L’art. 21 octies, introdotto con il Capo IV bis, nella legge 241/90, per effetto delle modifiche a tale legge apportate dalla l.11 febbraio 2005 n.15 e dal d.l. 14 marzo 2005 n.35, convertito, con modificazioni nella l.14 maggio 2005 n.80, è rubricato
“ Annullabilità del provvedimento”.
L’articolo. testè citato si compone di due commi.
Il primo traccia la nozione di atto annullabile, definendo tale “ il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.
Il comma secondo, rispetto alla indicazione di cui al primo comma, concernente l’ordinario stato di annullabilità dell’atto amministrativo adottato in violazione di norme, dispone in deroga: “ Non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti “.
La deroga però è agganciata alla natura del provvedimento e al “ destino” del suo contenuto dispositivo, sicchè il comma afferma la non annullabilità dell’atto, altrimenti viziato, “…qualora, per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato “.
Da tale ordo iuris ne è inferita interpretazione con la quale è stata sancita la dequotazione dei vizi formali dell’atto amministrativo, comprendendo nel fenomeno anche i vizi afferenti la motivazione dell’atto, desumendone per quest’ultima anche una utile prospettabilità “postuma“, cioè successiva alla attivazione di un giudizio.
Siffatta argomentazione respinge anche l’eccezione secondo cui la deroga di cui al comma 2 dell’art. 21 octies, l.241/90, è limitata alle figure di provvedimenti vincolati, osservando che la genericità del termine, sic et simpliciter, “ vincolato “ (essendo, come noto, possibili atti vincolati nell’an ma non nel quomodo,nel quomodo ma non nell’an, oppure nell’an e nel quomodo) costituisce di converso elemento a favore della tesi estensiva della dequotazione dei vizi formali e motivazionali.
Tanto premesso, oggetto del presente scritto è la valutazione della portata delle disposizioni dell’art.21 octies l.241/90, poc’anzi evocato, alla luce delle varie opzioni ermeneutiche di cui prima si è , pur in estrema sintesi, dato conto, su di un istituito processuale, vale a dire il termine per ricorrere ed in particolare la decorrenza iniziale del medesimo.
Come noto, ex art. 21 l.1034/71, il ricorso davanti al giudice amministrativo avverso un atto amministrativo va proposto entro il termine decadenziale di sessanta giorni che decorrono dalla notifica dell’atto o da quando l’interessato ne abbia avuta piena conoscenza o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione ove questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento.
Dunque il termine inizia a decorrere laddove si siano verificate le condizioni legali di conoscenza dell’atto : la notifica individuale ( peraltro ex art. 21 bis l241/90, tale forma è obbligatoria per gli atti a contenuto limitativo della sfera giuridica dei privati- cioè quelli suscettibili di impugnazione- salvo che per il numero dei destinatari la comunicazione “ non sia possibile o risulti particolarmente gravosa “ nel qual caso l’amministrazione provvede mediante forme di pubblicità idonee) la pubblicazione e la conoscenza di fatto dell’atto.
Invero circa la “piena conoscenza” dell’atto da parte dell’interessato va detto che tale enunciato normativo può essere letto in due accezioni : una, già enunciata, secondo cui la piena conoscenza si aggiunge alle forme legali di conoscenza degli atti amministrativi sopra dette, quale forma de facto di conoscenza, e per l’effetto deve evincersi da facta o acta concludentia ; l’altra secondo cui la piena conoscenza è altresì carattere riferibile anche alle forme legali di conoscibilità, le citate notificazione e pubblicazione, dell’atto.e riguarda lo spessore dell’effetto notiziole che deve essere tale da consentire di apprendere non solo la portata lesiva dell’atto ma altresì le argomentazioni che la p.a. ha elaborato per giungere all’adozione dell’atto, ergo la motivazione dello stesso.
Questo dunque il precipitato normativo, ex art. 21 l.1034/71, della decorrenza del termine per ricorrere avverso un atto amministrativo davanti al giudice amministrativo.
Orbene, si pone questione circa gli effetti della portata derogatoria dell’art. 21 octies l.241/90 sulla decorrenza del termine di ricorso giudiziale, consideratene le intrinseche peculiarità.
Si è osservato così che la motivazione del provvedimento amministrativo, che precedentemente proprio per effetto della l.241/90, art.3, aveva acquisito diversa e maggiore rilevanza nell’ambito del procedimento, e quindi del provvedimento, amministrativo, trascorrendo dallo stato di parametro meramente sintomatico del vizio di eccesso di potere a quello di parametro del vizio di violazione di legge, avrebbe alla luce delle novelle normative, subito un “ridimensionamento” giacchè non costituendo più causa di annullabilità dell’atto la violazione di norme sul procedimento (e non pare revocabile in dubbio che tra esse si collochi la norma sulla motivazione dell’atto), il difetto di motivazione non costituirebbe ex se vizio e quindi non inficerebbe l’atto.
Questa prospettazione non può non avere rilevanti riflessi sulla decorrenza del termine per impugnare.
Infatti se l’atto amministrativo lesivo immotivato o scarsamente motivato non è solo per questo illegittimo ne inferisce che il termine non può che decorrere da quando l’atto sia compiutamente noto all’interessato anche sotto il profilo motivazionale.
In questo senso, va superato quel tema di riflessione, che sopra si è esposto, circa il carattere da attribuire all’enunciato “ piena conoscenza” dell’atto da cui al primo comma dell’art.21 l.1034/71, in quanto l’interessato può impugnare l’atto solo se sia a conoscenza del vizio che patisce la lesività dell’atto, vale a dire solo quando ne abbia conosciuti i motivi, di legittimità e di merito, della adozione.
Ragion per cui il termine per impugnare decorre sempre da quando si sia verificata la conoscenza dell’atto impugnato anche sotto il profilo della motivazione e non dalla mera notificazione o dalla pubblicazione, laddove con queste forme sia stato comunicato un atto immotivato.
Sostanzialmente tale argomentazione approda agli stessi effetti a cui perveniva quell’orientamento che già antea riforma riteneva che il termine decorresse dalla conoscenza della motivazione ( in senso opposto si muoveva altro orientamento, giurisprudenziale, secondo cui l’atto doveva essere impugnato nel termine decadenziale a fronte dalla conoscenza della sola lesività di un atto, riservando a motivi aggiunti le rimostranze avverso la motivazione, postea appresa, della lesività stessa), sicchè tra l’altro, in caso di accesso agli atti del procedimento che l’interessato compiva per apprendere le ragioni dell’atto, il termine era inteso decorrente dall’avvenuto accesso.
Queste le conclusioni dunque , accedendo a tali trends circa gli effetti della
“dequotazione “ del vizio motivazionale dell’atto.
Sembra però che possa delinearsi anche altro assunto.
In primo luogo va considerato che l’art.3 l.241/90, sull’obbligo di motivazione, è tuttora presente, in foggia intonsa, nel novero delle norme procedimentali, né vi sono ragioni per ritenere superata la ratio di siffatto obbligo che trova il proprio ubi consistam nel determinare il rispetto dei principi fondamentali del procedimento amministrativo – pubblicità, trasparenza, economicità, efficacia – e per l’effetto realizzare in “primo grado“ il diritto degli interessati al giusto procedimento che è forma istituzionalmente primigenia, in quanto “ anticipata “ di esercizio del diritto di difesa.
Ebbene, l’atto motivato consente all’interessato di valutare la fondatezza della lesività e quindi di considerare la attivabilità dei mezzi di rimostranza, è evidente la economia di “ pubblica attività “ che si realizza laddove l’interessato possa rendersi conto dal testo dell’atto che lo riguarda che limitazioni o non espansioni della sua sfera giuridica hanno sostegno di legittimità e di opportunità.
L’atto normativo deve poter essere pienamente conosciuto nella sua lesività e nella fondatezza della medesima, dalle affermazioni contenute nel testo stesso del provvedimento, id est dal corredo motivazionale.
Non sembra riconducibile a principi di civiltà giuridica, prima ancora che di giustizia del procedimento, che la “ conoscenza piena “ dell’atto avvenga attivando necessariamente il procedimento di accesso o, molto più afflittivamente per l’interessato, attivando il procedimento giudiziale.
Ovviamente la motivazione contenuta nel testo del provvedimento è suscettibile di tutte le rimostranze giustiziali, giurisdizionali e non, e può essere sincerata attivando il procedimento di accesso, nei casi consentiti.
Pare quindi di poter sostenere che l’atto amministrativo lesivo ( cioè con contenuto limitativo o non ampliativi )senza che risultino espresse le motivazioni di tale lesività è, in quanto tale, illegittimo e sottoponobile al vaglio giudiziale con ricorso azionabile nel noto termine perentorio che decorre da quando l’atto, nella forma testuale posseduta è stato notificato, pubblicato ( nei casi previsti, con le distinzioni sopra operate ) o conosciuto de facto dall’interessato.
A tali conclusioni consente di pervenire lo stesso tenore letterale del comma secondo dell’art.21 octies l.241/90.
Infatti la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento è legata a condizioni determinate: il carattere vincolato ( e ciò a prescindere dalle accezioni date ) donde la ineluttabilità del contenuto dispositivo deve risultare in modo “ palese “.
Ebbene pare di poter considerare che richiedere che si renda palese il carattere dell’atto e gli effetti del contenuto di tale carattere non sia altro che richiedere di motivare l’atto, è ovvio che all’interessato le risultanze suddette non possono che essere palesi dall’atto medesimo.
Ergo, anche dalla lettura della novella normativa non sembra possa desumersi una dequotazione dell’obbligo di motivazione, cosicché rimane vizio di legittimità il difetto di motivazione e il termine per impugnare l’atto decorre dalla data di notifica, pubblicazione o conoscenza di fatto.
Altrimenti l’interessato sarebbe costretto ad impugnare l’atto “ al buio “, infatti in giudizio si potrebbe vedere eccepito il carattere vincolato dell’atto e la impossibile diversità del contenuto dispositivo del medesimo, oppure dovrebbe attivare sempre la procedura di accesso che da strumento di garanzia dell’interessato attivabile solo quando egli ritenga di approfondire il comportamento della p.a., diverrebbe ordinaria procedura di conoscenza degli atti della p.a., il che tradirebbe, come prima accennato, la ratio fondante la l.241/90 e l’intero principio della procedimentalizzazione della azione della pubblica amministrazione.
Dott. Giuseppe Lodato
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