione alle esigenze dell’impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione  diversa   purche’  essa  non importasse una diminuzione nella retribuzione o “un mutamento sostanziale nella posizione di lui”.

Successivamente con lo Statuto dei lavoratori furono introdotti dei limiti stringenti a tale potere.

Si richiese che il lavoratore potesse essere adibito alle mansioni di prima assegnazione o a quelle equivalenti  a quelle  successivamente assegnategli.La normativa in oggetto dichiarava nullo ogni patto contrario.

Si poneva subito il problema di dare significato al termine”equivalenza” contenuto nella norma.L’interpretazione giusisprudenziale si faceva via via più restrittiva fino a richiedere che fosse salvaguardata non solo la professionalità acquisita ma anche la professionalità futura del lavoratore.

Ciò creava una grossa difficoltà operativa per il datore di lavoro.

L’opera della magistratura

Con la volontà di allargare le strette maglie dello jus variandi intervenne più volte la magistratura che introdusse delle eccezioni al divieto legale di demansionamento.  Con un grosso stacco da un consolidato orientamento ,si affermava che la contrattazione collettiva, muovendosi nell’ambito, e nel rispetto, della prescrizione posta dal primo comma dell’art. 2103 cod.civ. – che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale ed essendo riconducibili alla matrice comune che connota la declaratoria contrattuale – è autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra le mansioni per “sopperire a contingenti esigenze aziendali….. senza incorrere nella sanzione della nullità comminata dal secondo comma del citato art. 2103 cod.civ “.Vedi  Sentenza 24.11.2006 n. 25033 delle Sezioni unite.

In contrasto  con  l’ultimo citato, un nuovo  orientamento , più restrittivo sotto questo aspetto,   enunciava che  la nullità di patti contrari al divieto  di declassamento di mansioni, previsto dal capoverso dell’art.2103 c.c., si applica anche alla contrattazione collettiva ,come si desume in positivo ,dal dettato normativo dell’art.40 della legge n.300 del 1970,che fa salve  le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più  favorevoli ai lavoratori, mentre si applica in forza di altre disposizioni con cui, eccezionalmente ,il legislatore ha invece autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del comma primo dell’art.2103 c.c.,quale l’art.4,comma 11,della legge n. 223 del 1991 secondo cui “gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti,possono stabilire,anche in deroga al comma secondo del 2103 c.c.,la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”.

Tuttavia , si aggiunge ,la giurisprudenza di legittimità è ormai definitivamente consolidata nel senso che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato…non è ravvisabile per effetto della sola inesigibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro ,perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività ,che sia riconducibile-alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede-alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art.2103 c.c.)” o ,se ciò è impossibile,a mansioni anche inferiori ,purchè tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore………Si è anche precisato che il cosiddetto patto di dequalificazione ,quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro costituisce non già una deroga all’art.2103 c.c. , norma diretta alla regolamentazione dello “jus variandi” del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del comma secondo dello stesso articolo ,bensì adeguamento ( ns.sottolineatura ndr  ) del contratto alla nuova situazione di fatto ,sorretto dal consenso e dall’interesse del lavoratore” .Pertanto , in sintesi,la validità del patto presuppone l’impossibilità sopravvenuta  di assegnare mansioni equivalenti alle ultime esercitate e la manifestazione sia pure in forma tacita-alla disponibilità del lavoratore ad accettare quelle inferiori. V. Cass. 25.11.2010 n 23 926.

Con l’aggravarsi della crisi economica si sono affermate posizioni dirette a salvaguardare il posto di lavoro ritenendolo bene più importante della stessa professionalità del lavoratore.

Altro orientamento giurisprudenziale si muoveva,infatti, in tale direzione. Si affermava che ove il demansionamento rappresentasse l’unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sarebbe stato onere del datore di lavoro, proprio in attuazione dei principi di correttezza e buona fede che governano il rapporto di lavoro, rappresentare al lavoratore la possibilità di una assegnazione a mansioni inferiori compatibili con il suo  bagaglio professionale “né  [si] ritiene che ai fini di cui trattasi sia necessario un patto di demansionamento ovvero una richiesta del lavoratore in tal senso

anteriore o coeva al licenziamento”.v.Cass. 19 novembre 2015 n.23698.

Ancora la Cassazione,v.Cass.28 ottobre 2015 n.22029,si mostra , per così dire,più liberale rispetto ai divieti di cui all’art.2103 c.c. ,introducendo quasi un automatismo quando afferma la “possibilità di demansionare il lavoratore ove ciò costituisca l’unica alternativa ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ciò anche al di la’  dell’ esistenza di apposite clausole di fungibilità funzionale.”

Le modifiche nella legislazione

Sotto l’influsso di tali tendenze e sotto l’impulso della avanzante crisi economica e produttiva,nella stessa direzione, di allargare le maglie, si è mossa ,di conseguenza ,il legislatore.

Il decreto legislativo n.81 del 25, giugno 2015 , c.d. Jobs Act, art.3,  prevede  infatti che <il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello o categoria legale d’inquadramento delle ultime effettivamente svolte>.

L’art. 3 continua <  In caso di  modifica  degli  assetti  organizzativi  aziendali  che incide  sulla  posizione  del  lavoratore,  lo  stesso  puo’   essere assegnato  a  mansioni  appartenenti  al  livello  di   inquadramento inferiore purche’ rientranti nella medesima categoria legale. >.

 

Tale comma apriva al datore di lavoro molte opportunità di utilizzo flessibile della forza lavoro.La generica affermazione di “assetti organizzativi” fa sì che vi possano rientrare anche piccole modifiche nei processi produttivi e nelle strutture organizzative nonché l’introduzione di procedure informatiche.

Ci si chiede ,oggi, se sia legittimo il demansionamento conseguente al rifiuto del vaccino da parte del personale sanitario.Al momento si è pronunciato il Tribunale di Roma,Sezione lavoro, con ordinanza  28 luglio 2021- successivamente all’emanazione del Decreto legge n.44/21-  che ha ritenuto   la  validità della sospensione dal lavoro  e dalla retribuzione per inidoneità di una dipendente che non svolgeva né professione sanitaria né professione di interesse sanitario, che abbia rifiutato la vaccinazione e che sia stato dichiarata dal medico  competente idonea con limitazioni alla mansione, ove non possa essergli assegnata altra mansione, a parer nostro anche inferiore, ricorrendo le  sù richiamate ragioni organizzative.

Il nuovo inquadramento dei lavoratori dipendenti

Di più, la recente introduzione  , con l’accordo di rinnovo del c.c.n.l. delle imprese metalmeccaniche e dell’installazione degli impianti del 25 febbraio 2021, di una nuova classificazione dei lavoratori ,per ora nel settore metalmeccanico, e certamente in seguito in tutti gli altri settori merceologici , si muove nella stessa direzione, favorendo la flessibilità della mano d’opera, adeguata ai progressi tecnoligici (industria 4.0 e globalizzazione del mercato del lavoro).

Abusi del datore di lavoro                                                

Un freno ad abusi da parte del datore di lavoro in tale materia era comunque rappresentato dall’art. 2087 c.c. che  salvaguarda la personalità morale del lavoratore prima che i diritti della persona fossero elevati dal successivo testo costituzionale  al rango di diritti  costituzionalmente garantiti.- v.. Cass, SS,UU  n. 26972/2008.

 

Rimedi contro gli abusi del datore di lavoro

A fronte di abusi da parte del datore di lavoro sono previste alcune tutele importanti a favore del lavoratore ,il rifiuto della prestazione ( art. 1460 c.c.: exceptio inadimpleti)  il risarcimento del danno patrimoniale,il risarcimento del danno  non patrimoniale

Con riguardo all’ art.1460 c.c. vige il consolidato orientamento  della  Corte di Cassazione che ritiene legittimo, nel contratto a prestazioni corrispettive ex art. 1460 cod.civ., il rifiuto da parte del lavoratore di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettantegli, sempre che tale rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e sia conforme a buona fede;in particolare si ritiene che il lavoratore non può rendesi totalmente inadempiente alla prestazione sospendendo ogni attività ove il datore assolva a tutti gli altri obblighi( pagamento della retribuzione,copertura previdenziale e assicurativa,assicurazione del posto di lavoro) potendo-una parte-rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 c.c. soltanto se è inadempiente totalmente anche l’altra parte. V. Cass.18 gennaio 2018 n.836.

Tuttavia, secondo talune magistrature di merito, v. ad es. Corte di Appello di Firenze 5 giugno 2014, ove il demansionamento leda  la dignità del lavoratore   in modo rilevante lo stesso può rifiutare la prestazione senza incorrere nella sanzione del licenziamento.

Al lavoratore spetta il risarcimento del danno patrimoniale: tale danno secondo i giudici di legittimità può essere liquidato secondo equità ex art. 1226 c.c. , v. Cass. Ord. n.1605 /2010.Esso deve essere riferito a ogni perdita di guadagno, conseguente all’illegittima modifica delle mansioni, v. Cass.n.7046/2010: più precisamente si parla di

a) impoverimento della capacità professionale;

b) mancata acquisizione di un maggior saper fare;

c) perdita di chance ossia di ulteriore possibilità di guadagno e di ulteriori potenzialità di mercato.

Al lavoratore ,inoltre,  spetta il risarcimento del  danno non patrimoniale : pregiudizi alla professionalità intesa,questa volta,come sviluppo della personalità del lavoratore nella formazione sociale costituita dall’impresa trovarono tutela piena  con l’introduzione della Carta costituzionale e con il successivo collegamento operato dalla giurisprudenza tra l’art. 2059 c.c. e gli artt. 2 e 4 della Costituzione.

Più specificatamente il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale ,del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello, determinando danni riconducibili nell’ambito del danno non patrimoniale. Orbene, secondo la giurisprudenza della Corte, la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può  essere effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali (Cass. n. 8827 del 2003).

In definitiva la professionalità del lavoratore va vista sotto i due profili, quello meramente patrimoniale di mercato e quello di sviluppo della personalità, le cui violazioni vanno entrambe  sanzionate e il cui conseguente danno va  integralmente  risarcito.

In Sintesi

Può dirsi che nel corso del tempo  se da un lato, sostanzialmente. i poteri del datore di lavoro e nella specie lo jus variandi si sono  ampliati in forza di legge consentendogli un migliore utilizzo della forza lavoro, nello stesso tempo è stata fornita dalla giurisprudenza   una maggiore tutela anche al lavoratore con riferimento al mantenimento dell’occupazione in un momento di grave crisi economica che sovente la minacciava e con il riconoscimento di ulteriori tutele nel caso di abusi da parte del datore di lavoro; in particolare è necessario sottolineare la delicatezza dello strumento difensivo del rifiuto della prestazione che deve esse oggetto di attenta valutazione da parte del giudice che dovrà tener  conto della “proporzionalità” della reazione ex art.1460 c.c.. in relazione  alla maggiore consapevolezza maturata in questi ultimi tempi del valore della persona e della dignità del lavoratore [ v. il caso di un responsabile –inquadrato in v^ Super con responsabilità di comando su altri lavoratori -messo a eseguire compiti meramente esecutivi e addirittura utilizzandolo a eseguire lavori di bassa manovalanza come la pulitura del piazzale esterno. V. Cass.16 gennaio 2018 n.836 in Giurisprudenza italiana aprile 2018 pag.910].

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Avv. Viceconte Massimo

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