La Cassazione circoscrive alcuni casi in cui il giudice d’appello ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento

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(Annullamento con rinvio)

(Normativa di riferimento: C.p.p. artt. 129, 603)

Il fatto

La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 24 novembre 2017, in parziale riforma della decisione del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Forlì, dichiarava L. P. responsabile del reato di cui agli art. 81, cod. pen. e 2, d. I. n. 463/1983 (omissioni contributive INPS da dicembre 2009 a giugno 2010) esclusa la mensilità di giugno 2010 e lo condannava, applicata la recidiva specifica contestata, alla pena di anni 1 e giorni 10 di reclusione ed C 1.110,00 di multa.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Ricorreva per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:

a) violazione di legge (art. 586 e 159 cod. proc. pen.) relativamente alla sospensione dei termini di prescrizione per il rinvio del 2 maggio 2017 per la nullità del decreto di citazione che era stato rinnovato stante il fatto che, premesso che, all’udienza dell’Il aprile 2017, la difesa aveva sollevato questione di costituzionalità, in relazione all’art. 4, comma 1, lettera A del Codice di autoregolamentazione, se interpretato per l’impossibilità dell’astensione del difensore, considerata l’imminente prescrizione del reato mentre la Corte di appello aveva ritenuto non rilevante la questione in quanto la decisione poteva intervenire prima della prescrizione, rinviando all’udienza del 2 maggio 2017, e, in questa udienza, per l’astensione del difensore, erano stati sospesi i termini di prescrizione e, alla successiva udienza del 28 settembre 2017, la difesa eccepiva la nullità della notifica della citazione all’imputato, e la Corte di appello rinnovava la citazione all’imputato; pertanto, in considerazione della originaria nullità della citazione a giudizio dell’imputato, la Corte di appello, ad avviso del ricorrente, non avrebbe potuto sospendere i termini di prescrizione per l’adesione del difensore all’astensione dalle udienze della categoria e comunque il rinvio sarebbe stato necessario per regolarizzare la notifica all’imputato;

b) nullità dell’ordinanza della Corte di appello del 28 settembre 2017 di rigetto dell’istanza di correzione di errore materiale della sentenza di primo grado (pronuncia della decisione ex art. 129, cod. proc. pen. e non ex art. 530, cod. proc. pen.) giacché il giudice di primo grado, dopo l’escussione del teste dell’accusa (un funzionario dell’INPS), aveva pronunciato sentenza senza l’escussione dei testi della difesa regolarmente ammessi e il processo di primo grado si era svolto senza le prove della difesa e, dopo l’impugnazione del P.M. alla sentenza di assoluzione, l’imputato si era trovato in appello senza aver potuto provare elementi fondamentali per la sua innocenza fermo restando che lo stesso giudice di primo grado aveva riconosciuto, nel provvedimento di trasmissione degli atti alla Corte di appello del 14 ottobre 2016, l’errore materiale, ovvero di aver deciso ex art. 129 cod. proc. pen.;

c) violazione di legge (art. 2, d. I. n. 463/1983) per la condanna dell’imputato in riforma della decisione di assoluzione di primo grado, in assenza del pagamento delle retribuzioni ai dipendenti dal momento che Iin udienza il teste sentito era G. F. e non quello indicato in sentenza (R. C., direttore dell’INPS) e dalla lettura della testimonianza si evinceva, chiaramente, come le retribuzioni ai dipendenti non fossero state corrisposte in quanto gli stessi avevano richiesto all’INPS il pagamento delle ultime tre retribuzioni prima del fallimento attraverso il fondo di garanzia (art. 2, d. Igs. 80/1982) e dunque, la mancata corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti comportava l’insussistenza del reato (Sez. Un. 27641 del 28/05/2003 – dep. 23/06/2003, omissis, Rv. 22460901);

d) nullità della sentenza per la condanna dell’imputato dopo la sentenza di primo grado di assoluzione senza l’acquisizione di prove decisive richieste dalla difesa ed ammesse già in primo grado visto che il Giudice di primo grado non aveva escusso i testi della difesa in quanto aveva pronunciato sentenza ex art. 129, cod. proc. pen. mentre, con la memoria depositata in appello (il 15 novembre 2017), la difesa aveva richiesto l’escussione dei testi già ammessi in primo grado mentre la Corte di appello, invece, aveva condannato l’imputato su una prova parziale rilevandosi a tal proposito, in particolar modo, come l’audizione del curatore del fallimento avrebbe eliminato ogni dubbio sull’omesso pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e, di conseguenza, le prove in questione erano sia rilevanti, che decisive;

e) omessa rinnovazione delle prove orali assunte in primo grado dato che il teste escusso in primo grado, poiché diversamente valutato in sede di appello, avrebbe dovuto essere riascoltato (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016 – dep. 06/07/2016, omissis, Rv. 26748801) e dunque la motivazione della Corte di appello (non vertendosi nell’ipotesi di diversa valutazione della prova dichiarativa ma di un errore di diritto o di travisamento commesso dal primo giudice) non poteva essere condivisa dalla difesa in quanto il giudice di primo grado aveva ritenuto di assolvere l’imputato sulla sola dichiarazione testimoniale di F. G., senza l’assunzione di altre prove senza contare il fatto che la dichiarazione testimoniale di F. G. poteva essere letta anche in maniera più favorevole all’imputato (altre ipotesi di assoluzione) da quella già ritenuta dal giudice di primo grado e, conseguentemente, la Corte di appello era obbligata a risentire il teste in contraddittorio;

f) violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione relativamente all’omissione del versamento del mese di maggio 2010, con scadenza al 16 giugno 2010 poiché la Corte di appello, considerato il fallimento della ditta alla data dell’11 giugno 2010, aveva assolto il ricorrente per la rata di giugno 2010, ma non aveva considerato che anche la rata di maggio 2010 sarebbe scaduta dopo la dichiarazione di fallimento, il 16 giugno 2010 stante il fatto che, alla data del 16 giugno 2010, l’imputato non era più il legale rappresentante per la dichiarazione di fallimento dell’il giugno 2010;

g) violazione di legge (art. 99 cod. pen.) per l’applicazione della recidiva senza i relativi presupposti perché la Corte di appello aveva indicato quale reato base, ai fini della continuazione, il reato relativo alla rata omessa del dicembre 2009; per la Corte di appello, inoltre, la recidiva andava applicata in quanto il ricorrente aveva commesso altro reato (omesso versamento IVA) fino al 10 giugno 2009 mentre, posto che per l’art. 99, cod. pen. quello che deve considerarsi è la data di passaggio in giudicato della condanna, e non quella di commissione del reato, il decreto penale risultava passato in giudicato il 20 febbraio 2010, cioè successivamente alla condotta contestata come reato base fermo restando che comunque mancavano proprio in concreto i presupposti per l’applicazione della recidiva, essendoci un unico precedente penale e, peraltro, gli omessi versamenti erano dovuti alla crisi di liquidità sfociata nel fallimento e non già alla capacità criminale o maggiore pericolosità del ricorrente; tal che se ne faceva conseguire che, esclusa la recidiva, il termine di prescrizione di anni 7 e mesi 6 risultava già decorso alla data della sentenza di appello;

h) violazione di legge (art. 157, 159 e 161 cod. pen.), prescrizione delle omissioni per le mensilità fino al maggio 2010 dal momento che, una volta esclusa la recidiva, la prescrizione, al momento della sentenza di appello, era già decorsa per le omissioni fino alla mensilità del maggio 2010 (considerata anche l’assenza di sospensioni per esigenze della difesa);

i) violazione di legge (art. 62 bis, cod. pen.) e carenza ed illogicità della motivazione per il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche visto che il  richiamo al precedente specifico, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, era del tutto errato poiché la Corte di appello avrebbe dovuto valutare il fatto nella sua interezza ex art. 133, cod. pen. e, in particolare, avrebbe dovuto valutare lo stato di crisi irreversibile che aveva portato al fallimento; inoltre non erano state assunte le prove richieste dall’imputato anche su tutte le circostanze ex art. 133, cod. pen.;

l) violazione di legge (art. 99, ultimo comma, e 135, cod. pen.) per l’applicazione della recidiva facoltativa in assenza dei presupposti di legge giacché in nessun caso l’aumento della pena, per effetto della recidiva, può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto (art. 99, ultimo comma, cod. pen.) mentre il decreto penale di condanna era stato emesso con una pena di C 3.420,00 di multa e con il ragguaglio ex art. 135, cod. pen. (C 250,00 per ogni giorno di detenzione) l’aumento di pena avrebbe potuto essere al massimo di 14 giorni di reclusione, e non di 30 giorni, come effettuato nella sentenza impugnata; m) mancanza di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di sanzioni sostitutive ex art. 53, legge 689/1981 visto che, con memoria depositata all’udienza del 24 novembre 2017, la difesa aveva richiesto la conversione della detenzione nelle sanzioni sostitutive mentre, a fronte di ciò, la Corte di appello aveva motivato solo sulle ragioni di non conversione della pena detentiva in quella pecuniaria, ma nulla aveva motivato per le altre sanzioni sostitutive (libertà controllata o semidetenzione).

Si chiedeva quindi l’annullamento della sentenza impugnata.

Vedi anche:”La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a seguito di appello del Pubblico Ministero”

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione 

Il Supremo Consesso riteneva il ricorso proposto fondato relativamente all’omessa rinnovazione della prova orale assunta in primo grado e sull’omessa assunzione di prove decisive richieste dalla difesa relative alla dimostrazione del mancato pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e, di conseguenza, questo motivo di ricorso sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello assorbiva, a parere della Corte, logicamente gli altri motivi di ricorso.

Si osservava prima di tutto come si discutesse nel caso in questione non di una semplice rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ma del diritto alla prova dell’imputato; prova già ammessa dal Tribunale e non espletata per una decisione di assoluzione ex art. 129, cod. proc. pen. (con la considerazione della superfluità della prova in relazione alla sentenza di assoluzione) atteso che l’imputato aveva richiesto la testimonianza del curatore fallimentare (Avv. I. V.) affinché riferisse per quale periodo non erano state corrisposte le retribuzioni ai dipendenti; in alternativa l’imputato aveva chiesto la testimonianza del direttore dell’Inps competente per la zona di Cesena affinché riferisse se i dipendenti della S. s.p.a. avessero proposto al Fondo di garanzia dell’INPS la domanda per l’ottenimento delle retribuzioni non versate prima del fallimento.

Si stimava pertanto come fosse chiaro che la mancata corresponsione delle retribuzioni non faceva configurare il reato fermo restando che il Tribunale però non aveva assolto l’imputato sulla mancata corresponsione delle retribuzioni, ma su altra questione (l’intervenuto fallimento che aveva impedito il pagamento dopo l’intimazione INPS), e pertanto non aveva valutato la testimonianza assunta di F. G., relativamente al mancato pagamento delle retribuzioni così come neanche la Corte di appello.

Tal che, nel ribadirsi la giurisprudenza della Cassazione sul punto la quale ritiene un diritto alla prova della parte in appello, nelle ipotesi di negazione dell’espletamento della prova in primo grado, vale a dire: «Il giudice di appello ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento quando la richiesta di parte sia riconducibile alla violazione del diritto alla prova, che non sia stato esercitato o per forza maggiore o per la sopravvenienza della prova dopo il giudizio, o perché la ammissione della prova, ritualmente richiesta nel giudizio di primo grado, sia stata irragionevolmente negata da quel giudice» (Sez. 6, n. 7197 del 10/12/2003 – dep. 19/02/2004, omissis, Rv. 22846201; vedi anche Sez. 6, n. 11082 del 27/05/1999 – dep. 28/09/1999, omissis, Rv. 21433401), gli ermellini, nella decisione in commento, postulavano come la Corte di appello avesse, quindi, l’obbligo ex art. 603, comma 2, cod. proc. pen. di rinnovare l’istruttoria dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495, comma 1, cod. proc. pen. evidenziandosi, nel dettaglio, come l’effettivo pagamento delle retribuzioni non fosse stato valutato dalla Corte di appello se non con il riferimento ai modelli DM 10: «In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, la presentazione da parte del datore di lavoro degli appositi modelli attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale può essere valutata come prova piena della effettiva corresponsione delle retribuzioni stesse solo in assenza di elementi contrari» (Sez. 3, n. 37330 del 15/07/2014 – dep. 09/09/2014, omissis, Rv. 25990901).

Da ciò i giudici di Piazza Cavour giungevano a formulare il seguente principio di diritto: “Il giudice d’appello ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento quando la richiesta della parte sia riconducibile alla violazione del diritto alla prova, non esercitato non per inerzia colpevole, ma per forza maggiore o per la sopravvenienza della prova dopo il giudizio, e quando infine la sua ammissione sia stata irragionevolmente negata dal giudice di primo grado, o quando il giudice di primo grado aveva ritenuto superflue le prove già ammesse in relazione ad una pronuncia di assoluzione ex art. 129 cod. proc. pen. non condivisa dal giudice di appello che ha riformato la sentenza con la condanna dell’imputato, senza previa escussione dei testi della difesa”.

Pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, la Corte di Cassazione affermava come la sentenza dovesse essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.

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Conclusioni

La sentenza in questione è assai interessante in quanto in essa si chiariscono dei casi in cui il giudice di appello è tenuto a disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, vale a dire le seguenti situazioni procedurali: 1) quando la richiesta della parte sia riconducibile alla violazione del diritto alla prova, non esercitato non per inerzia colpevole, ma per forza maggiore o per la sopravvenienza della prova dopo il giudizio; 2) quando la sua l’ammissione di una data prova sia stata irragionevolmente negata dal giudice di primo grado; 3) quando il giudice di primo grado aveva ritenuto superflue le prove già ammesse in relazione ad una pronuncia di assoluzione ex art. 129 cod. proc. pen. non condivisa dal giudice di appello che ha riformato la sentenza con la condanna dell’imputato, senza previa escussione dei testi della difesa.

Va da sé dunque che, ove dovesse verificarsi una di queste evenienze processuali, ben si potrà richiamare questa pronuncia nel ricorso per Cassazione al fine di motivare in ordine alla mancata rinnovazione dibattimentale da parte dei giudici di secondo grado.

Il giudizio, in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, di conseguenza, non può che essere positivo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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