La buona fede nella mediazione familiare

Nata nel 1913 negli USA  il peculiare avvento della mediazione familiare favorì  una separazione tra il modello industriale (Stulberg, 1981) e il modello psicologico – assistenziale (Coogler, 1978; Haynes, 1981).
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Indice

1. La storia e la riforma della mediazione


La differenza tra i due modelli è tutta nel ruolo del mediatore. Nel primo modello, il mediatore opera alla ricerca della soluzione della disputa, con una limitata o quasi nulla attività di direzione sulle parti considerate in grado di gestire autonomamente i contenuti del conflitto mentre il mediatore si limita a riorganizzare le procedure di dialogo. Nel modello psicologico – assistenziale, invece, il mediatore è polo attivo – e non di mero rimbalzo – nonché garante dell’equità dell’accordo, orientando lo sguardo delle parti sui bisogni del minore, che pur non presente nella mediazione, si considera parte essenziale nella valutazione delle questioni da risolvere.
Nella nuova prospettiva offerta dalla Riforma, la famiglia è intesa come bene relazionale, un legame tra parti che deve essere tutelato e protetto per il benessere del nucleo e della comunità, nonché grembo di soggetti vulnerabili, i minori appunto. In questa prospettiva giuridica, superando la concezione di strumento volto alla ricerca di accordo, la mediazione familiare è intesa come un percorso che il nucleo – e non la mera coppia coniugale ma genitoriale e dunque il sistema famiglia – prima, durante e persino post-separazione, può intraprendere in modo volontario al fine di usufruire di uno spazio non giudicante, confidenziale e riservato nel quale poter andare al di là del contrasto, riorganizzando gli effetti distruttivi del conflitto, tentando di salvare il legame originario. Ne consegue che le parti della mediazione devono tra loro funzionare empaticamente, affidandosi ad un protocollo di verità e condotta che li possa ricongiungere nel conflitto e sino al superamento di esso.

2. I soggetti della mediazione familiare. Il mediatore familiare.


La mediazione familiare si basa su paradigmi.
Possiamo individuare e suddividere i modelli di mediazione offerti in campo scientifico ed esperienziale in due macro-paradigmi: il paradigma The Satisfactory Story e quello The Transformation Story.
Nel primo paradigma, The Satisfactory Story, si persegue l’ agevolazione comunicativa affinché le parti possano ridefinire il conflitto. Attraverso il problem-solving e l’adozione di atteggiamenti collaborativi si giunge ad una trattativa costruttiva su un terreno inteso come comune. Tale paradigma però appare efficace nel breve termine, con una riduzione immediata ma estemporanea dell’aggressività e della violenza, e non offre risultati soddisfacenti nel lungo periodo, favorendo una soluzione solo “apparente” del conflitto non curandone la radice. Vi è dunque il rischio del revival e dell’escalation.
Nel paradigma del Transformation Story, la mediazione invece non ricerca l’accordo ma l’elaborazione fattiva del conflitto lasciando emergere i blocchi emotivi e cognitivi che ne hanno impedito la destrutturazione naturale. Ne consegue che in questo paradigma, il Mediatore assume il ruolo di supporter ed interviene per ridefinire le dinamiche della relazione. Il conflitto viene trasformato da negativo a positivo; si ricerca la consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni (empowerment) e del riconoscimento (recognition) reciproco delle parti. Tramite il riconoscimento è infatti possibile ascoltare e comprendere il punto di vista dell’altro in un’ottica di condivisione ed empatia.
Quanto sin qui esposto ben spiega perché il percorso mediativo, per funzionare, deve essere improntato a correttezza, riservatezza e buona fede.
Orbene, nel primo paradigma, il mediatore familiare è comunicante. Egli lavora sul raggiungimento di una logica collaborativa, offre sin da subito un imprinting alle conversazioni tra le parti volte alla soluzione, alla ricerca di un piano comune che diminuisca la conflittualità, incoraggiando la finalità di una contrattazione che possa soddisfare entrambe le parti non senza evidenziare la necessità di reciproche rinunce e concessioni. Nel secondo paradigma invece, il Mediatore familiare introduce le tecniche dell’ascolto attivo, autentico e convinto, dell’empatia. Il Mediatore è qui “specchio” (c.d. tecnica del rispecchiamento) che attraverso i suoi rimandi riconosce e legittima le parti. L’obiettivo principale non riguarda il raggiungimento dell’accordo ma pone l’attenzione sul vissuto delle parti in conflitto: la condivisione delle angosce e delle sofferenze permette di ritrovare quella complicità che all’interno del conflitto è stata demonizzata. Il riconoscimento reciproco permette di ritrovare nell’altro l’essere umano noto.
Questo modello mira ad una riorganizzazione della relazione conflittuale attraverso un focus non solo sui fatti, interessi ed obiettivi ma anche sugli stati d’animo dei confliggenti. La finalità è quella di riuscire a sentire l’altro, comprenderlo empaticamente e riconoscere la sua verità con un lavoro trasformativo del conflitto. Questo approccio trasformativo – umanistico, permette quindi di analizzare le radici emotivo/relazionali della conflittualità facilitandone l’autosuperamento. Il Mediatore qui è un soggetto terzo che, adottando un comportamento non giudicante, neutrale, imparziale, aiuta le parti a cercare di riequilibrare le lotte di potere e prevaricazione. Il Mediatore aiuta qui a stare nel conflitto. Il conflitto, seppur doloroso, viene visto come un’opportunità.
Uscire dalla logica della risoluzione delle controversie e del raggiungimento di un accordo tra le parti, vedendo il conflitto come potenziale risorsa, permette di dare spazio ad altri aspetti quali i vissuti, gli stati d’animo, i bisogni e la relazione tra le parti.


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3. Il conflitto


Per Eraclito di Efeso, filosofo greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C., il conflitto è il principio fondamentale sul quale si fonda la stessa idea di giustizia. Eraclito affermava che attraverso la giustizia c’è sempre discordia, che non ci può essere niente di giusto senza l’ingiusto, non ci può essere concordia senza discordia, e che  la guerra è il principio stesso del pensiero e del linguaggio ed il pensiero è figlio di divergenze mediate all’accordo.
Il conflitto, perciò, è una condizione naturale e irrazionale che, tuttavia, può essere superato per mezzo della ragione e governato attraverso un contratto, un patto associativo (la legge) al fine di assicurare la pace.
Dopotutto, è persino negli scritti sulla Creazione che si afferma che dal caos che nasce l’ordine.
Di talché, trasformando il conflitto in un’occasione, si individua il focus della mediazione. Dopotutto, si invoca la mediazione proprio quando vi è un conflitto, una lite, una contrapposizione, tra due o più soggetti in antitesi. Diversamente, in assenza di crisi, conflitto ed interruzione del dialogo, esiste già naturalmente il terreno mediativo.
Nel conflitto si vive un’esperienza faticosa ed emotivamente dolorosa dove emergono sentimenti quali paura, frustrazioni, insoddisfazioni. Grazie ad un ascolto attivo, empatico ed al riconoscimento, la persona ha la possibilità di mettersi in relazione con l’altro antagonista.
Il conflitto ha un proprio ciclo di vita: nascita, crescita, apice emotivo (anche violento), morte (si affievolisce, o scompare, ma spesso riappare).  Per evitare i revival, il Mediatore individua il dolore/conflitto e le sue radici, riconoscendo e rimandando questo dolore alle parti, dando un nome, un’etichetta, una classificazione che permetta di uscire dal caos rendendo conoscibile ciò che spaventa.
La presenza del Mediatore, osservatore silenzioso che ascolta senza giudicare, favorisce un lavoro di promozione dell’empowerment e dell’autodeterminazione. La fase successiva consiste nel modificare i sistemi di pensiero inconsci o consci. Ciò non significa perdere o rinunciare al proprio punto di vista ma allargarlo: in questo modo il conflitto diventa strumento di apprendimento.

4. La fiducia tra le parti e la buona fede nel percorso della mediazione familiare


Alla luce di quanto esposto, risulta evidente che il terreno del conflitto, denudato dai sentimenti di acredine ed aggressività, diviene il terreno delle fragilità: mostrarsi nudo dinnanzi all’altro rende vulnerabili.
Pertanto alla base del percorso mediativo deve sussistere da una parte, la fiducia verso la professionalità del mediatore e del percorso in sé, dall’altra, inevitabilmente, la necessità di credere, disperatamente credere, alla buona fede dei soggetti tutti, onde consentire l’apertura del sé e la ricerca di un confronto senza ritorsioni.
Mai come nel campo della mediazione familiare fiducia e buona fede risultano concetti e principi interscambiabili ma inscindibili, dove la buona fede induce alla crescita della fiducia e la crescita della fiducia al confronto sul conflitto. Consentire all’altro di confrontarsi con le proprie vulnerabilità comporta la necessità di credere di trovarsi in uno spazio protetto, di tutela, in cui devono restare fuori le strumentalizzazioni. E’ questa la ragione primaria che impone, tra le regole di accesso al percorso mediativo, la riservatezza. Ne consegue che nulla di quanto riferito al Mediatore potrà essere riportato per esempio al proprio legale, per farne un uso improprio in sede processuale.
La riservatezza apre i confini alla fiducia. La fiducia alla buona fede e viceversa. E’ questo  il patto che si sigla al momento dell’avvio del percorso, per cui diventa elemento essenziale la volontarietà con la quale i soggetti accedono alla mediazione familiare. La mediazione familiare infatti non può essere un percorso obbligato, ma basa la sua essenza sulla libera volontà delle parti che vi accedono. Anche quando la stessa è demandata dal Giudice, non può avere avvio se anche solo una delle parti non è seriamente disposta a mettersi in gioco.
Avviato il percorso, stretto il patto di reciproca lealtà, fiducia e rispetto, accresce la necessità di un approccio in perfetta buona fede al fine di consentire quel sondare del terreno del conflitto che denuda le parti e le porta all’interiorizzazione del dolore. Ove il patto di buona fede nella gestione, esondazione ed analisi del conflitto venga violato, in un qualsivoglia momento del percorso, il pregiudizio che ne consegue comporta la violazione delle aspettative fiduciarie rispetto alle quali ogni soggetto impronta ed orienta le proprie relazioni con il mondo esterno.
Le istanze fiduciarie tradite, sulle quali si forma e si consolida l’identità di ognuno, secondo Garfield, producono una duplice reazione: da un lato, trauma ed angoscia che producono un blocco emotivo con un accrescimento della rabbia e del dolore che possono giungere ad essere distruttive per sé e per gli altri; dall’altro, il superamento del limite di sopportazione delle ingiustizie, fomentato dal rinnovato dolore, che può ingenerare il desiderio di reagire in modo anche sproporzionato ed irrazionale (violenza). Ne consegue che nel patto della mediazione familiare, la partecipazione in buona fede è un requisito fondamentale per tutta la durata del percorso ed anche dopo.
La buona fede delle parti è condizione del dialogo. Ove si menta, si ragioni per sovrastrutture, si porti nel campo mediativo la logica della riserva mentale, della costruzione o acquisizione di prove contro l’altro, della conservazione delle nozioni per un momento successivo di scontro, il dialogo sarà privo della libertà di cui è necessitante. In tema di buona fede, non sorprende dunque il richiamo, anche nella mediazione familiare, alle clausole generali giuridiche. Sono clausole a-temporali, da sempre note e da sempre riconosciute come valevoli in ogni rapporto in cui si tenta una trattativa.
Nell’ambito scientifico accademico si assiste quindi al rimbalzo agli articoli del codice civile: art. 1175 (comportamento secondo correttezza), 1337 (buona fede nelle trattative e formazione del contratto), 1366 (interpretazione in buona fede) e 1375 (esecuzione in buona fede). Nella dottrina giuridica più sedimentata, quella dei padri costituenti, vi sono definizioni della buona fede che ben fanno comprendere perché esso è un principio generale mai desueto.
Nelle edizioni più datate, nell’esplicazione dell’art. 1337 c.c. (buona fede nelle trattative e formazione del contratto), si legge di obbligo di buona fede, assumendo che essa è da intendersi in senso oggettivo, sì che non appare necessario un particolare comportamento soggettivamente in malafede e finalizzato ad arrecare pregiudizio alla controparte, ma è sufficiente un qualunque comportamento anche meramente colposo che conduca all’interruzione delle trattative eludendo le aspettative della controparte che abbia sostenuto spese o rinunciato ad occasioni più favorevoli, nell’adesione a quel rapporto in itinere.
Vi è chi intenda  la buona fede non solo come regola generale, ma come “norma di chiusura” di ogni rapporto, intendendosi quale principio da invocarsi tutte le volte che risultano inapplicabili norme speciali destinate a sanzionare una condotta scorretta. Vale a dire un concetto così “alto” da sopperire a qualsivoglia specifica previsione normativa. Di talché, la buona fede intesa come principio oggettivo, è clausola  idonea a ricomprendere una pluralità indefinita di comportamenti diversi, non suscettibili di essere tipizzati in modo completo ed esaustivo in un solo concetto.
L’illustre giurista Cesare Massimo Bianca, per esempio, riteneva che il contenuto della buona fede può essere correttamente individuato solo ex post, in presenza di diversi fattori che di volta in volta caratterizzano le singole situazioni.
Nell’ottica della costruzione della fiducia reciproca, a maggior ragione in un campo come quello della mediazione familiare dove si parte dal conflitto denudandosi dinnanzi all’altro nelle proprie debolezze, la buona fede impone il dovere di informazione: vale a dire, richiamando un concetto giuridico della contrattualistica, dalla Dottrina è inteso come il dovere di comunicare alla controparte gli elementi necessari per formarsi un’idea esatta dell’accordo contrattuale (guarentigia dell’intangibilità del vincolo negoziale). Ne consegue che la responsabilità sorge non solo nel caso di mancata comunicazione di circostanze note ma anche nel caso di circostanze conoscibili. Si è quindi posto l’accento sul dovere di chiarezza, e sul dovere di compiere gli atti necessari per la validità ed efficacia del contratto.
A questo punto, appare interessante richiamare anche quell’orientamento che parte dal terreno giuridico per arrivare alla società famiglia, dove si richiama proprio come corollario della buona fede tra le parti lo scopo comune di tenere incolumi i figli. Vale a dire che attuare nella mediazione in buona fede consente di tendere al maggior valore dell’incolumità filiale dalle conseguenti devastanti della prosecuzione del conflitto.
Vi è stato poi chi sulla base del presupposto che la buona fede formi oggetto di una vera e propria obbligazione di fonte legale, scaturente dall’apertura della fase delle trattative, ha qualificato come contrattuale la responsabilità derivante dall’inadempimento di tale obbligo precisando però che ove la condotta cosciente e volontaria leda una situazione giuridica preesistente, la fattispecie rientrerebbe anche nel capo dell’art. 2043 c.c. e aprirebbe quindi la possibilità ad un concorso di azioni sub art. 1337 cc e 2043 cc (in tal senso, Rovelli, Rescigno – Gabrielli)[1]. Giuridicamente, la possibilità di cumulo tra responsabilità contrattuale derivante dall’inadempimento dell’obbligo legale di buona fede e la responsabilità aquiliana è stata ammessa in particolare con riguardo ai casi di trattativa maliziosa, ossia a fronte di una trattativa non seria, o di un’attività precontrattuale che traducendosi in un atto emulativo consapevolmente finalizzato ad impegnare la controparte in attività destinate a non sfociare nella conclusione del contratto, presenti la duplice natura di condotta contraria alle regole di correttezza e di comportamento doloso, che potrebbe portare anche ad un’interpretazione estensiva del rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. considerandosi inefficace in virtù del principio dell’exceptio doli.
Vi è poi un corposo filone giurisprudenziale che associa la buona fede con la lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure, a contrario, nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte.
Giova poi richiamare un ultimo indirizzo che crea un parallelismo tra la buona fede ed il concetto di solidarietà sociale ex art. 2 Costituzione: la giurisprudenza ha riconosciuto che la buona fede costituisce oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra parte, a prescindere da specifici obblighi contrattuali ed in virtù del principio generale del neminem laedere (principio appunto solidaristico).
Infine, la violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede ove si risolva nell’imposizione da una parte a danno dell’altra di un contenuto visibilmente squilibrato, in contrasto con il dovere costituzionale di solidarietà sociale di cui la buona fede è espressione, potrebbe comportare ex art. 1418 la nullità del contratto (ex multis, in dottrina, Galgano, Falzoni che però parla di inefficacia e non di nullità dell’accordo).
I richiami alle nozioni di legge servono dunque a comprendere come, pur essendo in terreno a-processuale, la logica della buona fede consente anche in campo mediativo il raggiungimento del dialogo e quindi del superamento del conflitto o comunque, la sua decodificazione.
Da qui, le conclusioni che si rassegnano.

5. Considerazioni finali


Attraverso l’individuazione delle figure coinvolte nella mediazione familiare, le loro origini e soprattutto l’approfondimento del terreno del conflitto, si comprende come nella mediazione familiare più che in ogni campo di ADR, la condotta delle parti è determinante per la buona riuscita del percorso.
A rinforzare poi la peculiarità della mediazione familiare rispetto a tutte le altre ADR, è proprio il campo nel quale si muove, quello dei soggetti nella loro espressione più intima e dunque vera, e per questo vulnerabile, e inevitabilmente, il richiamo sempre latente della prole. Nella mediazione familiare le parti sono assolute protagoniste e gli avvocati (che stanno fuori dalla stanza di mediazione) hanno solo il compito di fornire assistenza per la redazione (finale) dell’accordo, ove raggiunto. Ed infatti, l’accordo raggiunto in mediazione familiare è un accordo che non assurge a valore giuridico sino a quando non superi il vaglio del Giudice, che lo valuta, ne valuta la congruità alle leggi e agli interessi delle parti: ciò perché il “materiale umano”, focus della mediazione familiare e permeato di sentimenti e vulnerabilità, non può restare scevro dal controllo di legalità e legittimità, a tutela delle parti, dei minori, dell’esondazione di sentimenti incontrollati che travalicano diritti e doveri, e che vanno disciplinati a favore della buona riuscita e resistenza del patto nel tempo, inteso come elemento ulteriore rispetto al superamento del conflitto.

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Cettina Marcellino

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