L’impugnazione consentita alla parte civile ai sensi dell’art. 576 c.p.p.; il principio di autosufficienza del ricorso; il problema inerente la c.d. “doppia conforme”, l’obbligo del giudice di motivare sul perché abbia “preferito” una perizia rispetto all

La sentenza in argomento è di sicuro interesse scientifico sicchè innanzitutto circoscrive i limiti entro cui è consentito, per la parte civile, proporre impugnazione ai sensi dell’art. 576 c.p.p. .

Infatti, nel decisum in commento, gli Ermellini hanno affermato che “”l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento è inammissibile se non contiene un espresso e diretto riferimento agli effetti civili che vuoi conseguire””.

In effetti, i Giudici di “Piazza Cavour”, partendo dal presupposto secondo cui l’impugnazione de qua “deve necessariamente essere preordinata a chiedere l’affermazione della responsabilità dell’imputato, ma solo quale logico presupposto della condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno”, sono pervenuti alla conclusione secondo la quale tale “richiesta non può condurre ad una modifica della decisione penale, sulla quale si è formato il giudicato, in mancanza dell’impugnazione del P.M., ma semplicemente all’affermazione della responsabilità dell’imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno” posto che, con essa, si “deve fare riferimento specifico e diretto, a pena di inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che si intendono conseguire”.

Ebbene, tale dictum giurisprudenziale non rappresenta un episodio isolato sul versante nomofilattico sicchè la Cassazione, già in precedenti occasioni, è arrivata alla medesime conclusioni decisorie.

Difatti, già in precedenti sentenze, è stato affermato che “l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento è inammissibile se non contiene un espresso e diretto riferimento agli effetti civili che vuoi conseguire”[1] posto che una domanda della parte civile al giudice adito di delibare in merito ad un effetto penale, “esula dai limiti delle facoltà riconosciute dalla legge alla parte civile” (ibidem) siccome esorbitante “da quanto prescritto dal legislatore nel riconoscere a tale parte processuale la legittimazione all’impugnazione”[2].

“Infatti, la sua azione risulta circoscritta al medesimo oggetto e presenta gli stessi limiti dell’azione civile che la parte privata è abilitata a compiere nel processo penale, per cui può investire le sole disposizioni della decisione che attengono ai suoi interessi civili”[3].

Di talchè la Corte di Cassazione è pervenuta alla considerazione secondo cui la domanda civile “deve necessariamente concorrere e le richieste della parte civile, in sede di impugnazione, devono fare riferimento specifico e diretto, a pena di inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che si intendono conseguire”[4].

Per giunta, “l’art. 576 c.p.p. prevede un deroga rispetto a quanto stabilito dall’art. 538 dello stesso codice per il giudizio di primo grado ed in tal modo legittima la parte civile non solo a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio, ma anche a chiedere l’affermazione di responsabilità penale dell’imputato ai soli effetti civili e per l’accoglimento, quindi, della domanda di restituzione o di risarcimento del danno”[5].

Del resto, la giurisprudenza di legittimità è addivenuta a formulare il prefato indirizzo interpretativo anche sulla scorta di una rivisitazione storico-giuridica di questo istituto.

Invero è stato osservato che il “codice di procedura penale del 1865 aveva conferito alla parte civile un potere di impugnazione con ampiezza pari a quello dell’imputato. Il codice del 1913 affermò il principio della accessorietà dell’azione civile nel sistema delle impugnazioni, che venne accentuato nel codice del 1930, la cui normativa subordinò (art. 195 c.p.p.) l’esperibilità del gravame della parte civile, contro le disposizioni della sentenza che concernevano i suoi interessi civili, alla condanna dell’imputato”[6].

Inoltre, tale “principio fu parzialmente ridimensionato dall’intervento della Corte Costituzionale, che, con le sentenze n. 1 del 1970 e n. 29 del 1972, dichiarò l’illegittimità costituzionale del citato art. 195, in riferimento all’art. 111 Cost., nella parte in cui poneva limiti al ricorso per cassazione della parte civile contro le disposizioni della sentenza che concernevano i suoi interessi civili, nonché l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 c.p.p. nella parte in cui escludeva che il giudice penale potesse decidere sull’azione civile anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento, l’azione della parte civile a tutela dei suoi interessi proseguisse in sede di cassazione e di eventuale successivo giudizio di rinvio”[7].

Tuttavia, questi “interventi del giudice delle leggi operavano peraltro nel limitato ambito del giudizio di cassazione e permaneva per la parte civile la limitazione a proporre appello avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato, ciò perché non sembrò “irragionevole” alla Corte Costituzionale (sent. N. 1 del 1970), in relazione all’art. 3 della Costituzione, che alla parte civile “nel silenzio del pubblico ministero e dell’imputato” mancasse “il potere di provocare il riesame sul fatto””[8].

Tale limitazione, al contrario, è venuta meno “con il codice vigente, che riconosce alla parte civile ampi poteri di impugnazione autonoma, in quanto la stessa può avvalersi dei medesimi mezzi di impugnazione previsti per il pubblico ministero e può impugnare “ai soli effetti della responsabilità civile” anche la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio (art. 576 c.p.p.)”[9].

Per di più, sempre per quanto concerne gli obblighi imposti alla parte ricorrente, è stato affermato, nella sentenza in commento che, sulla scorta del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), c.p.p.[10], “sussiste a carico dei ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p. – anche un peculiare onere di inequivoca “individuazione” e di specifica “rappresentazione” degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia”.

Quindi, alla luce di tale principio (c.d. autosufficienza del ricorso), il Supremo Consesso è giunto alla conclusione secondo cui è necessario che, nell’atto di impugnazione, “vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti”.

Orbene, tale tracciato argomentativo è pienamente condivisibile sicchè si innesta lungo il solco di un consolidato orientamento nomofilattico secondo il quale è onere della parte ricorrente allegare l’atto processuale di riferimento “da cui risulti l’errore”[11] “ovvero che ve ne sia nel ricorso l’integrale trascrizione o l’indicazione assolutamente puntuale e completa, che non determini la necessità di alcun tipo di ricerca e selezione autonoma”[12] dato che non è sufficiente il mero invito rivolto alla Corte di leggere gli atti indicati nell’impugnazione “il cui esame diretto è alla stessa precluso”[13].

Tra l’altro, tale principio di diritto, è perfettamente speculare a quello sostenuto dalla Cassazione civile nei seguenti termini: il ricorrente, in sede di legittimità, “ha l’onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza del ricorso, la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative”[14] atteso che non è consentita al giudice di cognizione una autonoma ricerca degli atti della fase di merito “ma solo una loro verifica”[15].

Oltre a ciò, tornando ad esaminare la pronuncia in commento, è stato affermato pure quel principio di diritto secondo cui “nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione”.

Tale criterio ermeneutico, ad ogni modo, può essere applicato solo nella misura in cui “le due decisioni abbiano utilizzato criteri omogenei e seguito un apparato logico argomentativo uniforme”[16] nel senso che ambedue le sentenze devono essere connotate “dal medesimo nucleo essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi che il giudice di secondo grado, dopo avere proceduto all’esame delle censure dell’appellante, abbia fatto proprie le considerazioni del giudice di prime cure”[17].

Oltre al resto, tale principio di diritto può ricorrere solo qualora siano state prese in considerazione le argomentazioni prospettate dall’impugnante (seppur in via indiretta e mediata) sempreché non siano “generiche, superflue o palesemente inconsistenti”[18] visto che deve “ritenersi nulla per difetto assoluto di motivazione, a norma dell’art. 125 comma 3 c.p.p., la sentenza d’appello che riproduca sostanzialmente alla lettera la motivazione della decisione impugnata, trascurando di rispondere alle doglianze proposte dall’appellante nei confronti della sentenza di primo grado”[19].

Di talchè la giurisprudenza di legittimità, laddove non ricorrano tali condizioni, ha ritenuto come non sia “possibile integrare le argomentazioni della corte di appello con quelle adottate dalla motivazione della sentenza di primo grado ed eventuali carenze della seconda decisione in ordine alle censure contenute nell’atto d’impugnazione non sono superabili mediante il richiamo agli argomenti adottati dalla prima sentenza”[20].

Dunque, tale costrutto argomentativo lascia chiaramente intendere, argomentando a contrario, come la motivazione per relationem non sia consentita in caso di specifiche e concrete censure sollevate dalla parte impugnante avverso la decisione emessa dal giudice di prime cure.

Infine, nella sentenza de qua, viene affermato il criterio ermeneutico secondo cui, “in tema di valutazione delle risultanze peritali, il giudice di merito può fare legittimamente propria, allorchè gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purchè dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire”.

Anche tale approdo interpretativo è sicuramente condivisibile siccome consono a quel consolidato indirizzo interpretativo secondo cui, se per un verso è vero che è incensurabile, in sede di legittimità, “la scelta operata dal giudice, tra le diverse tesi prospettate dal perito e dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente condivisibile”[21], è altrettanto vero che ciò può avvenire solo se “la sentenza dia conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell’opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti”[22].

In effetti, l’adesione da parte del giudice alle conclusioni raggiunte da un perito (piuttosto che un altro), non può essere acritica e passiva, dovendo al contrario essere il “frutto di attento e ragionato studio, necessariamente condotto, peraltro, nel presupposto che le suddette conclusioni peritali, sia per la “particolare competenza” di cui il perito deve presumersi fornito (art. 221 c.p.p.), sia per l’impegno che egli deve assumere all’atto del conferimento dell’incarico (art. 226 comma 1 c.p.p.), siano, fino a prova contraria, affidabili”[23].

Cosicchè è evidente che la valutazione decisoria sul perché, sia stata ritenuta una determinata prova da tener conto al fine da decidere (quale può essere un dato elaborato peritale anziché un altro), non si sottrae alla principio di ordine normativo sancito dall’art. 192, co. I, c.p.p., per il quale, come noto, il “giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”.

D’altronde, tale tracciato argomentativo è perfettamente speculare a quello delineato dalla Cassazione civile dato che anche in materia processualcivilistica, è stato parimenti rilevato che, qualora nel corso del giudizio di merito vengano espletate più consulenze tecniche, in tempi diversi e con difformi soluzioni prospettate, il giudice, ove voglia uniformarsi ad una solo di queste consulenze, “è tenuto a valutare le eventuali censure di parte e giustificare la propria preferenza, senza limitarsi ad un’acritica adesione ad essa”[24].

In conclusione, la sentenza in commento è sicuramente condivisibile siccome conforme al “diritto vivente” prevalente nonché perfettamente simmetrica, in relazione agli specifici quesiti di diritto ivi trattati[25], a quanto sostenuto dalla giurisprudenza civile.

[1] Cass. pen., sez. II, 20/05/08, n. 25525.

[2] Cass. pen., sez. I, 4/03/99, n. 7241.

[3] Cass. pen., sez. V, 30/11/05, n. 9374.

[4] Cass. pen., sez. II, 24/10/03, n.897.

[5] Ibidem.

[6] Cass. pen., sez. II, 24/10/03, n.897.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Questa norma, infatti, nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente specificamente indicati, detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 lett. c) c.p.p. .

[11] Cass. pen., sez. II, 20/12/11, n. 11806.

[12] Cass. pen., sez. VI, 24/02/10, n. 18491.

[13] Cass. pen., sez. VI, 8/06/10, n. 29263.

[14] Cass. civ., sez. un., 22/12/11, n. 28336.

[15] Cass. civ., sez. II, 18/05/11, n. 10921.

[16] Cass. pen., sez. III, 1/02/02, n. 10163. In senso analogo: Cass. pen., sez. I, 26/06/00, n. 8868: “Allorché le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo”.

[17] Cass. pen., sez. IV, 24/01/02, fonti: Foro ambrosiano 2002, 225.

[18] Cass. pen., sez. V, 15/02/00, n. 3751.

[19] Cass. pen., sez. VI, 12/10/00, n. 12540.

[20] Cass. pen., sez. III, 1/02/02, n. 10163.

[21] Cass. pen., sez. IV, 6/11/08, n. 45126.

[22] Cass. pen., sez. IV, 6/11/08, n. 45126. In senso analogo: Cass. pen., sez. II, 10/07/08, n. 29144: “In tema di misure cautelari, il giudice che non ritenga condivisibili le conclusioni del perito concernenti le condizioni di salute dell’indagato e la compatibilità delle stesse con lo stato di detenzione in carcere è tenuto, mediante una motivazione compiuta, a dare conto delle ragioni della scelta operata e dei motivi per i quali non ritenga di non fare proprie le valutazioni medico-legali formulate dal perito”.

[23] Cass. pen., sez. I, 11/11793, fonti: Mass. pen. cass. 1994, fasc. 3, 53.

[24] Cass. civ., sez. I, 3/03/11, n. 5148.

[25] Quali sono, come suesposto, il principio di autosufficienza del ricorso e l’onere motivazionale sulla scelta di aderire a quanto affermato in una consulenza tecnica anziché in un’altra.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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