La Sesta Sezione della Corte Suprema considera perfezionato il reato di coltivazione illecita, perché giudica tale condotta non legale, in sé, e la ritiene perfezionata sotto il profilo dell’offensività (vale a dire della messa in pericolo di quelle esigenze, che più propriamente definite “beni giuridici”, la norma dovrebbe tutelare).
Giungono a tale conclusione i giudici di legittimità, affermando che “la loro (delle piante n.d.a.) media potenzialità di sviluppo correlata tra l’altro all’ambiente di coltivazione (davanzale di una finestra di una abitazione, luogo relativamente riparato e caratterizzato notoriamente da dispersione termica), in Catanzaro (località con clima temperato)”.
In buona sostanza la Corte di Cassazione afferma che l’offensività della condotta di coltivazione “va ricercata ed individuata nella idoneità del bene…a produrre la sostanza per il consumo….Pertanto non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza ma la conformità delle pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità e luogo di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre la sostanza stupefacente”.
Pur nel rispetto della decisione del giudice di legittimità, credo che una posizione interpretativa di questo indirizzo non sfugga affatto ad evidenti critiche, per una serie di considerazioni.
1. Va contestato, prima facie, l’adottato criterio (meramente ed esclusivamente) probabilistico.
Esso si fonda su di una prognosi di ipotetica (e tutt’altro che certa) futura maturazione della pianta, impostazione che differisce e rinvia nel tempo gli eventuali effetti della condotta.
Si osserva che sia assai singolare che, per valutare una condotta tenuta ora, vengano usati parametri astratti e differiti nel tempo.
Differire ad ipotetiche prospettive di maturazione, risultato ottenibile in un futuro (prossimo, remoto?), il decisivo giudizio di offensività della condotta, pur in presenza di dati certi obbiettivi immediati (l’eventuale percentuale di thc), contraddice il consolidato principio per cui il reato di coltivazione appartiene alla categoria dei reati pericolo concreto (e non astratto).
Vale, dunque, a dire, che non pare informato a condivisibili metodiche valutative, (né sul piano giuridico, né su quello biologico-scientifico), la scelta di negare, a priori, la possibilità di utilizzare il dato biologico inequivocabile del principio attivo, il quale venga rinvenuto all’atto del sequestro delle piante e delle correlative verifiche.
Per vero ed a contrario, invece, si deve rammentare che, in numerose pregresse decisioni, proprio la stessa Corte di Cassazione aveva individuato, nel principio attivo, uno dei cardini interpretativi da usare effettivamente per potere sostenere la irrilevanza penale (o meno) o meno della condotta di messa a dimora di piante.
2. Parimenti, suscita rilevanti perplessità la scelta di legittimare la declaratoria di illiceità della condotta sulla scorta di due condizioni necessarie e cioè :
a) conformità della pianta al tipo botanico previsto,
b) teoretica idoneità della stessa a pervenire alla conclusione del ciclo di maturazione.
Quanto al primo dei due elementi richiamati esso sembra apparire tanto ovvio, quanto parrebbe inutile la sua evocazione.
Se, infatti, l’agente pone a dimora un altro tipo di pianta cessa, evidentemente sin dall’origine, la materia del contendere.
Invece, probabilmente in modo involontario, la Suprema Corte, ha dato concretezza ad un principio fondatissimo, il quale, però, smentisce e contraddice l’assunto sostenuto dalla sentenza stessa.
Per comprendere la osservazione, si devono proporre una breve riflessione di carattere tecnico-biologico, di carattere generale, ma rilevante.
Essa attiene al fatto che è necessario verificare preventivamente se le piante rinvenute siano maschi od ermafroditi (che producono una percentuale irrisoria di THC, inidonea a produrre effetti droganti) oppure femmine (che costituiscono la categoria che produce, tramite i fiori, il principio attivo in questione).
Non è, quindi, possibile, senza una minima verifica preliminare distinguere fra le due specie, pena il rischio di incorre nel rischio di ricondurre al genere femminile – unico idoneo in teoria a produrre THC utilizzabile – anche piante che, invece, non producono THC in tale misura e, dunque, sfuggono, comunque, ad un giudizio di idoneità.
Quanto al secondo elemento, esso, invece, pare improntato a criteri di assoluta genericità.
E’, quindi, il termine idoneità, (riferito alle piante) usato in sentenza, che appare il volano del ragionamento da sviluppare.
L’aggettivo idoneo si riferisce ad una persona od ad una cosa che ha le qualità indispensabili per esercitare una particolare attività o funzione (V. Sabatini-Coletti).
Essere, però, ritenuto idoneo non sta, però, a significare la certezza dell’esercizio futuro della funzione ipotizzata, in quanto si verte in una campo di incerta futuribilità in ordine alla traduzione nella pratica di prospettive meramente potenziali.
Il giudizio di idoneità si riassume, dunque in una valutazione meramente possibile, in relazione alla quale difetta, però, il requisito della evidenza e della esatta collocazione nel tempo.
Essa, inoltre, ben potrebbe venire disattesa nel corso della progressione dell’iter temporale che, nell’idea originale, dovrebbe – congetturalmente – portare al risultato, nella specie della coltivazione, la maturazione.
L’elemento impeditivo la maturazione potrebbe derivare, ad esempio a seguito di condizioni climatiche avverse, o potrebbe essere consequenziale ad una mala gestio od inesperienza del coltivatore stesso.
Va ricordato che, nel caso specifico ,le piantine erano di varia altezza (dagli 8 ai 15 cm.), dunque esse erano proprio all’inizio di un ciclo di germinazione, si che non era affatto possibile formulare null’altro che una vaga prognosi di maturazione e non sufficientemente di idoneità, se non sul piano esclusivamente teorico .
Per fare ulteriore chiarezza, è, poi, opportuno ricordare che il bene giuridico, che forma oggetto di tutela da parte del dpr 309/90 (e, dunque, anche dell’art. 73 in relazione alla condotta di coltivazione) attiene al pericolo di diffusione della circolazione di sostanze stupefacenti.
Tale pericolo, come detto di natura concreta, però, non può venire evocato quando esso appaia ancora puramente vago, potenziale ed astratto, quindi, privo di ricadute di qualsiasi genere minimamente concreto (come ad esempio un coltivazione di piante in itinere, dunque, non ancora mature).
Se si aderisse al ragionamento della Corte, oggetto di critica, si rischierebbe di anticipare il momento di asserita rilevanza penale di talune ipotesi di reato, anche a fasi del tutto neutre ed allo stato prive di riflessi concreti, quali per esempio anche la vendita di semi (che è del tutto lecita).
Si verrebbe, così impropriamente ed illegittimamente, a coinvolgere tutte le condotte preliminari che si ritengano (ad un giudizio puramente soggettivo e prevenuto) possano favorire la diffusività del prodotto cannabis.
Pertanto, si deve dissentire decisamente dall’indirizzo assunto dalla Corte che mira a fare coincidere offensività di una condotta con potenziale pericolosità della stessa.
Per completezza, poi, si deve osservare che gli ulteriori riferimenti “alle modalità ed al luogo di coltivazione” non paiono offrire spunti di condivisione e sostegno dell’orientamento in esame.
In special modo il riferimento “al luogo di coltivazione” inteso come localizzazione geografica della zona ove le piante si trovano materialmente pare introdurre, invece, ulteriori elementi di confusione.
Se il criterio interpretativo è quello della valorizzazione dell’ubicazione geografica del luogo ove si trovano le piante oggetto di coltura, allora si introducono gravi distonie.
Esemplificativamente, se a Catanzaro (tanto per citare la sentenza) il clima temperato permette una previsione favorevole di maturazione delle piante in via di coltura, e quindi la prognosi risulta sfavorevole all’indagato che viene ritenuto responsabile, l’adozione del medesimo metro di valutazione permette di concludere in senso diametralmente opposto, nell’ipotesi della messa a dimora di qualche pianta in qualche località di alta montagna della Alpi, dove il clima è assolutamente sfavorevole.
Il criterio sopra indicato che, quindi, permette di pervenire a decisioni opposte (affermando nell’un caso la responsabilità penale ed in altro negandola), all’esito dell’esame di condotte tra loro oggettivamente identiche, solo in dipendenza di fattori così eterogenei ed opinabili, non pare, a chi scrive, affatto condivsibile.
3. Non è, quindi, affatto sostenibile la tesi fatta propria dalla Corte (pg. 3) secondo la quale facendo “dipendere la sanzionabilità della condotta dai risultati a termini” si incorrerebbe in una “evidente aprioristica negazione del criterio dell’offensività”.
Valgano in proposito le considerazioni relative alla ragione che sostiene l’impianto del dpr 309/90 e cioè che si intende, attraverso una legislazione repressiva, evitare la diffusione delle sostanze stupefacenti.
La coltivazione di qualsiasi vegetale, però, proprio per la sua modalità, destinata a dipanarsi in un arco temporale o di stagioni (più o meno lungo) pur potendo essere in grado di suscitare un allarme, deve – però – presentare caratteri di concretezza produttiva (maturazione e produzione di principio attivo drogante) ai quali ricollegare la illiceità della condotta.
L’offensività della condotta, in tal modo, quindi, non viene affatto negata, anzi, viene determinata con sicurezza attraverso l’ausilio di parametri certi (dati dal livello di maturazione di ciascuna pianta e dalla rilevazione del principio attivo contenuto eventualmente in ogni arbusto).
4. Da ultimo, sia consentito dissentire decisamente anche dall’interpretazione del concetto di offensività che la Corte offre, in sentenza.
Come più volte sostenuto da chi scrive, l’offensività non può – e non deve – essere circoscritta alla sola possibilità delle piante – intese singolarmente – di produrre principio attivo.
Se come detto lo scopo principale del DPR 309/90 è quello di contrastare la diffusione e l’ampliamento del mercato degli stupefacenti, è considerazione elementare che si debba tenere in debito conto, per giudicare se una condotta effettivamente sia strumentale a tale illecito fine, la volontà della persona-agente.
Tale volontà è desumibile da una pluralità di parametri privi del carattere della tassatività (ad es. il numero delle piante, le modalità di tenuta delle stesse, lo stato di assuntore continuativo, eventuali prove di contatti con ambienti criminosi, etc.).
La verifica di questo orientamento personale, ad avviso di chi scrive, costituisce l’in sé dell’offensività, in quanto, laddove la persona giustifichi e dimostri convincentemente la condotta di coltura con il fine del consumo personale del prodotto ricavato, non può ravvisarsi offensività della condotta.
Non vi è, infatti, in tale occasione, intenzione alcuna di introdurre sul mercato ulteriori quantitativi di stupefacenti e, semmai, vi è il proposito del tutto opposto.
Il comportamento coltivativo, dunque, esaurirebbe la propria parabola, all’interno della sfera privatistica dell’agente, non minacciando in alcun modo alcuna proiezione ab externo.
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