Dopo la dichiarazione di nullità del matrimonio da parte del Tribunale ecclesiastico la moglie è contraria alla delibazione (atto che convalida lo scioglimento del contratto matrimoniale) in Italia, pertanto dopo i vari passaggi tra Tribunali – ecclesiastico e d’Appello – la diatriba approda in Corte di Cassazione.
I Supremi Giudici, sentenza n. 17465/2011, confermano il giudizio della Corte d’Appello di Bologna dichiarando la validità giuridica dell’annullamento del vincolo matrimoniale espresso dalla ********** di Modena su tutto il territorio nazionale compensando le spese tra le parti.
La turbolenta storia sentimentale tra i due costellata da instabilità affettiva da parte del fidanzato che non rinunciava a frequentare altre donne benché impegnato, l’induzione alle “nozze riparatrici” per lo stato di gravidanza della fidanzata e le invocazioni – in svariate occasioni – di poter divorziare, sono per gli Ermellini, evidenti segnali di assenza di uno dei bona matrimonii: indissolubilità del vincolo coniugale da parte dell’uomo. Tale assenza è stata desunta dal vaglio delle prove raccolte in primis dal Tribunale ecclesiastico ed in secundis dalla Corte d’Appello di Bologna da cui emerge che la donna ne era consapevole sia per il comportamento tenuto sia per le varie esternazioni del fidanzato/marito.
La Cassazione nel rigettare il ricorso motiva che “va delibata la sentenza ecclesiastica che abbia pronunciato la nullità del matrimonio per esclusione, da parte di uno dei coniugi, dei bona matrimonii, purché tale divergenza tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge o da questo conosciuta o comunque conoscibile con ordinaria diligenza. Il giudice italiano, dovendo esprimere una valutazione, estranea all’oggetto del giudizio canonico, di garanzia dell’affidamento negoziale incolpevole da parte del coniuge, può provvedere ad un’autonoma valutazione delle prove, secondo le regole del processo civile (sul punto, tra le altre, Cass. n. 2467 del 2008).”……”Il giudice a quo esprime una valutazione di fatto, insuscettibile di controllo da parte di questa Corte, sorretta da motivazione adeguata e non illogica.”
Sia il matrimonio civile che il matrimonio concordatario possono essere dichiarati nulli.
Bisogna precisare:
1) In tema di matrimonio concordatario, non è corretto parlare di annullamento, ma di dichiarazione di nullità, suscettibile di ottenere effetti civili mediante delibazione della sentenza ecclesiastica. Si ribadisce che la riserva mentale costituisce un ostacolo alla delibazione se il coniuge che non l’ha posta era in buona fede e si oppone alla declaratoria di efficacia civile; essa non impedisce invece la delibazione se è lo stesso coniuge in buona fede a richiedere la declaratoria degli effetti civili .
2) Ciò che viene delibato non è il “rito matrimoniale ecclesiastico”, bensì la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario. Non va poi confuso il processo canonico di nullità (che è solo ecclesiastico) con il procedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica (che è invece solo civile), attivabile unicamente su richiesta di almeno uno dei coniugi e che è notevolmente e notoriamente più breve (ed anche meno costoso) di un procedimento civile di nullità oppure di una separazione o di un divorzio contenziosi.
3) Una volta delibata la sentenza ecclesiastica, non è esatto affermare che è come se il matrimonio non fosse mai stato celebrato, perché divengono applicabili le disposizioni del codice civile sul matrimonio putativo; se poi la delibazione intervenisse dopo che è passata in giudicato la sentenza di divorzio, addirittura non verrebbero meno neppure le statuizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio.
4) L’inconsumazione non è certo un motivo di nullità, ma di scioglimento del matrimonio mediante dispensa papale (logicamente con effetti ex nunc!), come accade anche nell’ordinamento italiano, che prevede l’ipotesi del divorzio per inconsumazione (legge 898/1970, art. 3, n. 2), lett. f). Il riconoscimento della dispensa papale agli effetti civili, previsto dal Concordato del 1929, non era più possibile già a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 18 del 1982 ed ora non è più contemplato dalla vigente normativa concordataria.
La dichiarazione di nullità, quindi, è disposta se vi è una violazione della legge in maniera irreparabile, che stabilisce i requisiti per la celebrazione del matrimonio e gli impedimenti dei coniugi.
Solitamente i motivi per la pronuncia sono:
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mancanza di fedeltà;
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l’indissolubilità del vincolo;
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la procreazione;
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l’impotenza dell’uomo e della donna;
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l’esclusione di una delle finalità essenziali del matrimonio
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la violenza fisica ed il timore,;
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l’errore sulla persona del coniuge.
Una volta ottenuta la pronuncia del tribunale ecclesiastico, per ottenere gli effetti dello stato libero derivanti dall’annotazione della sentenza presso i registri dello stato civile, occorrerà chiedere alla Corte d’appello la declaratoria di validità attraverso un procedimento detto “giudizio di delibazione”.
La sentenza ecclesiastica di nullità resa esecutiva con la delibazione permetterà di celebrare nuove nozze con rito religioso cattolico.
A differenza di quanto sopra, la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio produce quale effetto principale il venir meno di tutti i diritti e doveri reciproci dei coniugi ad eccezione dell’obbligo di pagamento di un assegno divorzile, quando ve ne ricorrano le circostanze.
In questo caso, è preclusa ogni possibilità di celebrare un nuovo matrimonio con rito religioso cattolico.
Ai sensi dell’art. 2909 c.c., “ la delibazione della pronuncia ecclesiastica di nullità matrimoniale fa stato tra le parti ed assume l’autorità di cosa giudicata che preclude ogni altra pronuncia con essa contrastante.
La pronuncia ecclesiastica, regolarmente delibata, sancisce l’invalidità del matrimonio e l’insussistenza del vincolo: è indubbio che la pronuncia di divorzio, presupponendo la validità del matrimonio e la sussistenza del vincolo, si ponga in radicale contrasto con essa.” (sentenza 2600/2010)
Corte di Cassazione Sez. Prima Civ. – Sent. del 22.08.2011, n. 17465
Svolgimento del processo
Con citazione notificata in data 7-8-2007 (…) conveniva in giudizio davanti alla Corte d’Appello di Bologna per sentir dichiarare efficace in Italia la sentenza del Tribunale ecclesiastico regionale emiliano in Modena del 2 1-9-2005, che aveva dichiarato la nullità del matrimonio celebrato in Reggio Emilia tra le parti, per esclusione del requisito dell’indissolubilità del vincolo da parte del (…). Costituitosi il contraddittorio, la (…) si opponeva alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza in data 20-10/1 1-11-2009, dichiarava efficace la sentenza ecclesiastica inter partes.
Ricorre per cassazione la (…) sulla base di due motivi.
Resiste, con controricorso, il (…).
Entrambe le parti hanno depositato memoria per l’udienza.
Motivi della decisione
Vanno dapprima esaminate le questioni pregiudiziali sollevate.
Non si ravvisa violazione alcuna dell’art. 360 bis c.p.c. la ricorrente afferma di richiamarsi alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, della quale propone una differente considerazione. Né si ravvisa mancata autosufficienza del ricorso. I motivi possono sicuramente articolarsi in submotivi inerenti tanto alla violazione di legge che al vizio di motivazione. E’ appena il caso di precisare che la sentenza impugnata è stata pubblicata in data 11-11-2009, dunque successivamente all’abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c. inerente ai quesiti di diritto relativi ai motivi proposti.
Con il primo motivo, la (…) lamenta violazione degli art. 112 e 113 cpc. (art 360 n. 3,4,5 c.p.c.) per error in judicando e in procedendo, nonché omessa motivazione circa l’errata applicazione dell’art. 64 legge_218_1995 sostitutivo dell’abrogato art. 797 c.p.c.
Il motivo va dichiarato inammissibile, per estrema genericità.
La ricorrente sostiene l’ultrattività dell’art. 797 c.p.c. e la sua attuale applicabilità ai procedimenti di delibazione delle sentenze ecclesiastiche: afferma, peraltro del tutto apoditticamente, che il giudice a quo non avrebbe considerato la predetta norma, senza specificare modi e caratteri di disapplicazione dell’art. 797 c.p.c., e di applicazione dell’art. 64 1. 218, da parte della Corte territoriale; non precisa se e come l’eventuale non applicazione dell’art. 797 predetto avrebbe negativamente inciso sui suoi diritti processuali e sostanziali.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta errori in procedendo e judicando, a seguito di esame errato della sentenza ecclesiastica da parte del giudice della delibazione, con mancata applicazione dell’ art. 797 c.p.c., in riferimento all’ordine pubblico italiano e alla tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole.
Il motivo si articola su vari submotivi.
Di uno va affermata l’inammissibilità: si tratta di argomentazione che richiama evidentemente una recente pronuncia di questa Corte (Cass. n. 1343 del 2011): la lunga convivenza durante il matrimonio tra i coniugi, ancorché questo sia invalido ne impedirebbe l’annullamento, per contrasto con l’ordine pubblico italiano, dovendosi considerare pienamente rilevante il matrimonio-rapporto, al di là del matrimonio-atto. Si tratta di argomentazione, nella specie, del tutto illegittimamente proposta, in quanto sollevata per la prima volta nel presente giudizio.
Per il resto, il giudice a quo ha fatto buon uso dei suoi poteri, applicando la giurisprudenza consolidata di questa Corte, per cui va delibata la sentenza ecclesiastica che abbia pronunciato la nullità del matrimonio per esclusione, da parte di uno dei coniugi, dei bona matrimonii, purché tale divergenza tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge o da questo conosciuta o comunque conoscibile con ordinaria diligenza. Il giudice italiano, dovendo esprimere una valutazione, estranea all’oggetto del giudizio canonico, di garanzia dell’affidamento negoziale incolpevole da parte del coniuge, può provvedere ad un’autonoma valutazione delle prove, secondo le regole del processo civile (sul punto, tra le altre, Cass. n. 2467 del 2008).
Ma proprio la necessità di un’autonoma valutazione del materiale probatorio, relativo al giudizio ecclesiastico, conduce correttamente il giudice a quo a ritenere irrilevante, perché estranea al thema decidendum del giudizio canonico, l’affermazione, contenuta nella sentenza ecclesiastica, circa la mancata conoscenza da parte della dell’esclusione dell’indissolubilità del vincolo, inerente al coniuge.
Afferma la ricorrente che il giudice a quo non ha esaminato le prove raccolte, limitandosi a recepire affermazioni ed indicazioni contenute nella sentenza ecclesiastica. E vero esattamente il contrario: la Corte di merito non si ferma alle indicazioni della sentenza, ma richiama correttamente l’istruzione probatoria del giudizio canonico, e in particolare le deposizioni testimoniali assunte in quella sede.
Nonostante l’affermazione, contenuta nella sentenza ecclesiastica, circa la non conoscenza da parte della (…) il giudice a quo, dopo una valutazione articolata ed approfondita del materiale probatorio raccolto, conclude per la conoscenza o conoscibilità con l’ordinaria diligenza, da parte dell’odierno ricorrente (il fidanzamento tra il (…) e la (…) interrotto da una relazione del (…) con altra donna, i tratti caratteriali di quest’ultimo, sensibile al fascino di altre donne e alieno da legami stabili e duraturi; la gravidanza della (…) e lo sconcerto del (…), una riunione generale delle due famiglie per decidere il da farsi; l’induzione al matrimonio del (…) per intervenuta gravidanza della (…), la convinzione, espressa in varie sedi, che vi sarebbe stata comunque la possibilità di divorzio. Non sembra pertanto sussistere violazione alcuna del principio dell’affidamento negoziale incolpevole.
Il giudice a quo esprime una valutazione di fatto, insuscettibile di controllo da parte di questa Corte, sorretta da motivazione adeguata e non illogica.
Il motivo, nonostante presenti, come si diceva, profili di inammissibilità, va complessivamente rigettato, in quanto infondato.
Va conclusivamente rigettato il ricorso.
La natura della causa e la posizione personale delle parti suggeriscono la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso: dichiara compensate le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
A norma dell’art. 52 D.L. 196103, in caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri atti identificativi delle parti, dei minori e dei parenti, in quanto imposto dalla legge.
Depositata in Cancelleria il 22.08.2011
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