Il fatto
La Corte di appello di Brescia dichiarava l’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione presentata dalla Repubblica di Serbia nei confronti del cittadino serbo S. K., pure cittadino svedese, in relazione all’ordine di arresto emesso il 08/11/2018 dall’autorità giudiziaria serba per dare esecuzione alla sentenza definitiva del 27/04/2017 con la quale il Tribunale di Belgrado aveva condannato il prevenuto alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione in relazione al reato di ‘violenza domestica‘ previsto dall’art. 194 del codice penale serbo.
Rilevava la Corte di appello bresciana come sussistessero tutte le condizioni previste dalla disciplina codicistica e da quella della Convenzione europea di estradizione del 1957 per accogliere quella richiesta di estradizione passiva avendo l’autorità richiedente comunicato il luogo e le condizioni dell’istituto dove l’interessato avrebbe scontato la pena in quanto, per un verso, non essendo applicabili i principi dettati dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 13/11/2018 relativa all’estradizione verso un Paese terzo di un cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, per altro verso, essendo state rispettate, nel processo svoltosi a Belgrado nei confronti di K., i principi fondamentali del giusto processo previsti anche dall’ordinamento processuale penale italiano.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale sentenza presentava ricorso il K., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale aveva dedotto i seguenti tre motivi: 1) violazione di legge, in relazione all’art. 143 cod. proc. pen, per essere stata omessa la traduzione della sentenza della Corte di appello di Brescia in una lingua comprensibile dall’estradando il quale, nel procedimento dinanzi a quella Corte era stato assistito da un interprete, e, dunque, non aveva potuto esercitare compiutamente il suo diritto di impugnazione; 2) violazione di legge, in relazione agli artt. 586, 698 e 705 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale adottato una ordinanza istruttoria senza tenere conto dei preoccupanti risultati di una visita effettuata nel maggio del 2017 presso le strutture carcerarie serbe dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, confermati anche da un successivo report del 2019, relativi al sovraffollamento carcerario in quel paese e per avere valutato le risposte pervenute dal governo serbo, senza avere alcuna certezza in ordine alla destinazione finale del K. e al trattamento allo stesso in concreto riservato; 3) vizio di motivazione, per manifesta illogicità, per avere la Corte distrettuale sostanzialmente disapplicato il dictum della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea n. 247/17 del 13/11/2018 che aveva imposto agli Stati membri di rispettare, per l’estradizione verso un Paese terzo, qual è la Serbia, le stesse condizioni e i diritti spettanti ai propri cittadini come a tutti i cittadini di altri Stati membri dell’UE essendo il K. cittadino svedese.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
Il ricorso veniva rigettato alla stregua delle seguenti considerazioni.
Il primo motivo del ricorso veniva dichiarato inammissibile per carenza di interesse atteso che costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Cassazione il principio secondo il quale, in tema di estradizione per l’estero, anche dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 32 del 2014 nell’art. 143 cod. proc. pen., è onere dell’estradando, che abbia interesse alla traduzione in lingua madre della sentenza favorevole all’estradizione, farne istanza ai fini dell’esercizio del diritto di impugnazione con la conseguenza che la proposizione del ricorso avverso la sentenza di cui non è stata richiesta la traduzione consuma tale facoltà, presupponendone la carenza d’interesse (così, da ultimo, Sez. 6, n. 20634 del 12/02/2015).
Ciò posto, gli Ermellini ritenevano come non vi fosse alcuna ragione per disattendere tale consolidato indirizzo interpretativo tanto più in una fattispecie nella quale risultava come il ricorrente avesse presentato, per mezzo del suo difensore abilitato, un articolato e dettagliato atto di impugnazione così dimostrando di avere avuto piena cognizione del contenuto argomentativo del provvedimento gravato ovvero di aver potuto esercitare senza alcun condizionamento il proprio diritto di difesa.
A sua volta il secondo motivo del ricorso era stimato privo di pregio essendo espressione di un pacifico orientamento esegetico secondo il quale, in tema di estradizione per l’estero, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, cod. proc. pen., è onere dell’estradando allegare elementi e circostanze che la Corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, al fine di accertare se, nel caso concreto, l’interessato sarà alla consegna sottoposto, o meno, ad un trattamento inumano o degradante (Sez. 6, Sentenza n. 8529 del 13/01/2017) fermo restando che, con riferimento alla ‘parallela‘ disciplina del mandato di arresto europeo, è stato sostenuto che, per accertare l’effettiva sussistenza di un pericolo di trattamento inumano e degradante, ostativo alla consegna del detenuto all’autorità dello Stato richiedente, occorre l’acquisizione, da parte dell’autorità giudiziaria remittente, di informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione (Sez. 6, n. 26383 del 05/06/2018) e ciò perché l’accertamento di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante del regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegna, è da svolgersi, secondo quanto chiarito dalla Corte di giustizia della Unione europea (sent. del 05/04/2016, C-404/15, Aaranyosi e C-659/15, Caldararu), attraverso la richiesta allo Stato emittente di tutte le informazioni relative alle specifiche condizioni di detenzione previste per l’interessato (Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017; conf. Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016) tenuto conto altresì come debba ritenersi integrare una situazione di grave ed intollerabile sovraffollamento, suscettibile di integrare i presupposti dell’art. 3 CEDU, la detenzione della persona in uno spazio inferiore a tre metri quadrati in regime chiuso mentre tale “forte presunzione” di disumanità della restrizione in caso di superficie inferiore a detta soglia può nondimeno essere superata in presenza di circostanze che consentano al detenuto di beneficiare di maggiore libertà di movimento durante il giorno, rendendogli possibile il libero accesso alla luce naturale ed all’aria, sì da compensare l’insufficiente assegnazione di spazio.
Orbene, ad avviso del Supremo Consesso, di tali regulae iuris la Corte di appello di Brescia aveva fatto corretta applicazione nel caso di specie – in una situazione nella quale erano stati segnalati da organismi internazionali i rischi obiettivi derivanti da un sovraffollamento nelle carceri della Serbia – richiedendo ed ottenendo dall’autorità governativa serba specifiche informazioni sull’istituto e sulle caratteristiche del regime detentivo al quale sarebbe sottoposto il prevenuto, sui verosimili sviluppi dell’esecuzione della pena che lo riguarderà e sulla situazione carceraria che gli sarà riservata.
In particolare, osserva sempre la Cassazione, quella autorità aveva puntualizzato che la superficie della cella che verrà assegnata al K. sarebbe stata non inferiore a quattro metri quadrati, al netto dello spazio occupato dalle attrezzature e dai servizi e che i servizi sanitari sarebbero separati dal resto della cella e che i detenuti avrebbero beneficiato di una assistenza sanitaria, eventualmente integrata anche da strutte ospedaliere esterne nonché il fatto che ai reclusi sarebbero state garantite quotidianamente almeno due ore di tempo libero da trascorrere fuori dalla cella: descrizione questa dalla quale, sempre a detta dei giudici di legittimità ordinaria, non pareva ravvisabile quella violazione dell’art. 3 CEDU che, secondo quanto specificato dalla Corte di Strasburgo, impone allo Stato l’obbligo positivo di assicurarsi che tutte le persone ristrette siano detenute in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato a uno stress o a una prova la cui intensità superi il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e che, considerate le esigenze pratiche della carcerazione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in maniera adeguata (così, da ultimo nella sentenza del 09/07/2013, Ciobanu c. Romania e Italia, n. 4509/08).
A fronte di tali informazioni, secondo la Corte, le doglianze del ricorrente apparivano essere generiche e meramente ripetitive di quelle disattese dal giudice bresciano.
Dal canto suo il terzo motivo del ricorso veniva stimato infondato.
Si notava a tal proposito come la Corte di giustizia dell’Unione europea fosse stata recentemente chiamata ad esprimersi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta ai sensi dell’art. 267 TFUE dalla Corte suprema della Finlandia nell’ambito di un procedimento di estradizione esecutiva verso la Russia di un cittadino russo e lituano avviato sulla base delle norme della Convenzione europea di estradizione del 1957.
Ebbene, i Giudici europei, dovendosi esprimere sulla interpretazione degli artt. 18, comma 1, e 21 TFUE che garantiscono la libertà dei cittadini degli altri Stati membri di circolare e soggiornare, senza discriminazioni in base alla cittadinanza, sul territorio degli Stati membri, avevano concluso postulando che tali disposizioni devono essere interpretate nel senso che, in presenza di una domanda, presentata da un paese terzo, di estradizione di un cittadino dell’Unione europea che ha esercitato il proprio diritto alla libera circolazione, la quale sia finalizzata non all’esercizio dell’azione penale, bensì all’esecuzione di una pena detentiva, lo Stato membro richiesto, il cui diritto nazionale vieti l’estradizione dei propri cittadini al di fuori dell’Unione ai fini dell’esecuzione di una pena e preveda la possibilità che una siffatta pena irrogata all’estero sia scontata nel suo territorio, è tenuto a garantire a tale cittadino dell’Unione, purché sia residente in modo permanente nel suo territorio, un trattamento identico a quello accordato ai propri cittadini in materia di estradizione (C. giust. UE, sent. del 13/11/2018, C-247/17).
A sua volta tale principio, anche considerato quanto stabilito, per l’analoga disciplina del mandato di arresto europeo, dall’art. 18 bis della legge n. 69 del 2005 recentemente introdotto dall’art. 6, comma 5, della legge n. 117 del 2019, ad avviso della Corte, deve certamente considerarsi valido anche nel nostro ordinamento, tenuto conto che: a) in generale, una norma nazionale che dovesse vietare l’estradizione dei soli cittadini dello Stato richiesto introdurrebbe una disparità di trattamento tra questi ultimi e i cittadini degli altri Stati membri; che è irrilevante che il soggetto interessato possieda anche la cittadinanza dello Stato terzo richiedente l’estradizione in quanto la Corte europea ha chiarito che tale circostanza “non può privare l’interessato delle libertà che gli derivano dal diritto dell’Unione in quanto cittadino di uno Stato membro” (C. giust. UE, sent. del 07/07/1992, Micheletti, C-369/90); b) una disparità di trattamento, consistente nel permettere l’estradizione di un cittadino dell’Unione avente la cittadinanza di un altro Stato membro, si potrebbe tradurre in una restrizione della libertà di circolazione, ai sensi dell’art. 21 TFUE: restrizione che può essere giustificata solo se basata su considerazioni oggettive e proporzionate all’obiettivo legittimamente perseguito dalla normativa nazionale quale può essere il fatto che l’interessato abbia una residenza stabile nello Stato richiesto, espressione di un sicuro grado di inserimento nella società di detto Stato, p er altro verso, si trovano in una situazione comparabile (C. giust. UE, sent. del 06/10/2009, Wolzenburg, C-123/08).
Alla luce di tali indicazioni interpretative, i giudici di piazza Cavour ritenevano come dovesse essere constatata la piena correttezza della soluzione fornita dalla Corte di appello di Brescia che a sua volta aveva rilevato come quel principio non fosse applicabile nel caso di specie posto che, da un lato, il K. era sì cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea ma non aveva alcun stabile collegamento con il territorio dello Stato italiano nel quale si trovava, in occasione del suo arresto, per contingenti ragioni di lavoro, da altro lato, lo Stato italiano non aveva esercitato la facoltà, prevista dall’art. 6 della Convenzione europea di estradizione, di rifiutare l’estradizione di propri cittadini sicché difettava il paventato rischio di discriminazione rispetto ai cittadini di altri Stati dell’Unione europea.
Conclusioni
La sentenza in questione è assai interessante dato che in essa si affrontano diverse tematiche giuridiche afferenti l’estradizione all’estero.
In particolare, in questa decisione, anche avvalendosi dei precedenti elaborati dalla stessa Cassazione in tema di estradizione per l’estero, venivano formulati i seguenti principi di diritto: a) anche dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 32 del 2014 nell’art. 143 cod. proc. pen., è onere dell’estradando, che abbia interesse alla traduzione in lingua madre della sentenza favorevole all’estradizione, farne istanza ai fini dell’esercizio del diritto di impugnazione con la conseguenza che la proposizione del ricorso avverso la sentenza di cui non è stata richiesta la traduzione consuma tale facoltà, presupponendone la carenza d’interesse; b) ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, cod. proc. pen., è onere dell’estradando allegare elementi e circostanze che la Corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, al fine di accertare se, nel caso concreto, l’interessato sarà alla consegna sottoposto, o meno, ad un trattamento inumano o degradante.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tali tematiche processuali, dunque, non può che essere positivo.
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