L’importanza fondamentale della sentenza n. 482 del 2017

L’azione di recupero promossa dall’Inps con l’obiettivo di rientrare in possesso delle somme indebitamente percepite dai pensionati dev’essere innanzitutto fondata su un provvedimento dotato di motivazione logica poiché, come sancito più volte dalla Corte di Cassazione (si vedano le sentenze n. 19762 del 2008 e n. 198 del 2011) spetta all’istituto previdenziale provare la causa dell’indebito, in applicazione dei principi di carattere sostanziale dettati dall’art. 2697 del codice civile. In assenza delle prescritte ragioni che inducono l’Inps a chiedere la restituzione, un’eventuale pretesa in tal senso integrerebbe la palese violazione dell’art. 3, Legge 241 del 1990, ai sensi del quale ogni provvedimento amministrativo dev’essere motivato con l’indicazione dei presupposti e delle ragioni giuridiche che lo hanno determinato, tanto più se si tratta di atti che incidono direttamente a depauperare la sfera patrimoniale del destinatario.

 

È importante ricordare che alla lettera dell’art. 13, L. 412/1991, nonché in base a quanto riportato dallo stesso istituto di previdenza sociale con Circolare n. 31 del 2 marzo 2006, “l’Inps procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche e provvede, entro l’anno successivo, al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza.” Tale statuizione comporta evidentemente l’irripetibilità di quanto corrisposto in eccesso, a meno che i pagamenti in esame non ricadano nei dodici mesi antecedenti l’accertamento.

 

C’è poi da considerare un’altra peculiarità, probabilmente la più tagliente e la più dibattuta degli ultimi anni, quella che ruota intorno all’eventuale configurazione dell’elemento soggettivo del dolo da parte dell’interessato. L’assenza della responsabilità e la buona fede (connessa al comma 4, art. 38 Cost.) escluderebbero a priori l’obbligo di rimborso derivante dalla percezione di denaro non spettante, ciò in considerazione del fatto che il titolare della prestazione rappresenta la cd. “parte debole del processo”, la parte che “si affida” e ripone fiducia nell’Inps, con la convinzione che lo stesso istituto (com’è in effetti) sia già in possesso di tutti i dati che fondano il diritto e la misura della prestazione erogata. In luogo del principio generale dell’irripetibilità dell’indebito (art. 2033 c.c.), troverebbe così applicazione una regola diversa, propria del sottosistema previdenziale, in grado di escludere la restituzione delle eccedenze riscosse. Stretti più che altro intorno ad un semplice, benché fondato, indirizzo dottrinario, grazie alla sentenza n. 482 pronunciata l’11 gennaio 2017 dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte, si scorge finalmente la prima base solida a sostegno di tale orientamento, il primo arresto giurisprudenziale in grado di spianare la strada verso una situazione più equa che possa cancellare la spiacevole (e purtroppo assai ricorrente) circostanza di vedersi recapitare una lettera di indebito da parte dell’Inps.

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza appena menzionata, rigetta il ricorso dell’Inps avverso la decisione n. 354/2009 della Corte d’Appello di Milano che aveva dichiarato “non dovuta la rivalutazione sulle somme restituende al pensionato.” Nel caso di specie, l’Inps sosteneva “di essere legittimato a recuperare l’importo indebitamente erogato della quota indebita della pensione a carico del fondo integrativo aziendale”. Tuttavia, per la Corte i motivi asseriti dall’Inps non sono fondati. “Alla stregua dell’art. 52 della Legge n. 88/89, espressione di un principio generale di irripetibilità delle pensioni (Cass. n. 328/02), perché la disciplina della sanatoria è globalmente sostitutiva di quella ordinaria di cui all’art. 2033 c.c., le pensioni possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione o di erogazione della pensione, ma non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita prestazione sia dovuta a dolo dell’interessato”. Si afferma l’illegittimità della pretesa risarcitoria dell’Inps.

 

Nell’attesa (forse illusoria) di veder confluire questa conclusione dalla portata notevole in un atto legislativo che porti al conseguente adeguamento dell’istituto previdenziale, per far valere la buona fede del pensionato che, ignaro dell’errore dell’Inps, abbia percepito una pensione più alta del dovuto, bisognerà ancora una volta esercitare l’azione legale, se non altro con la differenza che la sentenza n. 482/2017 costituirà un supporto imprescindibile.

Sentenza collegata

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Francesco Pizzuto

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