La sentenza in commento (Sezione Sesta n. 21609 del 4 aprile – 27 maggio 2014), pur parendo, già ad una prima sommaria lettura, porsi nel segmento dell’imperante ortodossia giurisprudenziale, che contempla, in primis, la sanzionabilità della coltivazione di piante del tipo cannabis, dalla quali ricavare sostanze stupefacenti, perchè reato di pericolo presunto, e che, in secundis, afferma che il reato de quo appare perfezionato già in presenza della circostanza che una pianta (o più piante) contenga tracce di thc, sembra, però, indicare la necessiutà di ampliare l’orizzonte valutativo, che il giudice deve scrutare in funzione del giudizio di offensività, che è chiamato a rendere.
Sostanzialmente, infatti, la S.C. riconosce che il giudice debba verificare in concreto l’offensività della condotta, parametrando il suo giudizio su dati puramente ponderali.
Tale abbrivio concettuale afferma che la offensività non può, quindi, essere esclusa se i quantitativi prodotti risultino inferiori alla “dose media singola”, determinata dalle tabelle ministeriali, quanto piuttosto solo quando essi risultino inidonei a produrre alterazioni psicotrope ed un effetto drogante.
E sin qui, purtroppo, come detto, la sentenza in oggetto pare offrire nulla di nuovo.
Scorrendo, però, le pieghe del provvedimento si nota che la Suprema Corte giunge a fornire prescrizioni operative.
Nel compiere la necessaria verifica in ordine all’offensività della condotta, il giudice, infatti, si deve soffermare
1) sul quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante (superando, così, quell’impostazione invalsa che segue un’analisi tossicologica non individualizzata, bensì di carattere globale)[1],
2) sul grado di maturazione delle piante,
3) su ulteriori circostanze, quali – ad esempio – l’estensione e la struttura organizzata della piantagione, dalle quali possa derivare una produzione di sostanze stupefacenti potenzialmente idonea ad incrementare il mercato (Cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23082 del 09/05/2013, Rv. 256174, *******).
I tre paradigmi elencati configurano, invece, una interessante, quanto inedita evocazione positiva giurisprudenziale di criteri di valutazione, spesso, disattesi e reietti nelle sentenze sia di legittimità, che di merito.
Si deve, dunque, porre il problema di quali possano essere gli effettivi motivi che sottendono al complessivo ragionamento della Corte Suprema.
Non sfuggirà, infatti, al lettore, la circostanza che gli ulteriori canoni richiamati in sentenza, paiono presentare – alla luce del deciso indirizzo ermeneutico cui il provvedimento in commento si ispira – un carattere di sostanziale superfluità nel contesto decisionale.
Se la illiceità della coltivazione (quale espressione del principio di offensività) si ricava dalla sola presenza qualitativa di principio attivo, o al più, di un quantitativo, che, seppure al di sotto della “dose media singola” (pari a mg. 25 per la cannabis) possa provocare effetti di alterazioni psico-fisica, allora non si comprende quale efficacia possano assumere gli altri sussidiari criteri, nel complessivo giudizio sulla rilevanza penale della condotta.
L’espresso e testuale riconoscimento di un valore ermeneutico tranciante ed assorbente rispetto al paradigma quantitativo, (e cioè quello dell’efficacia minimamente drogante del THC contenuto) che la Corte opera con la perifrasi “In particolare, in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, non essendo requisito necessario la destinazione della sostanza alla cessione verso terzi, il dato ponderale può assumere rilevanza al fine di fornire indicazioni sull’offensività della condotta, la quale pero non può essere esclusa ogniqualvolta i quantitativi prodotti risultino inferiori alla “dose media singola”, determinata dalle tabelle ministeriali, ma soltanto quando risultino privi della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, gli effetti psicotropi evocati dall’art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990”, sembra, però escluderebbe, la necessità pratica di effettuare quella attività di ricognizione di quegli elementi elencati.
Lo sviluppo del ragionamento della Corte, che ribadisce la priorità logico-interpretativa del criterio quantitativo relativo al principio attivo, relega, così, le ulteriori ipotesi di verifica soggettiva a meri dati comprimari e complementari di natura sussidiaria, i quali appaiono privati, peraltro, di rilevanza nel contesto del giudizio in ordine alla offensività.
Risulta, quindi, difficile collocare su di una piattaforma di compatibilità e di coerenza interpretativa, i due dsitinti profili, se è vero che l’uno cannibalizza l’altro assorbendolo.
Ed allora, rimane francamente – allo stato – imperscrutabile il senso delle addende interpretative contenute dalla sentenza, sol che si pensi che, nel prosieguo della stessa, la Corte evidenzia un ulteriore indizio che potrebbe fare propendere per una futura cauta apertura ad un’interpretazione maggiormente svincolata dal rigido paradigma ermeneutico vigente.
Si rileva, infatti, che, nella fattispecie oggetto del processo, si sarebbe verificata “la sussistenza di una coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale e, dall’altro, la idoneità delle piante sequestrate a produrre effetto stupefacente. Gli effetti del narcotest devono, infatti, essere letti unitamente all’ingente quantitativo di piante sequestrate (95 di cui alcune in pieno sviluppo e alte due metri)”.
Considerazioni importanti, queste, che – lette e rielette – non rendono affatto peregrino il possibile riaffacciarsi di quella felice distinzione fra coltivazione imprenditoriale e coltivazione domestica (disattesa in toto dalle SS.UU. nella famosa sentenza 10 aprile 2008), da considerare ulteriore proficuo canone strumentale alla decisione sulla rilevanza penale della coltivazione.
Nel caso che ci occupa, pare, comunque, di potere affermare che i canoni integrativi (grado di maturazione delle stesse, estensione e struttura organizzata della piantagione) siano stati utilizzati a riscontro del dato strettamente ponderale (di per sé già idoneo a connotare penalmente la condotta), per ricavare una prognosi della sussistenza di una produzione di sostanze stupefacenti potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.
Ciò posto, se questi canoni possono operare ad colorandum in negativo, perchè, parimenti, essi non possono assumere una valenza anche positiva?
Ed ancora, ci si deve chiedere quale significato vada attribuito alla preoccupazione evidenziata dalla Corte di legittimità, che sottolinea come il numero delle piante e la tipologia di tecnica coltivativa – nel caso specifico – assumano una rilevanza negativa apparendo indici di un possibile incremento del mercato.
Se, poi, è vero che i principi giurisprudenziali, tuttora accolti da più parti, affermano che la ragione della sanzionabilità penale dell’attività di coltivazione (anche la più modesta) va ravvisata nel potenziale incremento del mercato che si riconnette geneticamente a tale condotta, quale sarebbe – nel caso – la effettiva necessità di rafforzamento espresso di tale pacifico concetto?
Dobbiamo, quindi, attendere nuove pronunzie per comprendere appieno e correttamente il senso della pronunzia.
Rimane, comunque, evidente che la Suprema Corte continui a glissare su quell’elemento che, ad avviso di chi scrive, costituisce l’epigone di tutta la controversia.
Laddove, infatti, venga provato che la coltivazione persegue fini di soddisfazione personale del coltivatore/assuntore essa si pone inequivocabilmente, in una situazione di assoluta conformità rispetto al bene giuridico che la norma tutela e cioè appare compatibile con la lotta alla diffusione ed alla circolazione di sostanza psicoattive.
Coltivare per ottenere prodotto destinato ad uso personale, significa, infatti, porre in essere un comportamento che si posiziona esattamente agli antipodi della diffusione oggetto della repressione penale.
L’azione del coltivatore/assuntore si esaurisce, infatti, all’interno di una sfera del tutto privatistica, senza contatti o proiezioni ab externo, con un signoria ed una relazione diretta di disponibilità del coltivatore/assuntore rispetto alla pianta ed al prodotto finale, che, per la sua perpetuità e continuità nel tempo, appare anche superiore a quella, che la nota sentenza 10 aprile 2008 delle SS.UU. individuava in favore della detenzione, assumendola – erroneamente – come importante elemento distintivo fra le due fattispecie.
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Sesta penale
composta dai signori: dott. ***********************
dott. ****************************
dott. *****************************
dott. Orlando *******************
dott. *************************
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di PS, nato a X ii 31-3-84, avverso la
sentenza in data 15-4-13 della Corte d’Appello di Milano, sez. V penale.
Visti gli atti, la sentenza impugnata ed ii ricorso.
Udita la relazione fatta dal Consigliere, dott. ****************.
Udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sost. **********, dott.ssa ********, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata sul trattamento sanzionatorio e per ii rigetto del ricorso nel resto.
Udita l ‘avv.ssa ******************, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso, associandosi in via subordinata alle richieste del P.G.
FATTO E DIRITTO
1 .-. II difensore di PS ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di Appello di Milano in data 15- 4-13 ha confermato la condanna pronunciata nei confronti del predetto in primo grado, all’esito di giudizio abbreviato e previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulla recidiva, alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed euro dodicimila di multa per ii reato di cui all’art. 73 DPR 309/90 per avere coltivato marijuana (accertato in Borgo Priolo I’ 1 1-7-12).
II ricorrente deduce in primo luogo violazione di legge e vizio d i motivazione in punto di affermazione della sua responsabilità, sostenendo che non sarebbe stata dimostrata la reale offensività della condotta posta in essere, non essendo stato disposto alcun accertamento tossicologico ex art. 360 c.p.p. sulle sostanze sequestrate .
In secondo luogo eccepisce la illegittimità costituzionale dell’art . 73 DPR 309/90, come modificato dall ‘art. 4 bis della Legge n. 49 del 2006, per contrasto con gli artt. 77, secondo comma, 3 e 1 17, primo comma, Cost.
2 .-. II primo motivo di ricorso e infondato.
E’ pur vero che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. (Sez. U, Sentenza n. 28605 del 24/04/2008, Rv. 239921, Di ******; e da ultimo sez. 6, Sentenza n. 12612 del 10/12/2012, Rv. 254891, ********). Nel compiere tale verifica, il Giudice deve avere riguardo non soltanto al quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, in relazione al loro grado di maturazione, ma anche ad u lteriori circostanze, quali l’estensione e la struttura organizzata del la piantagione, dalle quali possa derivare una produzione di sostanze stupefacenti potenzialmente idonea ad incrementare il mercato (Sez. 3, Sentenza n. 23082 del 09/05/2013, Rv. 256174, *******). In particolare, in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, non essendo requisito necessario la destinazione della sostanza alla cessione verso terzi, il dato ponderale può assumere rilevanza al fine di fornire indicazioni sull’offensività della condotta, la quale pero non può essere esclusa ogniqualvolta i quantitativi prodotti risultino inferiori alla “dose media singola”, determinata dalle tabelle ministeriali, ma soltanto quando risultino privi della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, gli effetti psicotropi evocati dall’art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. 4, Sentenza n. 43184 del 20/09/2013, Rv. 258095, *******).
Come correttamente rilevato dalla Corte di Appello, nel caso in esame le risultanze probatorie hanno permesso di accertare da un lato la sussistenza di una coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale e, dall’altro, la idoneità delle piante sequestrate a produrre effetto stupefacente. Gli effetti de! narcotest devono, infatti , essere letti unitamente all’ingente quantitativo di piante sequestrate (95 di cui alcune in pieno sviluppo e alte due metri), dalle quali era stata ricavata la sostanza pronta all’uso (pure sequestrata), nonchè alle significative dichiarazioni dello stesso imputato, che ha parlato di una attività che andava avanti da circa un anno con raccolta ed essiccamento delle infiorescenze ogni due o tre mesi.
Ne deriva che, date le caratteristiche della piantagione , la Corte di merito, nel ritenere nella fattispecie configurabile ii reato, ha ineccepibilmente applicato i principi ed i criteri enucleati dalla giurisprudenza di legittimità sopra sinteticamente riportati.
3 .-. Quanto al secondo motivo di ricorso, deve rilevarsi che ii Giudice delle Leggi con la sentenza n. 32 de! 2014 ha, nel frattempo, già dichiarato incostituzionali le disposizioni della Legge n. 49 del 2006 modificative della disciplina penale degli stupefacenti, cosi ripristinando ii previgente regime precettivo e sanzionatorio. A seguito di questa decisione, la pena inflitta al prevenuto, essendo stata determinata in base a parametri oggi costituzionalmente illegittimi , necessita di una rivalutazione, cui dovrà procedere ii Giudice di merito in base alla forbice edittale di attuale riferimento.
4 .-. Per le considerazioni sopra svolte si impone l’annullamento della sentenza impugnata in parte qua, e cioè Iimitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano e con rigetto nel resto de! ricorso.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano. Rigetta nel resto ii ricorso.
Cosi deciso in data 4-4-2014.
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