L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 14 del 2014, ha statuito che “nel procedimento di affidamento di lavori pubblici, le pubbliche amministrazioni se, stipulato un contratto di appalto, rinvengono sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del D. Lgs. n. 163 del 2006”.
Il principio di diritto, testè riportato, espresso dal Supremo Consesso amministrativo a margine della sentenza in commento, afferisce ai dibattiti relativi alla possibilità dell’amministrazione di travalicare i confini pubblicistici delle procedure ad evidenza pubblica, mediante l’utilizzo di un tipico strumento di autotutela, quale la revoca dell’atto amministrativo, nella fase privatistica delle stesse, che incomincia con la stipula del contratto di appalto.
Premesso che il presupposto di fatto che ha dato origine alla controversia è rappresentato dal provvedimento di revoca emanato dalla Stazione appaltante allo scopo di travolgere, non solo il già intervenuto atto di aggiudicazione definitiva, ma anche la stipulazione del contratto di appalto che ne è seguita, dal testo della decisione si evince che il Supremo Consesso si è trovato a ricomporre il contrasto emerso, negli ultimi anni, tra l’opzione ermeneutica seguita dalla Giustizia amministrativa e quella, opposta, avanzata dalla Corte di Cassazione.
Il Consiglio di Stato, dunque, in molteplici occasioni, ha paventato “la legittimità del potere di revoca degli atti amministrativi del procedimento ad evidenza pubblica, anche se sia stato stipulato il contratto, con il conseguente diritto del privato all’indennizzo” (Consiglio di Stato, sez. VI, sent., n. 1554 del 2010; sez. IV, n. 156 del 2013).
Le ragioni che militano a favore di tale assunto si riscontrerebbero nell’art. 1, comma 136, della Legge n. 311 del 2004, il quale consente lo scioglimento dei rapporti contrattuali o convenzionali con i privati al fine di conseguire risparmi o minor oneri finanziari, ricalcando sostanzialmente lo schema della revoca, nonché nella disciplina dell’art. 11, comma 4, della Legge n. 241 del 1990, che fa salvo il potere di recesso dell’amministrazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico (stesso presupposto della revoca), dagli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento.
Dal lato dottrinale, inoltre, non manca chi asserisce che la legittimità dell’esercizio del potere di revoca, a contratto siglato, vanti profili di legittimità per intercessione dell’art. 11, comma 9, della Legge n. 241 del 1990, che consente l’intervento in autotutela sugli atti di gara, pur divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva.
Dal canto suo, la Corte di Cassazione si contrappone alle prospettazioni emerse in seno alla Giustizia amministrativa deducendo che “con la stipula del contratto si costituisce tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici. Il riscontro di sopravvenuti motivi di inopportunità della realizzazione dell’opera si riconduce perciò all’esercizio del potere contrattuale di recesso previsto dalla normativa sugli appalti pubblici, con scelta che si riverbera sul contratto in quanto potere contrattuale del committente di recedere da esso, cosicchè l’atto di revoca dell’aggiudicazione, ciò nonostante adottato, risulta lesivo del diritto soggettivo del privato in quanto incidente sul sinallagma funzionale” (Corte di Cassazione, SS.UU., sent., n. 10160 del 2003 e n. 29425 del 2008).
Sicchè, con la stipulazione del contratto verrebbe meno la posizione di interesse legittimo riconosciuta al partecipante nella fase pubblicistica di scelta del contraente, atta a giustificare l’esercizio di un potere autoritativo da parte dell’amministrazione, in favore di un diritto soggettivo (relativo) consistente nella esecuzione del contratto, con la precisazione che qualora la pattuizione sia successivamente ritenuta inopportuna dall’amministrazione, questa potrà tirarsi indietro esercitando il diritto di recesso dal rapporto sinallagmatico instaurato con la parte privata, non potendo più ricorrere ai poteri di autotutela.
Difatti, atteso che ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della Legge n. 241 del 1990, l’amministrazione perde la propria posizione di supremazia (c.d. imperium) nei rapporti negoziali, il consenso contrattuale prestato dalle parti confluisce nell’art. 1325, n. 1, c.c., e, pertanto, non può essere inciso da una manifestazione di volontà unilaterale revocatoria, anche se promanante dall’amministrazione, ma solo a seguito di mutuo dissenso o di recesso dal rapporto.
Orbene, enucleati, succintamente, i fondamenti positivi che corroborano i due riferiti orientamenti giurisprudenziali, è possibile passare all’esplicitazione, sotto il profilo logico-giuridico, delle considerazioni esposte dall’Adunanza Plenaria sulla questione in oggetto.
Il Supremo Consesso amministrativo, in primis, si sofferma sulla struttura bifasica delle procedure ad evidenza pubblica, affermando che “la fase di scelta del contraente, conclusa con l’aggiudicazione definitiva, risulta distinta da quella, successiva, della stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur costituendone il necessario presupposto funzionale, considerato che l’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell’offerta” e aggiungendo che “pur divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, prima della stipulazione resta comunque salvo l’esercizio dei poteri di autotutela”.
Diversi, dunque, sono i connotati che delimitano i due ambiti, in quanto la fase pubblicistica, conclusa con l’aggiudicazione, è retta da poteri amministrativi autoritativi inerenti alla scelta del contraente, mentre quella privatistica, che segue alla stipulazione del contratto di appalto, è permeata dall’applicazione delle norme di diritto comune, in virtù del rapporto di sostanziale parità tra il contraente pubblico e quello privato (Corte Costituzionale, sent., n. 53 e 54 del 2011; Corte di Cassazione, SS.UU., sent., n. 391 del 2011; Consiglio di Stato, sez. III, sent., n. 450 del 2009).
Tuttavia, tale ultimo assunto non riveste carattere assoluto poiché, il perdurante obiettivo del perseguimento dell’interesse pubblico da parte della pubblica amministrazione, caratterizza anche la sua attività di natura privatistica, conferendole, attraverso norme speciali, dei poteri derogatori del diritto comune. Le potestà nascenti da queste disposizioni, tra le quali si ricomprendono anche quelle specifiche regole attraverso cui l’amministrazione può incidere nei rapporti negoziali al fine di perseguire nel migliore dei modi l’interesse pubblico, vanno sotto il nome di “autotutela privatistica”.
Consimili disposizioni derogatorie si rinvengono anche con riguardo ai contratti relativi ai lavori pubblici, precisamente, negli artt. 134, 135 e 136 del Codice dei Contratti Pubblici (collocate nel Capo II del Titolo III e riferite agli appalti di lavoro pubblici) disciplinanti, tra gli altri, gli istituti del recesso e della risoluzione contrattuale.
In un contesto così tratteggiato, il carattere speciale si evince, in particolar modo, nella disciplina, divergente dalle norme di diritto comune, inerente al diritto di recesso. A differenza, infatti, di quanto previsto dal dettato dell’art. 134 del Codice dei Contratti Pubblici, che postula il pagamento da parte del recedente dei lavori eseguiti e dei materiali utili esistenti in cantiere (danno emergente), oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite (forfetizzazione del lucro cessante), l’art. 1671 c.c. stabilisce che il lucro cessante sia dovuto per l’intero, unitamente al ristoro di tutte le spese sostenute.
Riguardo a tali previsioni, ancora minore soddisfazione discende dalla revoca del provvedimento amministrativo per il soggetto vulnerato che, ai sensi dell’art. 21-quinquies, ha diritto di ottenere un indennizzo parametrato al solo damnum emergens, ossia le eventuali spese che abbia sostenuto facendo affidamento sull’efficacia del provvedimento revocato. Non verrà, pertanto, ristorato il mancato guadagno che avrebbe potuto conseguire per effetto del provvedimento (lucrum cessans). Per ottenere anche quest’ultimo, infatti, il soggetto leso dovrà dimostrare che la revoca era illegittima e domandare il risarcimento del danno in conseguenza del fatto illecito compiuto dall’amministrazione, dimostrandone il dolo o la colpa.
L’esegesi normativa di cui sopra porta a concludere che la revoca non può trovare applicazione nella fase successiva alla stipulazione del contratto per due ordini di ragioni.
La prima si concreta nella considerazione che i presupposti degli istituti della revoca e del recesso amministrativo sono del tutto simili, avendo riguardo l’uno ai sopravvenuti mutamenti dell’interesse pubblico e l’altro alla rivalutazione delle ragioni di opportunità, così come comuni sono le conseguenze della loro adozione che comportano, in entrambi i casi, lo scioglimento del vincolo contrattuale. Da ciò si evince pacificamente che se non si considerasse il recesso una disposizione speciale, applicabile nella fase privatistica, esso sarebbe sostanzialmente abrogato dall’istituto della revoca. Alla pubblica amministrazione, difatti, converrebbe di gran lunga adottare l’atto di revoca poiché, come detto, le conseguenze sanzionatorie scaturenti sarebbero ben più miti al cospetto di quelle che dovrebbe sostenere ricorrendo al diritto di recesso.
In secondo luogo, occorre soggiungere che laddove il legislatore abbia voluto estendere l’istituto della revoca per motivi di pubblico interesse anche agli ambiti negoziali successivi alla stipulazione del contratto, lo ha fatto con specifiche disposizioni, come testimoniato, ad esempio, dalla revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di progetto ai sensi dell’art. 158 del Codice dei Contratti Pubblici.
Alla luce di quanto detto, si può inferire che, nella fase procedimentale di scelta del contraente e fino all’aggiudicazione definitiva, l’amministrazione può senz’altro avvalersi degli strumenti di autotutela previsti dalla legge, con l’unica precisazione che l’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva ai sensi dell’art. 1, comma 136, della Legge n. 311 del 2004, per sua natura, è estensibile anche alla fase successiva alla stipula.
E’ invece escluso l’esercizio del potere di revoca ai sensi del comma 1-bis dell’art. 21-quinquies della Legge n.241 del 1990, nell’ambito di un rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza dell’applicazione della speciale previsione dell’art. 134 del Codice dei Contratti Pubblici. Resta salva la possibilità di adottare lo strumento revocatorio laddove gli atti amministrativi incidano su rapporti negoziali afferenti all’ambito dei servizi, delle forniture, delle concessioni e dei contratti produttivi di un’entrata a vantaggio del bilancio pubblico (c.d. contratti attivi).
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