La massima
«Il principio di bigenitorialità si traduce nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio, nel reciproco interesse, ma ciò non comporta l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore, in quanto l’esercizio del diritto deve essere armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e dell’altro genitore.»
Il caso
La Corte d’appello di Roma, in un procedimento de potestate volto a limitare la responsabilità genitoriale, aveva riformato la decisione di primo grado, accertando l’esistenza di una conflittualità così forte tra i due genitori da dover disporre l’affido della minore al servizio sociale competente per l’assunzione di decisioni fondamentali inerenti la salute e l’istruzione della bambina.
Il collocamento prevalente era, invece, confermato presso la madre con la previsione di tempi di frequentazione per il padre.
Quest’ultimo presentava, quindi, ricorso per Cassazione, censurando la sentenza d’appello per la violazione del diritto della minore alla bigenitorialità e alla stabilità delle relazioni e sostenendo, inoltre, che la Corte d’appello avesse compiuto una scelta inadeguata affidando la bambina ai servizi sociali, quando, invece, avrebbe dovuto capire in definitiva quale fosse il genitore più idoneo a curare l’interesse della figlia.
La Suprema Corte, ritenendo tutti i motivi infondati, ha rigettato il ricorso.
I motivi di ricorso e la decisione della Corte
Con il primo motivo di ricorso il padre della minore denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 316 c.c., comma 3, in combinato disposto con gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., con l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e con la Convenzione di New York 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176) lamentando, altresì, la violazione degli artt. 315 bis e 316 c.c., per la sproporzione ed indeterminatezza del provvedimento di affido della minore ai servizi sociali e per non aver la Corte territoriale individuato il genitore più idoneo a curare l’interesse della figlia.
Secondo la prima sezione, tuttavia, il ricorrente aveva sviluppato la sua doglianza sull’errato presupposto che il provvedimento in questione fosse definitivo perché non privo della previsione di un termine di scadenza.
Il provvedimento in esame, invece, deve essere ricondotto nell’ambito dei c.d. “provvedimenti convenienti” per l’interesse del minore, ai sensi dell’art. 333 c.c., che l’autorità giudiziaria assume al fine di superare la condotta pregiudizievole di uno o entrambi i genitori non dandosi luogo ad una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Tale provvedimento, infatti, ha natura di atto di giurisdizione non contenziosa ed è privo di carattere definitivo, in quanto revocabile e reclamabile, sia per il disposto speciale di cui al comma 2 della disposizione menzionata che stabilisce “tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento”, sia secondo le regole generali degli artt. 739 e 742 c.p.c.
La giurisprudenza di legittimità, a tal proposito, ha più volte affermato che «i provvedimenti modificativi, ablativi o restitutivi della potestà dei genitori, resi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330, 332, 333 e 336 c.c., configurano espressione di giurisdizione volontaria non contenziosa, perché non risolvono conflitti fra diritti posti su un piano paritario, ma sono preordinati alla esigenza prioritaria della tutela degli interessi dei figli e sono, altresì, soggetti alle regole generali del rito camerale, sia pure con le integrazioni e specificazioni previste dalle citate norme, sicché detti provvedimenti, sebbene adottati dalla corte d’appello in esito a reclamo, non sono idonei ad acquistare autorità di giudicato, nemmeno “rebus sic stantibus”, in quanto sono modificabili e revocabili non solo “ex nunc”, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame (di merito o di legittimità) delle originarie risultanze, con la conseguenza che esulano dalla previsione dell’art. 111 Cost. e non sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione.»[1]
Alla luce di queste considerazioni, pertanto, nel caso specifico, la previsione di un termine risultava non necessaria in quanto il provvedimento poteva essere riesaminato in qualsiasi momento.
Ciò posto, secondo la Suprema Corte, la doglianza del ricorrente non risultava fondata nemmeno sul piano motivazionale atteso che la Corte di appello aveva correttamente illustrato le ragioni della scelta compiuta nell’interesse della minore in ragione di una conflittualità così accesa ed insanabile da essere fonte di una paralisi decisionale ravvisabile anche per scelte più importanti quali quelle relative alla salute ed al percorso scolastico della piccola.
Tali scelte, che richiedono una tempestiva – anche se ponderata – decisione, erano state impedite proprio dalla viva conflittualità tra i due genitori.
Con il secondo motivo di ricorso il padre denunciava, inoltre, la violazione dell’art. 316 c.c. per manifesta contraddittorietà della decisione e violazione del principio di parità tra i genitori criticando la statuizione della Corte di appello che, modificando la regolamentazione del diritto di vista paterno, aveva ridotto il pernotto infrasettimanale della minore presso il padre.
Gli ermellini hanno ritenuto tale motivo inammissibile in quanto, pur prospettando una violazione di legge, sollecitava una rivalutazione delle emergenze istruttorie con esito favorevole al ricorrente.
La Corte, inoltre, ha ricordato che il principio di bigenitorialità si traduce nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma ciò non comporta l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore in quanto l’esercizio del diritto deve essere armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e dell’altro genitore.
Ed infatti, come già affermato recentemente dalla Corte, in tema di affidamento dei figli minori «il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.»[2]
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Note
[1] Così Cass. civ. sez. I, 22 settembre 2016, n. 18562. V. anche Cass. civ. sez. I, ord. 10 luglio 2018, n. 18149; Cass. civ. sez. I, 4 novembre 2015 n. 22568; Cass. civ. sez. I, 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. civ. sez. I, 14 maggio 2010, n. 11756; Cass. civ. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14091.
In senso contrario v. Cass. civ. SS.UU. 13 dicembre 2018, n. 32359; Cass. civ. sez. I, ord., 25 luglio 2018, n. 19780.
[2] Così Cass. civ. sez. VI-1, 23 settembre 2015, n. 18817.
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