La Cassazione chiarisce il rapporto tra il delitto di atti persecutori e quello di violazione di domicilio

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(Ricorso rigettato)

(Riferimenti normativi: Cod. pen., artt. 612-bis, 614)

Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione

L’imputato ricorreva per l’annullamento della sentenza della Corte di appello di Venezia che, in parziale riforma della sentenza adottata dal GUP del Tribunale di Padova, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato e da lui impugnata, applicate le circostanze attenuanti generiche, aveva rideterminato la pena in due anni, cinque mesi e dieci giorni di reclusione, confermando nel resto la condanna per il reato di cui agli artt. 81, cpv., 609-bis, 612-bis e 614 c.p..

In particolare, con il primo motivo, si deduceva, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l’erronea applicazione degli artt. 612-bis e 614 c.p., contestati, rispettivamente, ai capi 1) e 3) della rubrica, con riferimento, quanto al reato di cui all’art. 614 c.p., ai fatti commessi il (omissis), nonché il vizio di carenza di motivazione in ordine al dedotto assorbimento delle condotte di cui ai capi 2) (art. 614 c.p., commesso il (omissis) ) e 3 (art. 614 c.p., commesso il (omissis)) in quello di cui all’art. 612-bis c.p., di cui al capo 1), contestato come commesso fino al (omissis) affermandosi al riguardo che la condotta di violazione di domicilio ipotizzata ai capi 2) e 3) della rubrica integrava uno dei comportamenti abituali tipici della fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. contestata al capo 1), essendo stata posta in essere in un quadro temporalmente continuativo, non slegato, nè postumo, di cui dava atto la stessa Corte di appello tenuto conto altresì del fatto che la mancanza di affinità tra le due fattispecie, ad avviso del ricorrente, non ostava alla applicazione dell’art. 84 c.p., comma 1, riguardante i casi in cui due fatti costituenti reato si fondono in un’unica fattispecie più grave.

Quanto al vizio di motivazione, si sosteneva che con l’appello era stata dedotta la propria consuetudine di entrare nell’abitazione della persona, consuetudine esclusa in modo illogico e contraddittorio dalla Corte di appello perché in contrasto con quanto aveva riferito la stessa persona offesa secondo la quale, come riportato a pag. 11 dell’appello, egli “sapeva come fare per entrare”.

Con il secondo motivo, invece, si deduceva, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l’erronea applicazione dell’art. 609-bis c.p. (capo 4 della rubrica) e il vizio di motivazione contraddittoria e manifestamente illogica nella parte in cui, attribuendo alla registrazione di un colloquio con la persona offesa il valore di riscontro alle dichiarazioni di quest’ultima, aveva negletto quella parte del colloquio nel corso del quale quest’ultima aveva ammesso che in quel modo l’avevano fatto 1500 volte nel corso della loro relazione quadriennale e, quando lui le aveva detto che l’amava, gli aveva chiesto perché queste cose non gliele aveva dette subito trattandosi, secondo l’impugnante, di circostanze decisive ai fini dell’elemento soggettivo del reato che la Corte territoriale aveva a suo avviso liquidato come irrilevanti negligendo l’orientamento giurisprudenziale che impone al giudice di verificare i comportamenti per lo meno incongrui al fine della sussistenza dell’elemento psicologico del reato e della valutazione complessiva del racconto della persona offesa.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto infondato per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto come il primo motivo fosse infondato in quanto, una volta osservato che il delitto di cui all’art. 612-bis c.p., contestato al capo 1) della rubrica, è stato posto in essere anche mediante le violazioni di domicilio descritte e autonomamente contestate ai successivi capi 2) e 3), commesse rispettivamente il (omissis) e che il ricorrente sosteneva il concorso apparente di norme sul rilievo che il delitto di violazione di domicilio costituisce, secondo la stessa impostazione accusatoria, una modalità di consumazione del reato di atti persecutori così da rimanere assorbito in esso, si reputava tale deduzione infondata.

Si evidenziava a tal proposito prima di tutto che il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. è punito “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” rilevandosi al contempo come si tratti di clausola di riserva relativamente indeterminata normalmente utilizzata dal legislatore per evitare la convergenza, sul medesimo fatto, di più norme incriminatrici a favore dell’unica che ne esprime il maggior disvalore.

Posto ciò, si notava che, secondo parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, tale clausola presuppone che i reati concorrenti siano posti a tutela dello stesso bene giuridico (Sez. 5, n. 30455 del 02/05/2019; Sez. 3, n. 50561 del 08/10/2015; Sez. 2, n. 25363 del 15/05/2015; Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013; Sez. 5, n. 6250 del 21/01/2004) mentre secondo un diverso e preferibile indirizzo, maturato soprattutto in materia di rapporti tra il delitto di abuso di ufficio, di cui all’art. 323 c.p., e quello di falso materiale o ideologico in atto pubblico, di cui agli artt. 476 e 479 c.p., la clausola di riserva indeterminata non postula necessariamente l’identità del bene tutelato dalle fattispecie che concorrono a sanzionare il medesimo fatto essendo l’apparente conflitto di norme regolato dall’assorbimento dell’unica “condotta” nella fattispecie incriminatrice che ne esprime il maggior disvalore (Sez. 6, n. 13849 del 28/02/2017; Sez. 2, n. 1417 dell’11/10/2012; Sez. 6, n. 42577 del 22/09/2009; Sez. 5, n. 45225 del 09/11/2005; Sez. 5, n. 2817 del 16/01/1986, secondo cui la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato” non sempre è connessa con il problema del concorso apparente di norme e, in particolare, col principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. o con quello di consunzione, tendendo – essa clausola – nella maggior parte dei casi ad escludere il concorso formale di reati. Invero, il concetto di “fatto” di cui alla suddetta clausola può non coincidere con quello di “stessa materia” di cui all’art. 15 c.p., quest’ultima – peraltro comprensiva, diversamente dalla prima, anche di norme non incriminatrici – si riferisce in genere alla omogeneità degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte e dei beni-interessi tutelati mentre la nozione di “fatto” concerne invece l’avvenimento concretamente verificatosi il quale prescinde dalla omogeneità delle fattispecie astratte ed ha riguardo al profilo concreto delle ipotesi criminose disciplinate da più norme sia in concorso apparente sia in concorso effettivo o reale).

Detto questo, veniva altresì precisato che per “fatto” deve intendersi l’avvenimento concretamente verificatosi, il medesimo fatto storico, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle medesime circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005; Corte Cost., sentenza, n. 200 del 2016; Sez. 5, n. 2817 del 1986, cit.); il “fatto” così considerato prescinde quindi, per la Suprema Corte, dalla omogeneità delle fattispecie astratte ed ha riguardo al profilo concreto delle ipotesi criminose disciplinate da più norme sia in concorso apparente che in concorso effettivo o reale (Sez. 5, n. 2817 del 1986) mentre la maggiore o minore gravità va accertata avendo riguardo alla pena in concreto irrogabile tenuto conto delle circostanze ritenute e dell’eventuale bilanciamento tra esse (Sez. 2, n. 25363 del 2015; Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013).

Il delitto di atti persecutori ha, di conseguenza, ad avviso degli Ermellini, portata applicativa residuale in quanto condizionata alla minore o pari gravità in concreto del medesimo fatto storico previsto come reato da altra fattispecie penale nel senso che, solo se il “fatto” costituente (anche) reato di atti persecutori è di pari o maggiore gravità, si pone il problema del concorso formale o apparente di norme.

Il richiamo al “fatto” in ogni suo elemento costitutivo, per di più, sempre ad avviso del Supremo Consesso, impone di valutare la condotta tenuta in concreto alla luce di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis c.p. il quale si caratterizza per la sua natura necessariamente abituale e per la consapevole attitudine della condotta stessa a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla fattispecie come conseguenza dell’azione, elementi tutti dei quali è necessario tener conto ai fini della corretta applicazione della clausola di riserva.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, invero, il delitto di atti persecutori ha natura di reato abituale di evento sicché l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Sez. 1, n. 28682 del 25/09/2020; Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015; Sez. 5, n.:18999 del 19/02/2014; nel senso che il delitto di atti persecutori ha natura necessariamente abituale, cfr. Sez. 5, n. 11925 del 15/01/2020; Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014).

La questione devoluta dal ricorrente è, dunque, per i giudici di piazza Cavour, mal posta in quanto, data la natura residuale del delitto, occorre chiedersi in primo luogo se il “fatto“, così come contestato e ritenuto nel caso di specie, integri solo ed esclusivamente il delitto di violazione di domicilio e, in secondo luogo, se, in concreto, quest’ultimo costituisse o meno, all’epoca dei fatti, reato più grave in grado di assorbire l’intero disvalore del delitto di atti persecutori.

Quanto a quest’ultimo aspetto, alla luce dell’attuale formulazione del delitto di cui all’art. 612-bis c.p., come modificato dalla L. 19 luglio 2019, n. 69, art. 9, comma 3, che ha inasprito il trattamento sanzionatorio elevando la pena da un minimo di un anno ad un massimo di sei anni e sei mesi di reclusione, il rapporto con il delitto di violazione di domicilio (punito con pena edittale da uno a quattro anni di reclusione) gioca a favore della maggiore gravità astratta del delitto di atti persecutori, anche in caso di violazione di domicilio aggravata ai sensi dell’art. 614 c.p., u.c., punita con pena edittale da due a sei anni di reclusione a seguito delle modifiche apportate dalla L. 26 aprile 2019, n. 36, art. 4, comma 1, lett. b).

Orbene, una volta osservato che all’epoca dei fatti (2018), il delitto di cui all’art. 612-bis c.p., comma 1, era punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni; quello di violazione di domicilio con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e, nella forma aggravata, con la pena della reclusione da uno a cinque anni e in termini generali e astratti, quindi, il delitto di atti persecutori non era recessivo rispetto a quello di violazione di domicilio, nemmeno nella sua forma aggravata, fatta salva, naturalmente, la diversa valutazione in concreto della gravità dei fatti operata dal giudice e, dunque, la possibilità che l’intero disvalore del fatto contestato al ricorrente potesse essere assorbito dal reato di violazione di domicilio non era da escludere a priori anche se, in concreto, i giudici di merito avevano ritenuto più grave il delitto di atti persecutori attribuendogli, a titolo di continuazione con il più grave delitto di violenza sessuale, una “porzione” di pena (tre mesi di reclusione) ben più elevata di quella assegnata ai due delitti di violazione di domicilio (quindici giorni di reclusione ciascuno) e che i reati di violazione di domicilio contestati al ricorrente erano due: i) il primo era stato consumato nella forma non aggravata ai sensi dell’art. 614 c.p., u.c. mentre il secondo era stato consumato con violenza sulle cose, la Cassazione riteneva come occorresse allora chiedersi se tali reati, siccome ritenuti meno gravi rispetto a quello di atti persecutori, potessero ritenersi assorbiti in quest’ultima fattispecie e se la loro autonoma punizione violasse il divieto del “bis in idem” sostanziale.

Ebbene, secondo gli Ermellini, la risposta doveva essere negativa.

In primo luogo, si notava che le due violazioni di domicilio non esaurivano per intero la condotta di atti persecutori così come contestata e ritenuta in sede di merito poiché, ad esse, se ne aggiungevano altre e, in particolare, le continue molestie e minacce poste in essere di persona e a mezzo telefono.

In secondo luogo, l’evento ipotizzato dalla rubrica (il perdurante e grave stato di ansia, l’alterazione delle abitudini di vita, il timore di essere pedinata) costituiva il risultato del convergere dell’insieme delle condotte contestate, non solo delle violazioni di domicilio, sicché la condotta integratrice di quest’ultimo reato non era interamente sovrapponibile al (nè si identifica per intero con il) “fatto” di atti persecutori così come contestato.

A fronte di ciò, si evidenziava come il ricorrente sostenesse, però, che il delitto di atti persecutori è un reato complesso ai sensi dell’art. 84 c.p. postulando l’assorbimento nella fattispecie incriminatrice dei delitti di violazione di domicilio in quanto possibile modalità esecutiva del reato stesso ma tale rilievo difensivo veniva stimato infondato perché il reato è complesso quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato (art. 84 c.p.) tenuto conto che la dottrina suole distinguere il reato complesso in senso stretto da quello in senso lato: il reato complesso in senso stretto è quello per la cui sussistenza, secondo il tenore letterale dell’art. 84 c.p., sono necessari almeno due reati; il reato complesso in senso lato è quello per la cui sussistenza è sufficiente un solo reato con l’aggiunta di ulteriori elementi di per sé non costituenti reato e fermo restando che un’ulteriore distinzione, non unanimemente condivisa dalla dottrina, riguarda la classificazione dei reati complessi in “necessariamente complessi” o “eventualmente complessi” a seconda che sia possibile o meno realizzare la fattispecie “complessa” commettendo necessariamente il reato che la integra oppure no.

Il reato necessariamente complesso, quindi, non può prescindere, a fini della sua integrazione, dalla consumazione della condotta che di per sé costituisce autonomo reato mentre il reato eventualmente complesso può invece prescinderne come nel caso, per esempio, dei reati a base violenta posti in essere senza commettere i delitti di percosse o lesioni (si pensi alla violenza sessuale consumata mediante il toccamento repentino e fugace delle zone erogene della vittima).

In particolare, secondo questa impostazione, il delitto di atti persecutori è un reato necessariamente complesso la cui consumazione non può mai prescindere dalla effettiva realizzazione di condotte di minaccia o molestia che di per sé integrano autonomi reati (rispettivamente, artt. 612 e 660 c.p.) atteso che il “quid pluris” è costituito, quanto alla minaccia, dalla necessaria reiterazione delle condotte (il che fa del reato in questione un delitto necessariamente abituale) e, quanto a entrambe le condotte, dalla loro idoneità a produrre alternativamente uno degli eventi tipici di per sé penalmente irrilevanti (il grave e perdurante stato di ansia o di paura; il timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da rapporto affettivo; il cambiamento delle proprie abitudini).

Secondo il ricorrente, invece, il delitto di atti persecutori è reato complesso in senso stretto perché nella fattispecie incriminatrice “si fondono due fatti costituenti reato nell’ambito di un’unica fattispecie più grave, come è appunto l’art. 612-bis c.p. rispetto all’art. 614 c.p.” ma tale assunto difensivo viene stimato del tutto infondato ed apodittico non essendo chiaro, ad avviso del Supremo Consesso, quali siano questi due reati dato che esso piuttosto postula l’assorbimento del reato di violazione di domicilio in quello di atti persecutori in quanto sua possibile modalità esecutiva, secondo quanto predica lo stesso capo di imputazione, così da qualificare il delitto di atti persecutori come reato eventualmente complesso in senso lato.

In disparte, allora, l’applicazione della clausola di riserva (che, come visto, parte della giurisprudenza limita ai soli casi di beni giuridici omogenei), la questione realmente posta è, per la Corte, se il delitto di atti persecutori possa essere consumato mediante plurime violazioni di domicilio ed, in caso positivo, se esse siano totalmente attratte (e sanzionate) dall’unica fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p. quando siano ritenute meno gravi in concreto.

Orbene, per rispondere a tale quesito, gli Ermellini evidenziavano come la giurisprudenza della Cassazione fosse da tempo assestata su un approccio ispirato all’insegnamento, più volte autorevolmente ribadito, secondo il quale, nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, che richiama, in motivazione, Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010; Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005; Sez. U,. n. 23427 del 09/05/2001; Sez. U, n. 22902 del 28/03/2001) mentre è stato sempre respinto il tentativo di ampliare il concorso apparente di norme alle figure dell’assorbimento, della consunzione e dell’ante-fatto o post-fatto non punibile in quanto “classificazioni ritenute (…) prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l’identità del bene giuridico tutelato dalle norme in comparazione e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti” (così in motivazione, Sez. U, n. 20664/2017) e tale criterio, spiegava la Corte, non è lesivo del divieto di bis in idem sostanziale sanzionato sia dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione EDU e dall’art. 50 della CDFUE, che dall’art. 649 c.p.p. (come ridefinito dalla sentenza della Corte Cost. n. 200 del 2016).

È necessario dunque stabilire per la Corte, se, comparando le relative fattispecie (e non le possibili modalità esecutive del reato), la violazione di domicilio costituisca una “species” del delitto di atti persecutori; tale possibilità deve essere valutata secondo i criteri risolutivi del concorso apparente di norme posti dagli artt. 15 e 84 c.p..

Ebbene, sotto questo profilo, si ritiene come si debba innanzitutto escludersi che la condotta tipica integrante il delitto di violazione di domicilio di cui all’art. 614 c.p. sia, in quanto tale, elemento costitutivo o circostanza aggravante del delitto di atti persecutori, di cui all’art. 612-bis c.p. mentre resta da verificare se la violazione di domicilio possa costituire una forma di minaccia o di molestia, se cioè, possa costituire elemento specializzante di tali fattispecie.

Per rispondere a tale quesito, veniva osservato che il criterio di specialità (art. 15 c.p.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez U, n. 1235/2010).

Orbene, come precisato da Sez. U, n. 1963/2010, la specialità tra fattispecie può essere declinata in vari modi: a) specialità unilaterale che si realizza con la specificazione dei requisiti dell’altra fattispecie (specialità per specificazione) o con l’aggiunta di elementi ulteriori rispetto all’altra fattispecie (specialità per aggiunta); b) specialità bilaterale o reciproca che si realizza quando l’aggiunta o la specificazione si verificano con riferimento sia all’ipotesi generale che a quella specifica; in particolare, nel caso della specialità unilaterale se si elimina la specificazione o raggiunta si ricade nell’ipotesi generale; nel caso della specialità bilaterale, invece, sorgono maggiori difficoltà perché non esistono criteri, se non di ordine logico, idonei a spiegare in modo inequivoco che cosa si intenda per norma speciale.

Escluso il ricorso ai criteri di sussidiarietà e consunzione, in quanto non tipizzati e tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, le Sezioni Unite n. 1963/2010 ritengono applicabile il criterio regolatore della “stessa materia” espressamente indicato dall’art. 15 c.p.: “È (…) da ritenere che per “stessa materia” debba intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico di reato nel quale si realizza l’ipotesi di reato”, non avendo immediata rilevanza l’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, “perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell’amministrazione della giustizia”.

L’identità di materia – afferma la sentenza – si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; ma ciò si verifica anche nel caso di specialità reciproca per specificazione (si veda per es. il rapporto tra 581 e 572 c.p.) ed è compatibile anche con la specialità unilaterale per aggiunta (per es. 605 e 630) e con la specialità reciproca parte per specificazione e parte per aggiunta (art. 641 c.p. e L. Fall., art. 218) mentre invece l’identità di materia è da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta nei casi in cui ciascuna delle fattispecie presenti, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo (per es. violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso; rapporto di parentela o affinità nel secondo).

Infatti, perché possa ritenersi applicabile l’art. 15 c.p. – affermano le Sezioni unite – è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare tutti la medesima materia ed avere identità di struttura e tale è, per es., il rapporto tra le fattispecie criminose previste dagli artt. 610 e 611 c.p. o tra quelle previste dagli artt. 624 e 626 c.p.. Ciò posto, si è già visto invece che, nel caso di specialità bilaterale o reciproca, il problema è di meno agevole soluzione proprio perché entrambe le fattispecie (ma potrebbero essere anche più di due) presentano, rispetto all’altra, elementi di specialità.

Giurisprudenza e dottrina si rifanno a indici diversi che possono così indicativamente riassumersi: – i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese (per es. c.c. e L. Fall.); specialità tra soggetti (per es. artt. 616 e 619 c.p.); – la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti.

Nei casi di specialità reciproca spesso è la stessa legge a indicare quale sia la norma prevalente con una clausola di riserva che può essere: – determinata (al di fuori delle ipotesi previste dall’art); – relativamente determinata (si individua una categoria: per es.: se il fatto non costituisce un più grave reato); – indeterminata (quando il rinvio è del tipo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge)”.

Ebbene, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, alla luce di quanto sin qui esposto, si deve escludere che tra le fattispecie di reato di cui agli artt. 612-bis e 614 c.p. sussista un rapporto di specialità unilaterale ovvero bilaterale (o reciproca) dato che, in disparte la radicale diversità dell’oggetto giuridico protetto (la libertà morale, nel primo caso, l’inviolabilità del domicilio, nel secondo), le condotte che integrano i due diversi delitti si pongono, sul piano strutturale, in rapporto di eterogeneità e di non interferenza tra loro non potendosi sostenere che la condotta dell’ingresso (o intrattenimento) abusivo nell’altrui domicilio costituisca una “species” della condotta di minaccia o molestia (e viceversa).

I reati di minaccia e molestie, in effetti, sono causalmente orientati ma ciò non legittima interpretazioni estensive delle relative fattispecie che violerebbe il principio di tassatività.

La molestia, difatti, può certamente essere una conseguenza (o il fine) della violazione di domicilio ma non si identifica con essa così come allo stesso modo la minaccia alla persona può costituire una modalità esecutiva della condotta di violazione di domicilio (per costringere, per esempio, l’ingresso o la permanenza nell’abitazione altrui) ma non è essa stessa una forma di minaccia per quanto il turbamento psicologico di chi subisce l’intrusione nel proprio domicilio costituisca una conseguenza normale della condotta, ancorché non richiesta nè prevista dall’art. 614 c.p. quale elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato.

Da questo punto di vista, dunque, per la Suprema Corte, non v’è alcun rapporto di specialità nemmeno bilaterale (o reciproca) tra le due fattispecie di reato posto che, se è pur vero, che l’art. 612-bis c.p. prevede un quid pluris rispetto all’art. 614 c.p. (l’idoneità della condotta a provocare uno dei tre eventi alternativamente previsti) ed è altrettanto vero che la condotta di violazione di domicilio non contiene alcun elemento specializzante di quella descritta dall’art. 612-bis c.p..

Tra l’altro, anche a voler ritenere, secondo l’impostazione difensiva qui non accolta, che la violazione di domicilio costituisca una species della minaccia o della molestia, tra le fattispecie di reato di cui agli artt. 612-bis e 614 c.p., per gli Ermellini, sussisterebbe al più un rapporto di specialità bilaterale (la condotta di violazione di domicilio sarebbe speciale rispetto a quella generica di minaccia o molestia; il delitto di atti persecutori sarebbe a sua volta speciale perché la fattispecie richiede l’attitudine della condotta a provocare uno dei tre eventi, attitudine non richiesta dall’art. 614 c.p.), la radicale diversità del bene giuridico tutelato dalle due fattispecie penali (e dunque della loro “materia“) impedirebbe l’applicazione dell’art. 15 c.p., a favore del concorso formale tra norme che può essere escluso solo in virtù dell’applicazione della clausola di riserva ma questo non esclude che il delitto di violazione di domicilio possa costituire, come nel caso di specie, una modalità esecutiva del reato di atti persecutori atteso che l’introduzione nel domicilio altrui può essere percepita dalla vittima come la minaccia di un male futuro quando, per le modalità esecutive e/o per i segni lasciati, quest’ultima percepisca la possibilità concreta di ulteriori intrusioni nel proprio domicilio e tema per la propria incolumità proprio nel luogo nel quale dovrebbe sentirsi più al sicuro; continue intrusioni nel domicilio altrui possono sortire anche (o solo) l’effetto di molestare la persona.

In tutti questi casi, pertanto, la violazione di domicilio è strumentale alla consumazione di un altro reato siccome finalizzata a produrre, come scopo perseguito dal suo autore, una minaccia ovvero una molestia, non identificandosi la condotta intrusiva nè con l’una con l’altra e, quindi, quando le condotte sono reiterate e poste in essere nella consapevolezza (o al fine) della produzione di uno dei tre possibili eventi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis c.p., deve essere escluso il concorso formale di cui all’art. 81 c.p., comma 1, (posto che il reato di atti persecutori non può essere perfezionato con una sola azione) e deve essere ritenuto il concorso materiale di reati, aggravato dal nesso teleologico eterogeneo di cui all’art. 61 c.p., n. 2), ovvero – ipotesi più probabile – la continuazione tra reati.

Viceversa, la clausola relativamente indeterminata di salvezza di cui all’art. 612-bis c.p., comma 1, potrebbe escludere il concorso materiale nella sola ipotesi che gli atti persecutori vengano posti in essere esclusivamente mediante più violazioni di domicilio ritenute in concreto più gravi ma si tratta per la Corte di eventualità più astratta che concreta considerato che la pena edittale del reato di cui all’art. 612-bis c.p. è più elevata nel massimo anche rispetto alla fattispecie aggravata del reato di violazione di domicilio.

In conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, venivano affermati i seguenti principi di diritto:

il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. è un reato necessariamente abituale per la cui perfezione è necessaria la consumazione di un altro reato (la minaccia o le molestie) e un quid pluris che consiste nella produzione alternativa di uno dei tre eventi, nessuno dei quali costituisce di per sé reato;

tra il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. e quello di violazione di domicilio di cui all’art. 614 c.p. non sussiste alcun rapporto di specialità, unilaterale o bilaterale, con la conseguenza che i due reati, fatta salva l’applicazione della clausola di riserva, concorrono materialmente;

il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. non assorbe mai quello di cui all’art. 614 c.p., comma 1, quando commesso esclusivamente mediante violazioni di domicilio non aggravate;

il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., quando commesso esclusivamente mediante più violazioni di domicilio aggravate, può essere assorbito nel reato di cui all’art. 614 c.p., u.c., solo se quest’ultimo è ritenuto in concreto più grave“.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto in essa si chiarisce il rapporto tra il delitto di atti persecutori e quello di violazione di domicilio.

Difatti, dopo essere stato postulato il principio di diritto secondo il quale il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. è un reato necessariamente abituale per la cui perfezione è necessaria la consumazione di un altro reato (la minaccia o le molestie) e un quid pluris che consiste nella produzione alternativa di uno dei tre eventi, nessuno dei quali costituisce di per sé reato, gli Ermellini chiariscono per l’appunto il rapporto tra questi due illeciti penali nei seguenti termini: a) tra il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. e quello di violazione di domicilio di cui all’art. 614 c.p. non sussiste alcun rapporto di specialità, unilaterale o bilaterale, con la conseguenza che i due reati, fatta salva l’applicazione della clausola di riserva, concorrono materialmente; b) il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. non assorbe mai quello di cui all’art. 614 c.p., comma 1, quando commesso esclusivamente mediante violazioni di domicilio non aggravate; c) il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., quando commesso esclusivamente mediante più violazioni di domicilio aggravate, può essere assorbito nel reato di cui all’art. 614 c.p., u.c., solo se quest’ultimo è ritenuto in concreto più grave.

Tali criteri ermeneutici, pertanto, possono essere presi nella dovuta considerazione al fine di verificare se questi fattispecie delittuose concorrano o meno fra di loro.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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