L’estensione risarcitoria del danno tanatologico quale lesione alla “migliore qualità della vita” e non da fatto illecito in un confronto giurisprudenziale

Corte di Cassazione, Sez. III Civile, Sent.  28 aprile – 20 agosto 2015, n. 16993

Corte di Cassazione, Sez. UN. Civili, Sent. 17 giugno – 22 luglio 2015, n. 15350

Nelle pronunzie in epigrafe la Cassazione affronta due fattispecie relative al danno tanatologico derivanti da responsabilità medica e da fatto illecito, nella specie sinistro stradale, pervenendo a conclusioni differenti in merito al riconoscimento del risarcimento iure hereditatis del danno sofferto. 

Con la sentenza n. 16993 la cassazione ha accolto il ricorso avverso alla sentenza del’11/10/2010 e rinviato alla Corte d’Appello di Palermo, che ha respinto il gravame interposto dagli eredi della sig., deceduta in corso di giudizio, in merito alla pronunzia Trib. Palermo 6/9/2003, di parziale accoglimento della domanda da quest’ultima proposta nei confronti del ginecologo a titolo di risarcimento dei danni conseguenti alla tardiva diagnosi di carcinoma all’utero. Le parti si dolgono che la corte di merito ha immotivatamente escluso la sussistenza “del nesso causale tra il ritardo diagnostico della malattia e la morte della signora D.”, secondo le conclusioni della CTU in sede di gravame, senza motivare sulla preferenza a quest’ultima rispetto a quella del 1 grado. Lamentano che, ritenuto in colpa il ginecologo, la corte di merito ha contraddittoriamente negato “il nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario” e la “sussistenza dei pregiudizi sofferti dalla paziente e della loro diretta derivazione dalla condotta colpevole” del medesimo. La corte di merito non considera che “le valutazioni tecniche rese dai consulenti nominati in II grado… sono inidonee ad escludere che la tardività della diagnosi abbia inciso sulla possibilità della paziente di godere di una maggiore durata di sopravvivenza”.

Secondo l’orientamento conforme dalla cassazione e dottrina, la diligenza del debitore si valuta rispetto alla natura dell’attività esercitata, art. 1176, 2 c., c.c.. A tale stregua, l’impegno dovuto si valuta secondo la specifica attività professionale svolta, e può corrispondere alla diligenza normale, secondo una misura obiettiva che prescinde dalle capacità soggettive e dalle cognizioni tecniche, secondo la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata,  come richiedere al professionista e specialista, una diligenza particolarmente qualificata, l’impiego di mezzi tecnici adeguati al tipo di attività da espletare e uno standard professionale della categoria di appartenenza[1]. Tale standard, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché il relativo grado di responsabilità si determinano in conformità alla regola generale [2]. In adempimento del principio solidarietà sociale si devono osservare gli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, così come mantenere un comportamento leale attraverso un’informazione a salvaguardia dell’utilità altrui, entro un apprezzabile sacrificio e da cui può conseguire una responsabilità (anche extracontrattuale) per i falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi[3].

In tema di responsabilità medica la giurisprudenza di legittimità ha configurato un danno alla persona derivante da omessa diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione a cui si manifesta la possibilità di effettuare solo un intervento palliativo e conseguente ritardo nella relativa esecuzione. Ciò in ragione della circostanza che nelle more il paziente non ha potuto fruire delle cure necessarie, sopportando le conseguenze del dolore, che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto alleviare, anche senza la fine del processo morboso[4]. Il danno risarcibile per l’omessa diagnosi di una malattia terminale è stato da tale Corte ravvisato anche in conseguenza della mera perdita della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare, durante quel decorso, una “migliore qualità della vita[5]. Si precisa che in tale ipotesi il danno per il paziente consegue pure alla mera perdita della possibilità di scelta, secondo le conoscenze mediche “cosa fare” e non ha potuto esplicare le attitudini psico-fisiche fino all’ exitus[6].

Nella specie ciò è disatteso ove si accerta che nel periodo di cura la paziente ha subito dei controlli clinici per cinque volte e che a seguito di ricovero e accertamento con biopsia si desume, con certezza, che il carcinoma era presente all’atto delle visite. Pur avendo constatato la carente diligenza nel comportamento di insufficiente “approccio diagnostico” [al terzo o quarto controllo il “quadro patologico andava approfondito…”], la corte di merito ha escluso la responsabilità per l’“insussistenza causale tra l’aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario”, in base all’id quod plerumque accidit, secondo i consulenti  “poco sarebbe cambiato nel decorso” relativo ad un tumore, maligno e aggressivo.

La corte di merito ha escluso il risarcimento del danno da perdita di chance sofferto, in quanto l’orientamento giurisprudenziale che ne ammette la configurabilità nella responsabilità medica, rileva che “il danno da perdita di chance sia un’autonoma voce di danno emergente, con la conseguenza che la relativa domanda è diversa rispetto a quella avente ad oggetto il mancato raggiungimento del risultato sperato”. Si nega del pari il ristoro del danno “consistente nella sofferenza patita prima di morire durante l’agonia (danno c.d. tanatologico)”, in carenza del nesso di causalità”. Per la Corte tali conclusioni sono erronee, in quanto, al di là della “la durata del ritardo diagnostico”, la corte di merito non ha spiegato come alla mancata tempestiva individuazione della  natura della malattia,  presente al momento della prima visita, quale forma tumorale “particolarmente maligna e aggressiva” non abbia assegnato alcuna rilevanza causale in relazione alla successiva morte, e pertanto anche per la  possibilità di effettuare un intervento anche palliativo, nonché dell’esposta perdita di una doppia chance. Il giudice del gravame non ha considerato che anche in presenza di una situazione deponente ad un ineluttabile exitus l’intervento medico può consentire al paziente di fruire di un intervento anche idoneo, se non a risolvere il processo morboso o ad evitarne l’aggravamento, quantomeno ad alleviarne le sofferenze[7]. A tale stregua, l’omessa diagnosi di una malattia terminale ha rilievo causale non solo in relazione alla chance di vita per un breve periodo “in più”, ma anche per la perdita della chance di conservare, durante il decorso, una “migliore qualità della vita, in esplicazione delle attitudini psico-fisiche in vista e fino all’esito, programmando o rinunziando le cure appropriate[8].

Da ciò consegue il mancato ristoro dei danni subiti, richiesti iure hereditatis dai ricorrenti, in merito alla perdita di chance di sopravvivenza o della possibilità di “meglio prepararsi” alla fine. Ciò è confermato dal considerare la corte di merito il “danno da perdita di chance” quale “autonoma voce di danno emergente”, e quindi patrimoniale[9]. Invece, la Cassazione ha precisato che “il concetto di patrimonialità si correla al bene in relazione a cui la chance si assume perduta e in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell’integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell’esistenza in vita”. Un profilo innovativo riguarda l’erroneità nella negazione del ristoro del danno tanatologico “consistente nella sofferenza patita prima di morire durante l’agonia”, dalle Sezioni Unite n. 15350/2015, indicato quale danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofico dalla vittima subito per la sofferenza nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della fine[10]. Al fine di configurare tale danno assume rilievo “l’intensità della sofferenza provata”, prescindendo dall’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso della vittima richiesto per liquidare il danno biologico terminale”[11].

Nella diversa vicenda di danno tanatologico da fatto illecito (sinistro stradale) a cui consegue una morte immediata o entro brevissimo tempo, le Sezioni Unite nella sentenza n. 15350/2015 hanno aderito all’orientamento giurisprudenziale che esclude il risarcimento del danno iure hereditatis. Secondo quanto espresso dalle Sezioni Unite, il danno è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” fruibile solo dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente[12].  La morte non costituisce “la massima offesa del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione da cui discende l’exitus e diverse sono le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale per i congiunti della vittima, in quanto tali e non quali eredi[13]. Inoltre, “una perdita” può rappresentare un danno risarcibile, quando vi è un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio, invece nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni, l’irrisarcibilità deriva, non dalla natura personale del diritto, ma dall’assenza di un soggetto nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito e dalla complessa quantificazione della perdita o dell’utilità in un lasso di vita così breve.  

Di particolare rilevanza la pronunzia delle Sezioni Unite, al fine della liquidazione risarcitoria distingue il danno tanatologico, qualificato dalla giurisprudenza “danno biologico terminale”, liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle milanesi indicate dalla Cassazione quale parametro, personalizzandole all’entità ed intensità del danno[14]. Da altro orientamento, che qualifica il danno “catastrofale”, la sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni[15]. Tale danno, in alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo e per altre, di danno biologico psichico[16].  Secondo le Sezioni Unite tali incertezze non determinano differenze rilevanti nel risarcimento dei danni, in quanto anche in caso di applicazione delle tabelle relative al danno biologico psichico si adegua il risarcimento alle peculiarità del caso concreto attraverso un’attenta personalizzazione, con risultati non lontani da quelli derivanti dal criterio equitativo puro, utilizzato per la liquidazione del danno morale.

 


[1] [1] In riferimento al professionista, ed allo specialista, Cass., 20/10/2014, n. 22222

[2] Cass. 20/10/2014, n. 22222; Cass.09/10/2012, n. 17143; Cass. 31/05/2006, n. 12995.

[3]In riferimento a varie fattispecie, Cass.27/08/2014, n. 18304; 27/04/2011, n. 9404; .S.U. 25/11/2008, n. 28056.

[4]  Cass. 18/09/2008, n. 23846, conforme Cass., 23/05/2014, n. 11522.

[5]  Cass. 18/09/2008, n. 23846, conforme, Cass. 08/07/2009, n. 16014, Cass.27/03/2014, n. 7195.

[6]  Cass.18/09/2008, n. 23846.

[7] Cass. 18/09/2008, n. 23846, conforme Cass. 23/05/2014, n. 11522.

[8] La rinunzia alle cure, Cass. 16/10/2007, n. 21748; scelte di fine vita Cass.18/09/2008, n. 23846.

[9]  Cass. 12/6/2015, n. 12221, quale lucro cessante; Cass. 18/9/2008, n. 23846.

[10] Cass.08/04/2010, n. 8360; 23/2/2005, n. 3766; 19/10/2007, n. 21976.

[11]  Cass.,28/08/2007, n. 18163; 16/05/2003, n. 7632; 01/02/2003, n. 18305; 16/06/2003, n. 9620; 02/04/2001, n. 4783.

[12] Cass. 22/07/2000, n. 1633 del 2000; 25/05/2007, n. 12253 del 2007.

[13] C.Cost. 27/10/ 1994 n. 372; Cass. 25/05/2007 n. 12253.

[14] Cass. 07/06/2011 n° 12408; 18/01/2011, n.18163.

[15] Cass. 02/4/2001, n. 4783.

[16] Cass.13/06/2014 n. 13537; 20/09/2011, n. 19133; 21/03/2013; per l’altro orientamento Cass.  11/11/2008 n 26972. 

Maria Carmen Agnello

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