1. L’importanza di una ricerca storica sull’adozione dei maggiori di età – 2. L’istituto dell’adozione nel diritto primitivo dei popoli ebraico, greco ed egiziano – 3.1L’adozione nella società romana – 3.2 Il concetto di familia nel diritto romano – 3.3 L’adrogatio e l’adoptio – 4. La riforma giustinianea dell’adozione: l’adoptio plena e l’adoptio minus plena – 5.1 L’istituto dell’adozione nel diritto medioevale: l’adozione militare – 5.2 L’istituto dell’adozione tra le opposizioni del diritto feudale e la rinnovata concezione spirituale cristiana – 6.1 L’adozione nel diritto moderno. Dalla fine del secolo XVIII ai giorni nostri – 6.2 L’adozione nel Code Napoleon – 7. L’istitto dell’adozione nel diritto italiano
1. L’importanza di una ricerca storica sull’adozione dei maggiori di età
Il termine adozione indica, tanto nel linguaggio comune, quanto in quello giuridico, un istituto complesso e di antica tradizione. Come tale, accompagna la storia dell’umanità rappresentando la complessità dei rapporti sociali, sin dagli albori della civiltà[1].
Una ricerca che intendesse soffermarsi a ragionare intorno ai problemi che presenta l’adozione di individui maggiori di età nell’ordinamento italiano, non potrebbe certamente trascurare il dibattito dottrinario e giurisprudenziale che si è sviluppato negli ultimi anni, a seguito delle significative riforme che il legislatore italiano ha introdotto nella materia.
Tuttavia tale ricerca, ancor prima di affrontare la trattazione dei suddetti problemi, ed in ragione di due considerazioni, dovrebbe necessariamente delineare sinteticamente le caratteristiche dell’istituto nel corso dei secoli.
La prima considerazione ha carattere logico. Essa parte dal presupposto che affrontare le complesse problematiche interpretative ed applicative che afferiscono all’oggetto dell’indagine non sarebbe possibile senza l’ausilio di poche, ma fondate, conoscenze di tipo storico.
Come emergerà dalla lettura delle pagine che seguono, infatti, parte del dibattito odierno affonda le proprie radici – mutuando le proprie argomentazioni – proprio nella configurazione che l’istituto dell’adozione ha avuto nel diritto tardo medioevale e, ancor prima, in quello romano. Le scelte che il legislatore italiano ed internazionale, a loro volta, hanno compiuto negli anni si conformano o si diversificano rispetto alle tradizioni giuridiche risalenti.
La seconda considerazione costituisce la diretta conseuenza della prima, ed ha natura sistematica. In sostanza, dovendosi offrire un quadro sintetico, ma possibilmente esaustivo, delle sorti di uno degli istituti giuridici più antichi, la scelta di collocarlo in apertura della presente è apparsa scontata. Diversamente, si sarebbe potuto procedere attraverso continui richiami e riferimenti alle connotazioni storiche dell’adozione (ed, in parte, si procederà in tal modo). Ma questa scelta avrebbe reso faticosa la lettura e difficilmente comprensibili alcuni problemi che ad essa sono correlati.
Ebbene, volendo identificare una nozione unitaria che introduca la lettura delle pagine che seguono, può dirsi che l’elemento comune a tutti gli istituti è ravvisabile nel vincolo di natura giuridica che si instaura tra due individui non legati biologicamente[2].
L’adozione, pertanto, è quell’istituto che consente, con modi e forme tra loro diverse, di creare un legame giuridico, ed anche, seppur non necessariamente, affettivo, tra soggetti che generalmente non sono legati da vincoli di sangue. Sarà questa definizione quella che consentirà di ricostruire la configurazione che l’istituto ha assunto nel corso dei secoli, giungendo sino alla condizione attuale.
2. L’istituto dell’adozione nel diritto primitivo dei popoli ebraico, greco ed egiziano
L’istituto dell’adozione è, come si è già specificato, un istituto estremamente antico, conosciuto dalle società che precedettero i Romani, da questi perfezionato ed “universalizzato”[3], ed a questi sopravvissuto, giungendo sino ai giorni nostri, nell’epoca della codificazione.
Le prime notizie sull’adozione, intesa come passaggio di una persona da un nucleo familiare ad un altro, si rinvengono nel 2000 a.C. nel codice di Hammurabi. Tuttavia, notizie più precise si hanno nelle cronache di tre civiltà tra le più antiche del globo. Anzitutto, quelle del popolo ebraico. Non è un caso che nella bibbia si narri di come Esther fosse stata adottata da Mardocheo[4]. Il documento testimonia in modo inconfutabile la diffusione dell’istituto nella società dell’epoca.
Notizie sull’adozione si rinvengono poi nella Grecia antica, in particolare presso il popolo Ateniese, dove l’istituto trova menzione nelle leggi di Solone, seppure con finalità e disciplina diverse da quelle dei Romani. L’adozione presso i Greci era infatti conosciuta esclusivamente con riguardo alla possibilità di perpetuare il nome della famiglia. Lo dimostrano il fatto che solo i maschi potevano essere adottati e che era loro concesso di tornare alla propria famiglia se avessero lasciato un figlio legittimo nella famiglia adottiva[5].
Infine, le ricerche storiografiche hanno dimostrato che l’istituto fosse noto anche al popolo degli Egiziani, sebbene restino dubbie le circostanze e le finalità per le quali fosse applicato.
In realtà, nei popoli antichi, l’istituto dell’adozione non ebbe uno sviluppo regolare. Piuttosto, si trattò di una figura giuridica regolata in ragione delle esigenze contingenti proprie di ciascuna popolazione e, soggetta a frequenti e rilevanti mutamenti. Non è possibile, di conseguenza, identificarne con precisione i tratti distintivi, se non operando una distinzione rispetto alla popolazione presso la quale tale figura giuridica trovò il suo massimo sviluppo: i Romani.
3.1 L’adozione nella società romana
Sarà presso i Romani che l’adozione raggiunse il suo massimo sviluppo, venendo utilizzata per una serie di scopi estremamente importanti[6], aventi anche (e soprattutto) natura politica[7]. Quando, ad esempio, i plebei giunsero ad occupare posizioni politiche di rilievo, l’adozione venne utilizzata da quei patrizi che aspiravano a divenire tribuni della plebe, facendosi adottare per poter acquisire la condizione sociale di plebeo[8].
Dunque, l’adozione nel diritto romano consentiva all’adottato di uscire dalla sua famiglia naturale. Questa scelta aveva conseguenze di grande rilievo: comportava la perdita dei diritti di agnazione e di quelli di successione verso la famiglia originaria. Inoltre, rendeva l’adottato estraneo agli Dei domestici e, come tale, non più tenuto ad esercitare il culto della sua famiglia naturale.
L’ingresso nel nuovo nucleo familiare produceva effetti altrettanto significativi[9]. Infatti, dal momento in cui il negozio di adozione poteva considerarsi perfezionato l’adottato acqisiva uno status completamente nuovo. Ciò comportava la devozione ad un nuovo culto, l’acquisizione di nuovi diritti di agnazione e successione e, soprattutto, un nuovo nomen. Con riferimento a quest’ultima circostanza, è da dire che l’adottato non perdeva il nomen precedentemente posseduto. Al contrario, trasformava il nome della sua famiglia naturale in aggettivo, aggiungendovi la desinenza –ianus. Un esempio è quello di Scipio Aemilianus, o anche di Caesar Octavianus[10].
3.2 Il concetto di familia nel diritto romano
Quanto si è appena detto a proposito della regolazione che l’adozione subì nel diritto romano non sarebbe completo se non si offrissero ulteriori, sintetici, cenni al concetto di familia proprio del diritto romano. Infatti, avendone chiara la nozione, si può comprendere meglio lo spirito che anima l’istituto dell’adozione nell’epoca romana.
La famiglia nel diritto romano primitivo è estremamente differente dal concetto che gli attribuiamo al giorno d’oggi[11]. Non è tanto, o solamente, un legame di natura affettiva, cui sottendono vincoli di sangue, ma viene vista come un organismo più complesso.
Questo organismo si presenta indipendentemente dal vincolo di sangue o di parentela, ed è piuttosto assimilabile al prototipo dello Stato. La famiglia, con il suo svolgimento naturale nella gens, è dunque anzitutto una società politica organizzata, posta sotto la protezione degli Dei familiari. Inoltre, è fonte del diritto privato e pubblico che si svolge intorno ad essa[12].
In seno a questo organismo autonomo, avente carattere civile, religioso e politico, assume importanza fondamentale la figura del padre di famiglia (il pater familias): colui al quale è affidato il compito di riflettere la volontà della famiglia stessa. Il pater familias è il supremo giudice ed il supremo sacerdote del culto familiare. Presiede la gestione del patrimonio ed ha un potere assoluto sugli altri componenti del nucleo. È ad esso che fa capo la disciplina dell’adozione, che a sua volta costituisce un modo, assieme all’adrogatio ed al matrimonium iustum[13], di acquistare la potestà medesima.
Dunque, così come il capostipite poteva adottare un altro individuo, introducendolo nel proprio nucleo familiare, al tempo stesso è l’istituto dell’adozione, nelle forme di cui si dirà tra breve, che consente di acquisire questa importante prerogativa.
3.3 L’adrogatio e l’adoptio
Ebbene, da quanto specificato con riguardo alla famiglia, emerge una circostanza tutt’altro che irrilevante. Nel diritto romano, in realtà, sono presenti due diverse forme di adozione, della cui morfologia e delle cui differenze è bene dare, brevemente, conto[14].
L’adrogatio era l’adozione delle persone sui juris, in virtù della quale il cittadino romano passava sotto la patria potestà dell’adottante con tutte le persone che da esso dipendevano[15]. Viceversa, l’adoptio rispondeva al modello tradizionale precedentemente tratteggiato: un individuo alieni juris modificava il proprio status passando dalla soggezione ad una patria potestà, a quella di un’altra.
L’arrogazione e l’adozione erano ben distinte sotto tre punti di vista. Anzitutto, per quanto riguarda la forma e le condizioni richieste per poterle porre in esse.
Infatti, l’arrogazione chiedeva un atto solenne, poichè veniva a modificarsi lo status familiae dell’individuo, circostanza di così grande importanza e gravità da rendere necessario il consenso del popolo riunito in comizio[16].
Gli storici dell’epoca[17] hanno descritto la procedura solenne attraverso la quale si realizzava l’adrogatio. Anzitutto, il popolo riunito in comizio prendeva cognizione dell’affare, interrogando prima l’adottante e poi l’adottato. Successivamente approvava l’arrogazione mediante una legge. Va detto che, verso la fine della Repubblica, essendo scaduti i comizi, la rogatio populi divenne una mera formalità. Lo dimostra il fatto che fu considerato sufficiente un decreto del Pontefice (successivamente sostituito dal Principe), come conferma Tacito[18]. Resta il fatto che la forma richiesta era una forma solenne, non essendo venuta meno l’importanza delle conseguenze di questo istituto.
L’adozione propriamente detta invece si svolgeva dinanzi al magistrato, con un rituale differente rispetto a quello appena visto. Secondo il rito tradizionale infatti, erano necessarie la mancipatio e la iure in cessio. Il padre naturale procedeva all’emancipazione del proprio figlio alla presenza del magistrato e di alcuni testimoni. Dopo che il primo aveva pronunciato la formula solenne[19], era il padre adottivo che, stringendo una moneta in mano, con cui percuoteva una bilancia, diceva “Hunc ego hominem jure quiritum meum esse aio, ipse mihi emptus est hoc aere aeneaque libra”. Infine, donava la moneta al padre naturale, quale simbolo di riconoscenza ed in forma, pur simbolica, di corrispettivo[20].
Un secondo ordine di differenze fa riferimento agli effetti che producevano le due forme dell’istituto. Tanto l’adozione, quanto l’arrogazione ponevano l’adottato sotto la potestà dell’adottante, rendendolo suo erede. Tuttavia – ed è questa una differenza rilevante – se taluno, con il consenso di suo figlio, avesse eseguito una procedura di adoptio nei confronti di un soggetto, considerandolo come se fosse nato dal figlio medesimo, e dunque proprio nipote, l’adottato non diventava erede dell’avo che l’aveva adottato. Infatti, morto quest’ultimo, egli sarebbe ricaduto sotto la potestà di quello che gli era come padre.
Nell’arrogazione, al contrario, poiché l’arrogato diveniva un figlio di famiglia, se esso avesse avuto figli sotto la sua podestà, questi ultimi passavano di pieno diritto come nipoti sotto la podestà dell’arrogator. Dunque, a questo venivano assoggettati ma acquisivano anche diritti successori nei suoi confronti. Viceversa, i figli che aveva l’adottato non lo seguivano nella nuova famiglia adottiva, ma restavano sotto la podestà dell’avo che aveva dato loro padre in adozione[21].
Un’altra, significativa, differenza si produceva in ordine al regime patrimoniale dei beni. L’arrogazione produceva infatti una vera e propria successio per universitatem. Tuttavia, poiché l’arrogato mutava il proprio regime giuridico da pater familias a filius familias, divenendo dunque incapace di gestire un proprio patrimonio, l’intero ammontare di questo, compresi i beni che fossero stati acquistati successivamente dall’arrogato, passavano nel patrimonio dell’arrogator[22]. Ovviamente questo effetto non si produceva nell’adozione tradizionale, nella quale dunque i patrimoni restavano distinti.
4. La riforma giustinianea dell’adozione: adoptio plena ed adoptio minus plena
Un sensibile mutamento di disciplina si avrà con Giustiniano, il quale, nel 531 d.C., riformò in modo sensibile l’istituto dell’adozione distinguendo tra due figure[23]. La prima era costituita dall’adoptio plena, che si verificava soltanto quando l’adottante era un ascendente[24]. Le conseguenze, in questo caso, erano analoghe a quelle già analizzate con riguardo al diritto pre-giustinianeo.
La seconda ipotesi, più innovativa, era quella dell’adoptio minus plena, in cui l’adottante era un estraneo. In questa circostanza i rapporti dell’adottato con suo padre non erano alterati, e l’adozione valeva soltanto a fare acquistare all’adottato il diritto di successione verso l’estraneo che era divenuto suo padre adottivo. Si trattava di un istituto estremamente importante perché rifletteva l’esigenza, evidentemente frequente, di garantire a soggetti tra loro estranei un vincolo sul patrimonio dell’uno nei confronti dell’altro. Realizzando, in altre parole, conseguenze assimilabili a quelle di qualsiasi lascito testamentario.
Le ragioni che sono alla base dei significativi mutamenti apporati da Giustiniano si originano nel periodo immediatamente antecedente e sono attribuibili, in particolare, a due fattori. Il primo è costituito dall’influenza preponderante esercitata dai diritti ellenici che, come si è detto, conoscevano già l’istituto dell’adozione, ma lo regolavano secondo un regime differente.
Ebbene, l’impatto con questi costumi giuridici diversi (più in generale: l’impatto con la cultura ellenica, così profondamente diversa da quella romana, ed in grado di esercitare su questa un notevole ascendente) avrebbe portato gradualmente a recepire principi e forme estranei all’idea tipicamente romana di adozione. Principi che, alla fine, avrebbero finito per imporsi sulla cultura romana[25].
Il secondo fattore determinante è costituito senz’altro dal sopravvento del cristianesimo, divenuto, a partire da Teodosio, la religione di stato[26]. L’idea cristiana dell’adoptio spiritualis avrebbe infatti profondamente influenzato la concezione sociale e giuridica dell’adozione, contribuendo ad enucleare nuovi contenuti e nuovi scopi, divenuti tipici appunto con le riforme giustinianee[27].
Per quanto riguarda infine l’arrogazione, questa mantenne a lungo il suo carattere primitivo, anche dopo Giustiniano[28]. Se si escludono alcune modifiche intervenute nei secoli successivi infatti, la struttura dell’istituto venne mantenuta stabile per preservare la confusione con l’istitto dell’adozione, che veniva tuttavia utilizzato sempre più frequentemente.
5.1 L’istituto dell’adozione nel diritto medioevale. L’adozione militare
Con la caduta dell’Impero romano l’istituto dell’adozione subisce sorti alterne, in parte venendo soppiantato dai nuovi diritti feudali, in parte resistendo alla scomparsa. Ciò a dimostrazione dell’importanza che aveva assunto nella cultura giuridica e sociale del tempo.
Tra gli aspetti che sembrano più interessanti c’è quello che riguarda l’introduzione di nuove figure di adozione, tra cui rileva in particolare l’adozione militare.
Una delle forme più antiche di questo tipo di adozione risale al 737 d.c., ed è un istituto nato e sviluppatosi presso gli antichi Germani, i quali conoscevano l’adozione già prima di entrare in contatto con i Romani. Poiché per lo stile di vita ed i costumi che caratterizzavano questa popolazione le arti della guerra rivestivano la massima importanza, l’adozione iniziò ad essere svolta con una cerimonia militare[29].
Da quella che inizialmente era semplicemente una variazione nelle forme di celebrazione dell’istituto, venne a svilupparsi invece una nuova sostanza, che costituiva uno strumento significativo per garantire alleanze stabili tra guerrieri. Infatti, così come per l’adozione di epoca romana, anche quella militare presupponeva che l’adottante e l’adottato avessero raggiunto la maggiore età.
5.2 L’istituto dell’adozione tra le opposizioni del diritto feudale e la rinnovata concezione spirituale cristiana
Sebbene l’esempio riportato dell’adozione militare rappresenta in modo efficace la persistenza dell’istituto, va detto che in altre parti dell’Europa, surante il periodo medioevale, l’adozione cadde in disuso, soppiantata dal sistema feudale.
I signori dei feudi giunsero a ravvisarvi un elemento contrario ai diritti eventuali che vantavano ed un rischio per la trasmissione dell’eredità. Poiché il diritto feudale riusciva a garantire la stessa tutela del patrimonio e la stessa trasmissibilità dei titoli e del potere, l’adozione finiva per costituire il retaggio di un passato che veniva avverito come lontano ed incomprensibile. Pertanto, in questa fase storica, l’utilizzo dell’adozione è relegato a quei paesi che continuarono a far uso del diritto romano[30].
L’altro aspetto che merita considerazione è l’influenza che l’istituto subì per opera del cristianesimo. Infatti, venuta meno, con il cessare dei culti pagani, la necessità di perpetuazione della famiglia, si adattò l’istituto alle necessità religiose e sociali della Chiesa[31].
In sostanza, l’adozione venne resa soggetta alle esigenze della Chiesa cattolica, soprattutto al fine di regolare il fenomeno delle donazioni alle chiese. Del resto, ed in conclusione, la stessa terminologia religiosa utilizzata (Pater e Patres, per indicare, rispettivamente, il Signore e i Padri della chiesa e Fratres per indicare i fedeli ne sono esempi evidenti) richiamava il concetto di famiglia e concepiva l’adozione come un istituto che avrebbe consentito alla comunità religiosa di espandersi.
6.1 L’adozione nel diritto moderno. Dalla fine del secolo XVIII ai giorni nostri
A partire dalla fine del secolo XVII l’istituto dell’adozione subì un periodo di rinnovata fortuna[32]. Abbandonate le ostilità del sistema feudale (che tuttavia avrebbero resistitito fino alla vigilia dell’emanazione del codice napoleonico) l’istituto fu definitivamente accolto in tutte le legislazioni europee, restando ignoto solamente agli ordinamenti di matrice anglosassone, presso i quali venne regolato molto più tardi. Secondo la concezione che allora prevalse l’adozione era un contratto, le cui parti sono costituite dall’adottante e dall’adottato[33]. Tale concezione, che non negava, ma postulava, la presenza di un interesse pubblicistico e della relativa disciplina, resisterà fino a verso la fine del XIX, quando verrà messa in discussione, e successivamente abbandonata.
La tesi contrattuale verrà sostituita da due tesi prevalenti: quella della fattispecie complessa, in cui l’accordo tra le parti ed il provvedimento giudiziale sono entrambi necessari; oppure quella di un negozio giuridico di natura familiare, collocabile cioè tra quegli istituti che disciplinavano il regime giuridico della famiglia.
Si tratta, a ben vedere, di tesi che riflettono l’interesse della dottrina per l’istituto ma che, in ultima analisi, non incidono sulla natura sostanziale dello stesso che resta, invece, sostanzialmente immutata[34]. Rimane sconosciuta l’ipotesi di adozione di soggetti minorenni (praticata probabilmente al di fuori di specifici vincoli giuridici) e permane l’esigenza di garantire, per il tramite di questo istituto, la prosecuzione dell’esercizio di diritti di natura patrimoniale
6.2 L’adozione nel Code Napoleon
Sebbene nel diritto francese l’istituto dell’adozione fosse scomparso nei paesi di diritto consuetudinario, e fosse stato quasi completamente dimenticato anche nel Mezzogiorno, venne reintrodotto con una decisione dell’Assemblea legislativa che ordinò al suo comitato di legislazione di comprenderla nel piano generale delle leggi civili. Sebbene non venissero inizialmente regolate né la forma né le condizioni, né gli effetti[35].
Quello dell’Assemblea legislativa costituisce il precedente storico che portò al dibattito circa la possibilità di reintroduzione dell’istituto nell’emanando codice napoleonico. Infatti, quando si discusse innanzi al Consiglio di Stato il Code Napoleon, l’istituto dell’adozione trovò una forte opposizione da parte di autorevoli giuristi[36].
Alla fine, il Code napoleon introdusse la disciplina dell’adozione, pur risentendo fortemente del disagio giuridico dell’epoca derivante dalla convenienza politica dell’istituto[37] e dunque dell’opportunità di mantenerla in vita .
La soluzione positiva scelse di mantenersi nel solco della tradizione giustinianea. Tuttavia, ed a differenza di quella, ne accentuò il carattere affettivo. Si posero infatti alcuni obblighi precisi all’adottato nei confronti della famiglia naturale di cui continuava a far parte. Inoltre, si consetì l’adozione nei casi in cui forti debiti di riconoscenza vincolassero l’adottante e l’adottato, ovvero quando da almeno sei anni il primo avesse sovvenzionato il secondo con sussidi e ne avesse avuto la cura non interrotta[38].
7. L’istituto dell’adozione nel diritto italiano
L’istituto dell’adozione in Italia, a partire dal XVIII secolo, assunse una funzione di natura prevalentemente patrimoniale. Si legò infatti alle esigenze di continuazione del casato ed alla perpetuazione dei titoli e dei possessi delle famiglie nobiliari, qualora fossero assenti figli legittimi o naturali[39].
Dnque, il codice civile del 1865 riconobbe la possibilità di adottare le persone che avessero compiuto il diciottesimo anno di età[40].
Ciò nonostante, le varie proposte di modificazione legislativa a favore dell’adozione non trovarono consenso nel Parlamento italiano, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1939, quando fu creato l’istituto della “affiliazione”. Questo si caratterizzava per il fatto di non dare diritti ereditari , né stabilità al vincolo, ma semplicemente un sussidio alimentare che, raggiunta la maggiore età, veniva meno.
Invece, a partire dal codice civile del 1942, fu introdotta per la prima volta la possibilità di adottare minori di età, seppur sotto una disciplina unificata. Difatti, la dottrina[41] è concorde nel ritenere che l’adozione continuò per lungo tempo a servire gli interessi degli adulti, sia come mera possibilità di crearsi una discendenza, sia come strumento per mantenere alla famiglia la proprietà, il ruolo ed il prestigio. Erano ad essa totalmente estranee le preoccupazioni che oggi accompagnano l’adozione dei minorenni, in particolare per quanto riguarda le esigenze del bambino.
Nel 1967, poi, con la legge n. 431, si introdusse l’adozione speciale, che distinse le due ipotesi tra loro, fino a quando, nel 1983, con la legge n. 184, fu sancita una disciplina autonoma per l’adozione di soggetti maggiorenni[42].
È in seno a questo contesto problematico che una ricerca sull’adozione fonda la necessità di costruire le considerazioni che costituiranno la base per i successivi sviluppi della trattazione. Appare infatti chiaro, alla luce dell’evoluzione subita dall’istituto nel corso dei secoli, che l’istituto dell’adozione di maggiori di età abbia mantenuto alcune caratteristiche (in particolari quelle legate agli aspetti patrimoniali) ma ne abbia perse altre (soprattutto quelle legate alla forma e, in misura minore, legate ad interessi di tipo politico).
Il dibattito giurisprudenziale e dottrinario che si origina a partire dal 1983, giungendo fino ai giorni nostri, costituisce il punto focale sul quale potersi soffermarsi, al fine di offrire una disamina esaustiva delle differenze che configurano la ben più nota adozione di minori di età, rispetto alla figura dell’adozione di maggiorenni. Giungendo, infine, a verificare l’opportunità di mantenere in vigore l’istituto o considerarlo retaggio di un passato troppo diverso da quello attuale.
[1] Notevole è l’insieme di definizioni dell’istituto. Si riportano di seguito le più significative. Cfr. in particolare Lombardi R., Valvo G., Il percorso istituzionale dell’adozione: realtà e prospettive, Roma, 1999, pag. 7: “L’adozione è una pratica molto antica e comune a molte culture, che ha come obiettivo la conservazione-prosecuzione di una famiglia con il suo patrimonio di valori, tradizioni e miti, e racchiude in sé dimensioni individuali, familiari e socioculturali”. ; Degni F., Adozione, in Nuovo digesto italiano, Torino, 1937, pag. 172: “L’adozione ha lo scopo di permettere a coloro che non hanno avuto figli o li hanno perduti di crearsi una filiazione che si dice civile, in quanto sorge non per un vincolo di sangue, ma per rapporto giuridico fondato sulla volontà espressa dell’adottante e dall’adottato, che si costituisce con l’assenso dello Stato, manifestato per mezzo dell’Autorità giuridiziaria” ; Ruperto C., Adozione, diritto civile, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958, pag. 584: “L’adozione è un atto giuridico diretto a creare un vincolo di filiazione artificiale, cioè indipendente dal fatto naturale della procreazione. Nel diritto moderno sono due le finalità dell’istituto…a) porgere a chi non ha una prole un benigno rimedio per collocare i propri affetti familiari e assicurare la continuità del casato ; b) garantire ai minori di età un’idonea assistenza” ; torrente A., Schlesinger P., Manuale di diritto privato, Milano, 2004, pag. 910: “Il codice del 1942 prevedeva una sola figura di adozione, quella di antica tradizione, diretta a consentire ad una persona che avesse compiuto i 50 anni, priva di figli – per non averli mai avuti o per averli perduti – di assumere come figlio una persona, inferiore di età di almeno 18 anni, cui trasmettere il proprio nome ed i propri beni…si è successivamente diffuso in modo sempre piùampio il concetto di utilizzare l’adozione non già per procurare una discendenza a chi ne sia privo, bensì per procurare una famiglia ai minori privi di genitori o che, comunque, non godano di una adeguata situazione familiare” ; Gazzoni F., Manale di diritto privato, Napoli, 2004, pag. 413: “L’adozione dei maggiorenni ha sostituito l’antica adozione ordinaria e aveva lo scopo di tramandare nel tempo il nome di chi…non avesse discendenti legittimi o legittimati” ; Cassano G., Manuale del nuovo diritto di famiglia, Bari, 2003, pag. 1355: “L’adozione civile, o adozione di persone maggiori di età, è regolata nel titolo VIII del libro primo del codice civile. Tali norme, anteriormente alla riforma della disciplina…regolamentavano quella che in origine costituiva l’unica forma di adozione conosciuta dal nostro ordinamento vigente e che, in seguito alla legge n. 431 del 1967, veniva comunemente denominata adozione ordinaria, comprensiva della fattispecie in cui l’adottato fosse un minore” ; De Filippis B., Trattato breve di diritto di famiglia, Padova, 2002, pag. 837: “Nell’analizzare l’evoluzione dell’istituto nel corso del tempo, si è detto che l’adozione, fiorente nel diritto romano, declinò successivamente, sia per il verificarsi di un processo di disaggregazione della famiglia, sia per l’affermarsi della morale cristiana, la quale considerava la filiazione adottiva come il principale pericolo per il matrimonio sacramento”.
[2] La definizione è di Cattaneo G., Adozione, in Digesto delle discipline privatistiche, Torino, 1987, pag. 95: “Si chiama adozione l’atto che attribuisce ad una delle parti (l’adottato) la qualità giuridica di figlio dell’altra (adottante), ancorchè la prima non sia stata generata dalla seconda”.
[3] Lo conferma Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 1 ss., laddove specifica che: “il suo vero sviluppo avvenne ben più tardi, all’interno dei paesi nei quali vigeva il diritto romano, in cui l’originario aspetto religioso, teso alla successione del culto degli antenati, aveva lasciato il posto all’idea della discendenza e della trasmissione del patrimonio familiare”.
[4] Cfr. Fiore P., Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pagg. 160 ss., il quale rammenta che: “la conobbero gli Ebrei e basti rammentare che Esther fu adottata da Mardocheo, Mardocheus sibi eam adoptavit in filiam. La usarono gli Ateniesi e gli Egiziani. Però presso i popoli antichi questa istituzione non ebbe un’organizzazione regolare”. La vicenda è ripresa anche da Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 1: “…all’interno dell’Antico Testamento vengono descritti alcuni casi di adozione in modo esplicito e certo: il piccolo Mosè che viene adottato dalla figlia del faraone; Ester, presa in casa da Mardocheo e trattata come se fosse figlia sua; e la situazione di Manasse ed Efraim, presi ed educati da Giacobbe.
[5] V. Russo Ruggeri C., La datio in adoptionem, dalla pretesa influenza elleno-cristiana alla riforma giustinianea, Milano, 1995, pag. 8: “…nella mentalità giuridica greca l’adozione non sarebbe stata diretta, come a Roma, ad instaurare un rapporto potestativo tra adottante ed adottato, ma solo a creare, tra i due, un vincolo di parentela artificiale. Essa, inoltre, non avrebbe richiesto, come a Roma, il compimento di cerimonie solenni, effettuandosi per lo più mediante la semplice redazione di un atto scritto”
[6] Ne fa menzione Fiore P., Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pag. 161: “…fu usata per conservare il nome della famiglia, per esercitare il culto domestico, e per rendere possibile ai parenti naturali, i quali essendo esclusi dalla classe dei agnati, non potevano né essere eredi, né essere tutori, di poter ciò fare divenendo figli adottivi”.
[7] V. De Crescenzo N., Adozione, in Enciclopedia giuridica italiana, I, Milano, 1892, pag. 195: “L’adozione nell’antica società si presenta quale un bisogno familiare e politico. Quanto più la famiglia nella storia assume il carattere di una unità organica più o meno rigorosamente costituita, tanto più si fa sentire il bisogno di ricorrere a mezzi artificiali, quando, per la mancanza di prole, viene a mancare il mezzo naturale per la perpetuazione e la conservazione della medesima”.
[8] Si trattava di un vantaggio doppio perché, pur acquisendo il nuovo status non perdevano le prerogative ed i vantaggi derivanti dall’appartenenza al patriziato.
[9] Si sofferma sul concetto De Crescenzo N., Adozione, in Enciclopedia giuridica italiana, I, Milano, 1892, pag. 195: “L’adozione secondo il diritto romano è un atto legittimo con cui s’acquista sopra un’altra persona la patria potestà. Dove nel rapporto tra due individui mancava il fondamento naturale per cui uno era soggetto in qualità di figlio alla patria potestà dell’altro, questa poteva essere artificialmente costituita, in guisa che un estraneo era considerato rispetto ad un altro nella dipendenza di figlio o nipote” ; Branca G., Adozione, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958, pag. 579: “Adozione (adoptio) è l’atto con cui un pater familias assume sotto la propria potestà una persona (adottato) appartenente ad altra famiglia. L’adottato lascia, così, il proprio gruppo familiare ed entra, come filius familias…in quello dell’adottante”.
[10] Questa regola costituisce un’importante dimostrazione del fatto che l’adozione avveniva nei confronti di soggetti che avevano raggiunto la maggiore età e che dunque non scindevano mai completamente il legame con la famiglia di origine. Il mantenimento del nome della famiglia di origine sta a testimoniare la volontà di celebrare un legame giuridicamente estinto, ma ancora presente nella vita dell’individuo.
[11] In merito svolge interessanti riflessioni Franciosi C., Famiglie e persone in Roma antica, Torino, 1993, pag. 7: “Col termine famiglia oggi designamo un organismo sociale ben definito, composto da genitori e di regola dai figli. Ma per comprendere esattamente l’essenza e la storia della famiglia romana bisogna tener presenti due circostanze: a) il termine familia solo tardi nella lingua latina designò il gruppo familiare in senso proprio ; b) la storia di Roma antica, fino a tutto l’arco dell’età repubblicana, presenta non una ma diverse formazioni familiari…troviamo la familia proprio iure (piccola famiglia, famiglia cellulare), la familia communi iure (grande famiglia, famiglia allargata) e la gens. A questi gruppi va aggiunto il consortium ercto non cito che…è apparso con chiarezza solo sulla base di alcuni frammenti del terzo libro di Gaio, scoperti ad Antinoe in Egitto nel 1933”.
[12] Chiarisce al riguardo De Crescenzo N., Adozione, in Enciclopedia giuridica italiana, I, Milano, 1892, pag. 195: “Nel diritto gentilizio, sia nei rapporti interni, sia nei rapporti con le altre genti, la famiglia con il suo patrimonio, col suo culto, era elemento di forza, di prosperità e di importanza politica. L’estinguersi di esso con la trasmissione del patrimonio o del culto domestico ad altre famiglie, o peggio, a famiglia appartenente ad altra gente, era un avvenimento di interesse pubblico, che richiedeva l’intervento degli altri congiunti appartenenti alla gens, e quella del pontefice senza cui non poteva essere regolato”.
[13] L’istituto, che non interessa questa ricerca, può essere definito come il caso in cui nasca un figlio da una donna legittimamente sposata, nel periodo compreso tra i 6 mesi successivi al matrimonio ed i 10 successivi allo scioglimento. Al di fuori di questi termini il figlio era considerato spurio e non entrava nella famiglia del padre, ma seguiva il destino giuridico della madre.
[14] Nota in proposito Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 2: “è interessante osservare che esisteva una distinzione tra adrogatio, situazione nella quale venivano assorbiti nella famiglia adottante sia l’arrogato che il nucleo d’origine, compreso l’eventuale patrimonio; e l’adoptio, nella quale vi era invece un vero e proprio cambiamento della patria potestas, per cui l’adottato portava una nuova famiglia solo a se stesso. è altresi interessante notare che il sostantivo latino adoptio aveva in botanica il significato di innesto”.
[15] In merito alla distinzione tra adoptio e arrogatio si confronti Fiore P., Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pag. 161: “Nel diritto romano vi furono due specie di adozione, quella delle persone sui juris che fu denominata arrogatio, e questa faceva passare sotto la patria potestà dell’adottante il cittadino romano sui juris con tutto il suo patrimonio e con tutte le persone che da esso dipendevano. L’altra, fu l’adozione propriamente detta, quella cioè delle persone alieni juris, e questa si usava quando un figlio di famiglia era dato in adozione da colui sotto la cui potestà egli viveva ad un altro sotto la cui potestà egli passava”.
Vedi anche Franciosi C., Famiglie e persone in Roma antica, Torino, 1993, pag. 60: “L’adrogatio è definita da Gaio come adoptio populi auctoritate. Riguardava un soggetto sui iuris, ossia un pater familias, avesse o no a sua volta figli. In quest’ultimo caso cadevano sotto la potestà dell’adrogator tanto il pater (che entrava nella nuova famiglia filii loco, ossia in condizione di figlio in virtù della logica agnatizia della famiglia romana) quanto i suoi figli, i quali acquistavano la qualità di nepotes ex filio”.
[16] V. Fiore P., Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pag. 161: “era un atto pubblico legato all’ordine politico, così come la manomissione e il testamento. Si trattava di mutare lo status familiae di una persona, e le istitzioni aristocratiche e patrizie di Roma non potevano permettere che l’ordine della famiglia fosse modificato senza il consenso del popolo riunito in comizio…è qindi chiaro che dovendo l’arrogazione essere sanzionata nei comizi curiati, non poteva essere praticata che in Roma solamente”.
[17] Frammenti sono presenti in Gaius, Commentarius, I, § 100, ove si riporta che “Quae specie adoptionis dicitur Abrogatio quia et qi adoptat rogatur, id est interrogatur an velit eum quem adoptaturus sit, justum sibi filium esse; et is qui adoptatur, rogatur an id fieri patiatur: et populus rogatur an id fieri jubeat”.
[18] V. Tacito, Historiae, I, n. 15, laddove parla Galba, sostenendo che: “Si te privatus lege criata, apud Pontifices, ut moris er adoptarem”.
[19] Tale è Mancipio tibi hunc filium qui meus est
[20] Specifica tuttavia Fiore P., Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pagg. 161 ss. che la: “mancipazione si ripeteva tre volte se si trattava di adottare un figlio, ed una volta se si trattava di una figlia. Dopo Giustiniano tale rito andò in disuso e bastò che il padre naturale avesse manifestata la sa volontà essendo presente quello che voleva adottare e non dissenziente colui che si voleva dare in adozione”.
[21] V.Gaius, Commentarius, I, § 107
[22] Circostanza che offre una ulteriore dimostrazione della solennità richiesta per l’arrogazione. Poiché il regime vincolistico sui beni dell’arrogato produceva effetti estremamente importanti, sottraendogli la disponibilità di patrimoni talora ingenti, si riteneva necessaria la massima cautela.
[23] In merito, Russo Ruggeri C., La datio in adoptionem, dalla pretesa influenza elleno-cristiana alla riforma giustinianea, Milano, 1995, pag. 7: “è opinione pressocchè unanime in dottrina che l’adoptio abbia subito, nel corso dell’età postclassica-pregiustinianea, radicali trasformazioni nella concezione e nella regolamentazione giuridica, trasformazioni che avrebbero preparato e, insieme, condotto alla riforma giustinianea, effettuata, come si sa, nel 531 d.c con la costituzione a noi nota attraverso C.I. 8.47(48).10”.
[24] Si tratta di un’ipotesi piuttosto particolare che poteva verificarsi solo in alcuni casi specifici. Un esempio è ravvisabile nell’ipotesi in cui una persona poteva emancipare suo figlio, facendo sì che costui avesse sotto la sua potestà i propri figli, concepiti dopo l’emancipazione, e poteva darli in adozione a suo padre. In questo caso l’adottante poteva essere l’avo paterno, un ascendente. Un altro esempio è costituito dalla circostanza in cui una persona emancipava suo figlio ritenendo sotto la sua potestà i figli dell’emancipato concepiti prima dell’emancipazione. Egli poteva poi darli in adozione a suo padre. In questo caso l’adottante era il padre stesso dell’adottato.
[25] Secondo Russo Ruggeri C., La datio in adoptionem, dalla pretesa influenza elleno-cristiana alla riforma giustinianea, Milano, 1995, pagg. 9 ss., ciò sarebbe avvenuto soprattutto a partire dalla costituzione di Antonio Caracalla del 212 d.C., poiché con questa si sarebbe estesa l’applicazione del diritto romano a tutti i provinciali, abituati fino a quel momento a vivere secondo le proprie usanze giuridiche, e provocando pertanto il ripetuto presentarsi di istanze ed esigenze nove, a cui l’ordinamento doveva dare risposta. Aggiunge l’autrice: “e la risposta si sarebbe avuta appunto, nel nostro campo, attraverso la ricezione, soprattutto nella pratica giuridica, di quei costumi locali che avrebbero poi soppiantato la concezione genuinamente romana dell’adozione”.
[26] Cfr. le riflessioni svolte da Riccobono S., Cristianesimo e diritto privato, in Rivista di diritto civile, III, 1911, pagg. 12-25
[27] V. Russo Ruggeri C., La datio in adoptionem, dalla pretesa influenza elleno-cristiana alla riforma giustinianea, Milano, 1995, pag. 9: “è soprattutto a causa del prevalere del sentimento cristiano, infatti, che l’adozione, secondo la dottrina che stiamo qui considerando, avrebbe cessato di essere un puro strumento di aggregazione ad un gruppo estraneo, per divenire, come nel diritto moderno, un mezzo di conforto per la mancanza o la perdita di propria discendenza naturale; così come è proprio la pietas cristiana che, attraverso le esortazioni dei Padri della chiesa, avrebbe portato ad accentuare i contenti sentimentali ed affettivi del rapporto adottivo, a scapito di quelli potestativi”.
[28] Lo testimonia Fiore P., Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pag. 163: “…l’arrogazione conservò sostanzialmente il suo carattere primitivo anche dopo Giustiniano, ma due importanti riforme furono pure portate a tale istituzione, una fu quella relativa alla arrogazione deli impuberi per i quali il padre che li adottava doveva prestare cauzione che se l’arrogato fosse morto durante la impubertà, il patrimonio suo sarebbe stato restituito a coloro cui spettava come eredi, se l’arrogazione non avesse avuto luogo, o alla persona chiamata dal padre mediante la sostituzione pupillare. (…) L’altra modificazione fu rispetto al patrimonio dell’arrogato dopo la creazione del peculio avventizio. Il padre adottivo non godeva in seguito all’arrogazione che il semplice usufrutto del peculio avventizio dell’arrogato”.
[29] Esistono alcune testimonianze riportate da Montesquieu, il quale riferisce che Teodorico, il re degli Ostrogoti, avesse deciso di adottare il re degli Eruli, rammentando l’opportunità dell’adozione con le armi, che permetteva ad uomini coraggiosi di instaurare un legame filiare e paterno tra loro.
[30] V. De Crescenzo N., Adozione, in Enciclopedia giuridica italiana, I, Milano, 1892, pag. 196: “Con l’elemento plebeo nello Stato, con rallentarsi sempre più il rigore del diritto di famiglia per mezzo delle attribuzioni sempre più invadenti dello Stato, ed infine per l’importanza sempre minore del diritto sacrale della famiglia e della gens, accompagnatisi alla caduta dell’Impero romano, cessava a poco a poco l’importanza del culto comune famigliare, acquisendone uno maggiore quello dello Stato comune a tutti i cittadini. Il rigore dell’adozione perdè anch’esso l’antica importanza, specialmente quando si trattoò dell’adozione dell’homo alieni juris”. ; di opinione parzialmente differente è Vismara G., Adozione, diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958, pag. 581: “Della adozione romana sopravvisse nell’alto medioevo una forma che, evidentemente derivando dalla adoptio minus plena, ne costituiva, per così dire, la versione nella prassi volgare. Era un istituto maturato lentamente nei secoli del Basso Impero e saldamente affermato in uno spirito nuovo come lo strumento più idoneo a soddisfare in chi non avesse figli dal proprio sangue il sentimento cristiano di paternità e si protezione; un nuovo valore etico ispirava e convalidava anche il criterio della imitatio naturae, al quale l’istituto doveva informarsi”.
[31] Chiarisce Galazzini U., Adozione. Diritto intermedio, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1957, pag. 288: “Il distacco dai beni terreni, predicato dal Cristianesimo, il maggior valore ultraterreno e il più alto significato morale attribuiti concordemente alle spogliazioni di beni patrimoniali fatte mentre il disponente è in vita, favorirono il fiorire di atti di liberalità a favore della Chiesa che non poco impressionarono coloro che, dai vari punti di vista, si occuparono del fenomeno. Ne sarebbe risultata scossa la stessa compagine della famiglia naturale che, sotto molti aspetti, rappresenta l’oggetto delle attenzioni della famiglia cristiana”. In realtà è di opinione contraria De Filippis B., Trattato breve di diritto di famiglia, Padova, 2002, pag. 837 ss., il quale collega all’avvento della morale cristiana la decadenza dell’istituto.
In merito anche Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 3: “Con il passare del tempo e grazie alla diffusione del cristianesimo si giunse dapprima all’ampliamento e poi alla trasformazione del concetto di adozione, tanto che, successivamente, questa sarà utilizzata anche per trasformare i plebei in patrizi e gli italici in cittadini romani. Il cristianesimo lottò anche contro le tradizioni dei popoli barbari che, pur punendo l’aborto e prevedendo l’uccisione dell’eventuale infanticida, proteggevano in questo modo la gravidanza illegittima”.
[32] Cfr. De Filippis B., Trattato breve di diritto di famiglia, Padova, 2002, pag. 837: “L’adozione tornò in auge nel corso del XVII secolo e fu generalmente concepita come istituto riservato ai maggiori di età, che potevano essere adottati da ultracinquantenni, privi di discendenti legittimi o naturali”.
[33] Cfr. Cattaneo G., Adozione, in Digesto delle discipline privatistiche, Torino, 1987, pag. 96: “Secondo questa concezione, l’atto di adozione è un contratto, che l’adottante stipula con l’adottando. Si tratta dunque di un atto destinato a soddisfare interessi privati, non esigenze di carattere sociale; ed è escluso perciò che i pubblici poteri abbiano il compito di promuovere l’applicazione dell’istituto, la quale non può non dipendere che dall’iniziativa delle parti interessate. Ciò nonostante, la disciplina di questo contratto non è naturalmente priva di un certo interesse pubblicistico, giustificato dal fatto che esso dà vita ad un vincolo di natura familiare; ed infatti l’atto non acquista efficacia se non in seguito ad omologazione dell’autorità giudiziaria”.
[34] V. Cattaneo G., Adozione, in Digesto delle discipline privatistiche, Torino, 1987, pag. 97: “Queste tesi, che propongono una diversa classificazione dell’atto, non sono tali da attribuire all’istituto una funzione e una natura sostanzialmente diverse da quelle di cui si è detto”.
[35] Nota però Degni F., Adozione, in Nuovo digesto italiano, Torino, 1937, pag. 173: “Tuttavia se ne verificarono un certo numero di effetti, soprattutto dopo che la Convenzione ne dette l’esempio, adottando, il 25 gennaio 1793, la figlia del regicida Lepellettier Saint-Fajeau, assassinato in un caffè, alla guardia del corpo di Parigi. Queste adozioni furono, più tardi, confermate e i loro effetti regolati da una legge del 25 gennaio a. XI”.
[36] V. Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 5: “Evidentemente, le resistente contro l’adozione erano molte, poiché, quando si trattò di inserirla definitivamente nel codice civile, paventando svantaggi per la costituzione di famiglie legittime, se ne propose l’abolizione per motivi naturali e morali. Solamente l’intervento personale di Napoleone rimise più tardi in discussione il problema: consapevole degli effetti che i caduti delle innumerevoli battaglie avevano sortito, cercò una soluzione affinchè gli orfani della Francia fossero adottati dalla Francia stessa”.
[37] Di queste circostanze parla Galazzini U., Adozione. Diritto intermedio, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1957, pag. 290 ss., laddove specifica che l’adozione cominciò ad essere avversata dai giuristi dell’epoca per una serie di ragioni. Anzitutto perché non era più l’nica forma di garanzia per trasmettere beni patrimoniali, essendosi arricchito l’istituto della successione testamentaria. Inoltre, per le già menzionate ragioni derivanti dal diritto feudale, che impediva la successione dell’adottato nei feudi e non poteva essere mezzo utile per conseguire all’adottato di essere beneficiario delle istituzioni fedecommissarie.
[38] Per una disamina più completa dell’istituto, così come regolato nel codice napoleonico, si rimanda alla lettura di Degni F., Adozione, in Nuovo digesto italiano, Torino, 1937, pagg. 174 ss.
[39] V. De Filippis B., Trattato breve di diritto di famiglia, Padova, 2002, pagg. 838 ss
[40] Il codice civile del 1865 costituisce la diretta derivazione di quello napoleonico. Lo ribadisce anche Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 6: “nel 1865 anche in Italia vennero definite delle disposizioni specifiche per l’adozione. Vennero posti dei vincoli che riguardavano i rapporti tra i genitori naturali e quello adottivo e l’adottato ed eventuali fratelli adottivi, fu stabilito il reciproco impegno di mantenimento e la possibilità, da parte dell’adottato, di ereditare pariteticamente con i figli naturali”.
[41] Cfr. Camiolo M., L’adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 6: ss.
[42] La disciplina del 1967 deriva dalla Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967, che ha spostato in modo definitivo la disciplina dell’adozione sugli interessi dell’adottato, rendendo la figura dell’adozione di minore una figura centrale, gingendo ad equipararne la regolamentazione a quella della filiazione.
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