All’art. 13, can. 1, C.D.F. si legge che: «È dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori nei quali svolga l’attività».
La proposizione di principio è quindi data da un dovere di contenutistica professionale, da una assicurazione di preparazione e capacità, competenza ed aggiornamento, riassumibili nel distico di competenza/e-aggiornata/e; che costituisce (deve costituire) patrimonio indiscutibile d’ogni buon difensore.
Il dovere di competenza è peraltro estensivamente sancito dall’art. 12, stesso codice, che prevede una capacità, particolarissima e delicatissima, del professionista: quella di rinunziare ad incarichi che sappia non poter adeguatamente svolgere.
Lì dove la competenza al caso deficiti, il professionista dovrà sottoporre la sua persona ad una necessità di delucidazione nei confronti dell’assistito, e concernente la propria inabilità, oppure esporre la opportunità d’una integrazione della difesa.
La norma – è da notare – parla di assistito non a caso; lasciando intendere letteralmente che esiste già un rapporto tra l’avvocato ed il c.d. cliente, e che non si tratta di pratica e persona nuove.
Se fossimo, è naturale, al primo incontro col soggetto necessitante d’assistenza tecnica, che espone una questione non sostenibile da noi per deficitaria conoscenza in termini tecnici (nei campi sia del giudiziale che dello stragiudiziale) non saremmo sottoposti all’obbligo di comunicazione, dato che non vi sarebbe assistito e nemmeno – nella formula linguistica più ampia e meno consona – cliente. Non vi è obbligo d’informare un “estraneo” della mancata conoscenza di materie, prassi e questioni giuridiche, potendo benissimo anche mentire. Avanzando, ad esempio, l’ipotesi d’esser troppo oberati di lavoro nell’ultimo periodo, da non poter proprio aggiungere la pratica alle questioni trattande.
Se invece si tratta di un assistito in senso stretto, ossia persona (fisica o giuridica) per la quale si sono posti in essere interventi operativi e si è giunti ad un punto di stasi e/o semplice incertezza per il futuro della propria azione (propria azione, sia detto per inciso, nel senso d’obbligazione di mezzi e non di risultato; possibile normativamente – oggi – quest’ultima soltanto con scelta d’accordo patrizio su quota-lite), si è tenuti a comunicare di essere sforniti delle competenze appropriate ed offrire, al più, l’associazione ad un collega esperto nel settore subentrante. E «l’opportunità della integrazione della difesa con altro collega» non è – come da disattente letture e discendenti disattente prassi scaturenti appare – una facoltà soggettiva del difensore. Egli non è libero in questa scelta; può soltanto proporla quale soluzione alternativa al dovuto atto di abbandono dell’incarico.
È da valutare inoltre, che potrebbe discendere da questa doppia difesa, doppia richiesta di spettanze, o comunque un aumento delle voci da coprire in NOTA SPESE qualora si dovessero onorare le consultazioni col collega più esperto.
Pur tacendo l’art. 12 sul tema, si ritiene ricompresso estensivamente tra gli obblighi d’informativa del legale quello della necessità di richiesta pareri a terzi competenti, con refusione-ripetizione di “emolumenti”, e con tutti i problemi interpretativi ed applicativi ultronei ed esulanti da questo contesto di scrittura, poiché concernenti le consulenze prestate non da altro avvocato, ma da diverso esperto del diritto rivestente funzione pubblica, o comunque professionalità di concetto libera e di fatto accedente alla natura d’altro servizio pubblico.
Ritornando al tema principale per breve tratto dimesso, possiamo asserire con assoluta certezza che il DOVERE DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE (rubricato all’art. 13 C.D.F.) si sostanzia nell’essere professionale dell’avvocato. E la professionalità intesa dall’articolo in questione concerne la cura della preparazione, attraverso la di essa conservazione (patrimonio di conoscenza da preservare e non disperdere) ed accrescimento (approfondimento); rimirando ai settori nei quali si svolge l’attività.
Tale assunto contenutistico (c.d. comunemente BAGAGLIO CULTURALE) è codificato, nello stesso articolo e testo, col distico FORMAZIONE PERMANENTE. Tale formazione è composta dallo studio individuale e dalla partecipazione ad iniziative acculturanti di settore. All’uopo è dovere deontologicamennte rilevante il rispetto dei regolamenti promananti dal CNF e dal Consiglio dell’Ordine d’appartenenza, aventi ad oggetto obblighi e programmi formativi.
Dà nuova vita a questi punti-concetti-assunti, almeno in parte, non potendo disporre sulla formazione concreta (distrazione e partecipazione formale, non sostanziale, agli eventi formativi) e di studio effettivo posti in essere dal professionista (praticante abilitato od avvocato), il regolamento sulla formazione continua, approntato dal CNF il 13 luglio 2007.
Accennando appena che l’espressione contenuta nel codice etico «FORMAZIONE PERMANENTE» è del tutto sovrapponibile a quella regolamentare di «FORMAZIONE CONTINUA», ora ne analizzeremo i contenuti, riportandoli alla deontica appena richiamata.
Ai Consigli dell’Ordine degli avvocati sono affidati compiti d’interesse pubblico, quali l’interesse della collettività al corretto esercizio della professione e la garanzia di competenza e professionalità degli iscritti.
Quella che in apice definivamo come proposizione di principio, sussulta anche nel Preambolo al Codice Deontologico Forense, vede attribuito al CNF il potere di determinazione di precetti etici, ai quali anche la Cassazione a Sezioni Unite ha conferito altezza di normazione giuridica.
Il CNF, nel presentare il Regolamento, tiene a sottolineare che, per il tramite del processo formativo continuo, l’operatore sarà in adeguato contatto con il DIRITTO VIVENTE, e necessario è vieppiù questo contatto in un sistema dalla normazione complessa e continua produzione giurisprudenziale.
Vedremo ora come il codice deontico si trasfonda, per le parti concernenti l’aggiornamento professionale e la relativa responsabilità omissiva, nel Regolamento per la formazione professionale continua, approvato dal CNF il 13 luglio del 2007 ed entrato in vigore il 1° settembre 2007.
Ex art. 17 bis del Codice «l’avvocato può dare informazioni sulla propria attività professionale» ed «Il contenuto […] dell’informazione [deve rimirare all’]affidamento della collettività e rispondere a criteri di trasparenza e veridicità […]».
È asserita anche la possibilità di organizzare corsi di formazione e convegni. Tali attività, precisa il Regolamento all’art. 4 lett. e), devono essere preventivamente autorizzate dai Consigli dell’Ordine competenti.
Al co. 5 art. 2 Reg. è precisato che l’iscritto (intendendosi per tale all’art. 1 il praticante abilitato e l’avvocato) che intende con le modalità consentite (elencate tassativamente all’art. 17 del Codice) informare i terzi sulla propria attività prevalente «dovrà aver conseguito nel periodo di valutazione che precede l’informazione, non meno di 30 crediti formativi nell’ambito di esercizio dell’attività professionale che intende indicare».
Il credito formativo è l’unità di misura che, sommata ad altre unità dello stesso genere, permette la formazione professionale continua (art. 4, co. 4, Reg.), e con tale ultima espressione è da intendersi «ogni attività di accrescimento ed approfondimento delle conoscenze e competenze professionali […]».
La formazione (rectius, il suo periodo. Che andrà a sommarsi ad altro identico senza soluzione reale, ma solo formale, di continuità) coincide con l’anno solare (art. 2, co. 1, ult. cpv, Reg.), e si sostanzia nel triennio di formazione; periodo di valutazione della formazione continua.
Ogni iscritto deve conseguire, nel detto triennio, 90 crediti formativi, di cui almeno 20 in ogni singolo anno.
Calcolo semplice vuole però che, moltiplicando 20 per 5 s’ottenga 60. E ciò fa porre la domanda sulla necessità di eventuale recupero dei restanti 30 crediti mancanti al momento dei 90.
Penso che la risposta al quesito sia ricavabile dall’art. 5 Reg. (rubricato ESONERI), che prevede un esonero totale ma anche parziale – ed è quello che qui rileverebbe – cui consegue una riduzione dei crediti formativi.
Al co. 2 di tale articolo è detto che «Il Consiglio dell’Ordine […] può esonerare, anche parzialmente determinandone contenuto e modalità […]».
Se consideriamo però la questione dei 60 crediti suesposta e l’art. 1 – in questa sua parte – sovraordinato all’art. 5 dello stesso Reg., dovremmo concludere che il C.d.O. determina il contenuto dell’esonero non potendo discostarsi dal limite dei 20 crediti annuali e/o 60 triennali.
Ogni iscritto è libero di scegliere gli eventi e le attività formative (art. 2, co. 4, Reg.) da svolgere; tra quelle – aggiungiamo e coordiniamo – proposte dal C.d.O. o dal CNF, e comunque da questi enti accreditati. Inoltre, disposizioni sull’attività dei Consigli, anche in concerto tra loro, per garantire l’offerta formativa, come rinvenibili e leggibili senza particolari questioni giuridiche, nell’art. 7 Reg.
La formazione va adeguatamente assolta (art. 3 e 4 Reg.) e documentata (art. 6, co. 1, Reg.).
Il venir meno a questi obblighi costituisce illecito disciplinare (art. 6, co. 2, Reg.) ed il C.d.O. , al fine del sanzionare, potrà porre in essere gli opportuni controlli e le altre iniziative e deleghe ex art. 8 Reg.
Ogni avvocato e/o praticante abilitato potrà autodefinirsi e dichiararsi esperto in una data materia a seconda dei crediti formativi tesoreggiati nel periodo di riferimento e, naturalmente, dovrà mantenere lo standard acquisitivo per poter documentare a terzi la propria qualifica. Questo almeno fino a quando il CNF non adotterà, come preavvertito nel preambolo d’intenti al Regolamento, un diverso e separato regolamento per l’aggiornamento dell’attività “specialistica”. Immaginiamo e speriamo anche che la futura regolamentazione si prodighi nel chiarimento delle differenze fra attività generalista, prevalente o specialistica; dando per certo che prevalente e specialistica siano termini, allo stato ed escludendo le menti accademiche, intercambiabili, e che la formazione generalista sia abbastanza ricompressa nel testo già approntato ed operativo.
È certo che tutti gli avvocati dovrebbero essere esperti in deontologia, dato che è assicurato al curriculum d’ognuno un buon numero, imprescindibile ed impermutabile, di crediti tematici. Anche se la norma transitoria posta in pedice al regolamento quivi sinteticamente trattato riduce notevolmente, al fine d’un opportuno periodo di riscaldamento atletico, le “raccolte punti” dei legali italiani.
Avv. Monica Cito
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