Massima
L’amministratore del condominio riveste una specifica posizione di garanzia, su di lui gravando l’obbligo ex art. 40, comma 2, c.p. di attivarsi al fine di rimuovere la situazione di pericolo per l’incolumità di terzi integrata da avvallamento o sconnessioni della pavimentazione in prossimità di un tombino deputato all’esercizio di una servitù di acque meteoriche a vantaggio dell’edificio condominale, ciò costituendo una vera e propria insidia o trabocchetto, fonte di pericolo per i passanti ed inevitabile con l’impiego della normale diligenza. (Fattispecie di lesioni colpose gravi causate da un avventore della farmacia posta nello stabile condominiale dall’omesso livellamento della pavimentazione).
Commento
La sentenza affronta l’argomento della responsabilità dell’amministratore con riferimento ai danni che si possono causare a terzi per la non adeguata manutenzione della pavimentazione. Con la decisione in rassegna la Cassazione stabilisce che in capo all’amministratore grava l’obbligo di attivarsi al fine di evitare le situazioni di pericolo dalle quali possano derivare danni ad altre persone.
La corte d’appello accoglie i motivi di ricorso proposti dal Procuratore Generale presso la Cote d’appello e dalla parte civile contro la sentenza di assoluzione pronunciata del giudice di Pace, dichiarando così l’amministratore di condominio responsabile ai sensi dell’articolo 590 c.p., commi 1 e 2, perché ha omesso di eliminare un avvallamento che si trovava tra il pavimento ed il tombino condominale, posto sul marciapiedi che conduce ad una farmacia situata al piano terra dello stesso condomino. In particolare, non aver provveduto a far eseguire i lavori per il ripristino del marciapiede, costituisce un’omissione dovuta ad imprudenza, imperizia e negligenza. Con tale omissione l’amministratore ha consentito o comunque non ha impedito che un passante inciampasse riportando lesioni personali gravi.
Nella sentenza in discorso emerge anche l’argomento relativo alle modalità con cui il PM e la parte civile possono impugnare la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di Pace.
Il ricorrente lamenta che il Procuratore Generale di Firenze ha impugnato la sentenza in Appello, essendo invece in tal caso prevista come unica modalità il ricorso per Cassazione. Lamenta, altresì, che il gravame non può comunque tramutarsi in ricorso per Cassazione perché attiene a questioni di fatto e di merito.
A tale proposito il giudice delle leggi ribadisce (in quanto vi è un precedente della stessa Cassazione e stessa Sezione, con sentenza n. 47995 del 2009) che è inammissibile l’appello proposto dal PM contro la sentenza di assoluzione emessa dal Giudice di pace. È inammissibile perché l’unico mezzo di impugnazione previsto è il ricorso per cassazione di cui all’art. 36, D.L.vo n. 274 / 2000.
Il giudice di legittimità perciò dichiara fondato tale (primo) motivo di ricorso.
La parte civile invece può proporre l’appello contro la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di Pace, “agli effetti del riconoscimento della responsabilità civile dell’imputato”, così come previsto in via generale dall’art. 576 c.p., nonché da quanto stabilito sia dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 302 / 2008 con specifico riferimento alle sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace, e sia dalla Corte di Cassazione Penale, S.U. n. 27614 / 2007 per quanto riguarda in generale le sentenze di proscioglimento emesse in primo grado.
Dunque, contro la sentenza di assoluzione del giudice di pace:
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il PM può proporre soltanto ricorso per cassazione (art. 36, D.L.vo n. 274 / 2000),
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la parte civile può proporre l’appello ma solo agli effetti del riconoscimento della responsabilità civile dell’imputato. Però può proporre soltanto il ricorso per cassazione (ma non è questo il caso affrontato dalla sentenza perché è stato promosso dal P.M. con decreto di citazione) se il procedimento davanti al Giudice di Pace è stato instaurato con ricorso immediato (art. 21, D.L.vo n. 274 / 2000).
Il ricorrente sostiene inoltre (con un secondo ordine di censure) che l’amministratore non aveva mai ricevuto dall’assemblea alcun incarico di provvedere alla eliminazione di potenziali situazioni di pericolo, mediante la messa in pristino della succitata pavimentazione sconnessa. Ed è per tale ragione che – ad avviso del difensore – non gli si può conseguentemente attribuire alcun comportamento penalmente rilevante perché non si può pretendere dall’amministratore alcuna condotta positiva.
In riferimento a queste doglianze, il giudice di legittimità dichiara infondato il ricorso e ribadisce l’importante principio secondo il quale la ricostruzione in fatto, con la valutazione di quanto è emerso nel processo effettuata dalla Corte d’Appello – che ha motivato in modo congruo ed esaustivo – “non è più rivisitabile in sede di legittimità”. Sostiene poi che “l’unico responsabile del fatto doveva ritenersi l’imputato in veste di amministratore del condominio”. Responsabilità che sorge proprio a causa dell’omissione sopra descritta, e cioè “per aver colposamente omesso di sistemare il passaggio pedonale”.
Emerge ora quello che potrebbe essere considerato come il punto centrale della sentenza.
Come è noto, l’articolo 40 cpv, del codice penale, dice che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo di giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Questa norma viene richiamata dalla corte di legittimità, ed afferma che in capo all’amministratore grava proprio quell’obbligo giuridico di cui parla il succitato articolo, in quanto egli riveste “una specifica posizione di garanzia”. Per tale ragione l’amministratore è obbligato ad “attivarsi al fine di rimuovere” quelle situazioni che mettono in pericolo l’incolumità di terzi.
Nel caso di specie le sconnessioni e gli avallamenti accertati costituivano una “vera e propria insidia o trabocchetto”, ed il pericolo da essi causato non poteva essere evitato “nemmeno con l’impiego della normale diligenza”.
Oltre all’obbligo previsto dalla suddetta norma penale, la corte di legittimità sostiene altresì che il dovere di attivarsi discende anche dall’art. 1130, n. 4, così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità in base alla quale tale dovere prescinde “da specifica autorizzazione dei condòmini” e prescinde anche “che si versi nel caso di atti cautelativi ed urgenti”.
Infine, la Corte richiama l’art. 1135, ultimo comma, c.c., secondo il quale l’amministratore in caso di urgenza può ordinare l’effettuazione della manutenzione straordinaria, dopodiché ne riferirà alla prima assemblea.
In conclusione, con la pronuncia in rassegna, si è notato come può nascere la responsabilità penale dell’amministratore in caso di danni causati a terzi per la cattiva manutenzione della pavimentazione. Infatti, la Corte di Cassazione ha statuito che l’obbligo di eliminare “un’insidia o trabocchetto” presente nella pavimentazione sconnessa nasce:
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dall’art. 1130, n. 4 c.c. secondo il quale l’amministratore ha l’obbligo di: “compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio”. Il ripristino della pavimentazione rappresenta, appunto, un intervento conservativo del diritto, (tale norma, a seguito della modifica introdotta con L. 11 dicembre, n. 220, recita: “compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni”),
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dall’art. 1135, ultimo comma, c.c., in quanto, considerato che vi è pericolo per l’incolumità dei passanti, si tratta di una manutenzione straordinaria a carattere urgente.
Da tutto ciò ne consegue l’obbligo di attivarsi ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p..
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