La Cassazione individua un particolare caso di peculato

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(Ricorso rigettato)

Il fatto

La Corte di Appello di Roma confermava la condanna di un imputato per il reato di peculato perché, nell’esercizio dell’attività di legale rappresentante di una s.r.l., società che gestiva per conto della C. s.p.a. – concessionaria per l’esercizio di giochi elettronici di cui all’art. 110 comma 6, T.U.L.P.S., – gli apparecchi e gli incassi, si impossessava delle somme relative al “prelievo erariale unico” (PREU), di competenza della Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), per l’importo di circa € 400.000, nonché del compenso destinato alla concessionaria, per circa € 24.000.

I fatti, commessi tra il dicembre 2009 ed il giugno 2010, erano sintetizzati dal giudice di appello come segue.

2.1. La C. s.p.a. il 26 luglio 2004 stipulava con il Ministero dell’Economia una convenzione di concessione per l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito mediante apparecchi di divertimento e intrattenimento. Con tale concessione, la società assumeva il ruolo di gestore ed operatore del gioco attraverso apparecchi collegati alla rete telematica della Amministrazione dei Monopoli, in base al numero di nullaosta per la messa in esercizio rilasciati dalla medesima amministrazione.

Inoltre, la società diventava garante della liceità del gioco da essa controllato, nonché soggetto passivo del PREU da versare all’Erario.

La convenzione consentiva espressamente che il concessionario svolgesse il servizio pubblico avvalendosi di altri soggetti gestori, prevedendo che nel relativo contratto di collaborazione fossero contenute talune clausole: a) l’obbligo di installazione da parte del gestore presso i vari pubblici esercizi dei soli apparecchi muniti del nullaosta per la messa in esercizio; b) la predisposizione da parte del concessionario delle attività tecniche per il collegamento degli apparecchi da gioco alla rete telematica della AAMS; c) l’elaborazione del cd. quindicinale da parte del concessionario in base ai dati trasmessi da ciascun apparecchio al sistema telematico; d) la riscossione da parte del gestore della quota residua, ottenuta previa deduzione dal monte complessivo delle giocate di quanto restituito in vincite in favore dei giocatori, PREU, canone di concessione e remunerazione del concessionario. Tale quota residua doveva essere versata dal gestore al concessionario entro sette giorni, detratta la parte di propria spettanza.

Il 14 ottobre 2009 la società concessionaria stipulava un contratto di collaborazione per la raccolta delle giocate con A.  R., amministratore unico della I. G. s.r.I., che assumeva il ruolo di gestore.

  1. svolgeva regolarmente la propria attività fino alla prima quindicina del mese di dicembre 2009 per poi interrompere la regolarità dei versamenti delle somme prelevate dagli apparecchi da gioco; tuttavia, i responsabili della società concessionaria non interrompevano immediatamente il collegamento degli apparecchi alla rete telematica per bloccarne il funzionamento, in quanto indotti

in errore dal versamento, per conto di questa s.r.l., di assegni bancari a garanzia del pagamento delle somme arretrate, assegni risultati successivamente privi di provvista.

Pertanto, il distacco dalla rete degli apparecchi in gestione al R. avveniva soltanto il 15 aprile 2010, giungendosi a cumulare il mancato versamento delle rilevanti somme indicate nel capo di imputazione.

La I. G. s.r.l. veniva successivamente dichiarata fallita, emergendo anche il suo coinvolgimento in altre irregolarità nello stesso settore della gestione di giochi; risultava, quindi, impossibile per la società concessionaria procedere al recupero delle somme dovute.

Gli accertamenti in fatto dimostravano che A.  R. era l’effettivo responsabile dell’attività della società e non, come prospettato dalla difesa, un mero prestanome di un ulteriore soggetto che compariva nelle trattative per la stipula del contratto di collaborazione, pur non avendo alcun incarico ufficiale nella I. G. s.r.l.

I giudici di merito avevano qualificato l’appropriazione del denaro indebitamente quale peculato di cui all’art. 314 cod. pen. nei seguenti termini: “(…)  Il Tribunale qualificava il legale rappresentante della I. G. s.r.l., nel suo ruolo di gestore per conto della società concessionaria, come incaricato di pubblico servizio per la sua attività di perseguimento dell’interesse pubblico, che riteneva esercizio di «attività amministrativa in senso oggettivo»: l’attività di raccolta degli incassi dei giochi, per la parte spettante all’Amministrazione, ovvero le quote destinate a PREU nonché al pagamento del canone di concessione alla AAMS, andava considerata quale attività di maneggio di denaro pubblico. (…)  La Corte di appello affrontava espressamente il tema poi riproposto con il ricorso, ovvero che era esclusivamente la concessionaria il soggetto obbligato al versamento del PREU nei confronti dell’amministrazione, versamento che comunque era stato effettuato regolarmente. Secondo la Corte, l’adempimento dell’obbligo nei confronti dell’Erario non poteva certo rendere irrilevante la condotta di appropriazione commessa dal R. nel dato ruolo. In termini più generali, poi, considerando che l’appropriazione non riguardava solo la quota degli incassi destinati al PREU, ma anche le parte residua che avrebbero dovuto ripartirsi il concessionario ed il gestore, osservava che non si trattava di denaro “privato”, bensì di denaro pubblico, giungendo alla conclusione che: «tutte le somme di danaro che entrano in circolo in questo sistema sono di proprietà dello Stato che riconosce un aggio che concessionari, gestori ed esercenti ripartiscono tra loro sulla base di accordi di diritto privato, ma che non può non avere natura pubblicistica»”.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Il difensore dell’imputato proponeva ricorso con il quale, con un unico motivo, deduceva la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all’art. 314 cod. pen..

A tal proposito veniva ricostruito il rapporto tra il gestore, il concessionario e l’Amministrazione finanziaria in termini tali da escludere che il soggetto nella posizione del ricorrente si trovasse ad avere il possesso di denaro altrui per cui «non commette il delitto di cui all’art. 314 cod. pen., ma eventualmente il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato».

Sostanzialmente, le argomentazioni addotte consistevano nella lunga trascrizione della motivazione della sentenza della Cassazione – Sez. 6, n. 21318 del 05/04/2018, – per condividerne le conclusioni nel senso che le somme provenienti dall’attività di gioco vengono incassate dal gestore e dal concessionario quale ricavo di una attività commerciale sul quale è parametrato l’obbligo di pagamento del PREU, di natura tributaria e, quindi, il soggetto, che incassa le giocate, non ha il possesso o la disponibilità di denaro “altrui“.

Sulla base di tale rinvio recettizio, la difesa affermava che «il soggetto terzo», qual è il ricorrente ,«che sottoscrive un contratto di natura civilistica con il concessionario non assume mai la qualifica di sostituto d’imposta, poiché lo stesso non è indicato direttamente dai Monopoli che invece nominano sostituto d’imposta il concessionario. Tant’è, che il Monopolio non può chiedere al gestore il PREU ma ai soli concessionari».

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Sesta Sezione penale della Cassazione, alla quale era stato assegnato il processo, aveva rilevato l’esistenza di un contrasto interno di giurisprudenza sul tema centrale posto dal ricorso, relativo alla natura del PREU ed alla proprietà degli incassi degli apparecchi da gioco e, in conseguenza, alla configurabilità del reato di peculato.

Quindi, con ordinanza, era stata disposta la rimessione alle Sezioni Unite della questione concernente la originaria riferibilità all’Amministrazione finanziaria delle somme riscosse nell’ambito della gestione telematica del gioco.

Nell’ordinanza di rimessione, in particolare, venivano ricostruite le difformi soluzioni giurisprudenziali emerse sul tema.

Innanzitutto, si indicava l’orientamento secondo il quale il gestore della raccolta delle giocate riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio ed il denaro percepito, quanto meno con riferimento alla quota costituente il PREU, ha immediata natura pubblica (Sez. 6, n. 49070 del 05/10/2017).

Secondo tale indirizzo, il soggetto gestore, che viene definito “subconcessionario“, deriva la sua qualifica pubblica dal ruolo di agente contabile rivestito dal concessionario essendo il denaro incassato sin da subito di spettanza della Pubblica Amministrazione e tale qualifica sussiste anche a fronte della natura privatistica del contratto che intercorre tra le parti.

Dunque, in caso di appropriazione del denaro incassato, la condotta del gestore integra il reato di peculato come del resto costantemente ritenuto con riferimento alla situazione simile del mancato versamento degli incassi da parte del soggetto addetto alla raccolta delle giocate del lotto per conto dell’amministrazione.

Tale impostazione, del resto, trovava una chiara conferma in pronunce rese dalle Sezioni Unite civili che avevano qualificato il gestore degli apparecchi da intrattenimento quale “agente contabile” seguendo l’orientamento espresso anche dalla Corte dei conti.

Tali pronunce escludevano, poi, che su tale ricostruzione del ruolo del concessionario incida la natura tributaria del PREU e la individuazione del medesimo concessionario quale soggetto passivo di imposta ex art. 1, comma 81, legge n. 296 del 2006.

Nell’ordinanza di rimessione si riferiva, poi, di un diverso orientamento (Sez. 6, n. 21318 del 05/04/2018, omissis, Rv.272951) che riconosce al PREU la natura di vero e proprio tributo con la conseguenza che il gestore degli apparecchi da intrattenimento è tenuto al mero adempimento dell’obbligazione tributaria, restando egli stesso proprietario delle somme incassate rilevandosi al contempo come tale lettura appariva essere confermata dalla disciplina dettata dal d.l. n.269 del 2003 che indica il concessionario quale soggetto passivo dell’imposta, prevedendo un’obbligazione solidale a carico del gestore (l’ordinanza precisa le peculiarità della vicenda oggetto della decisione, in cui il gestore aveva occultato la reale entità degli incassi, utilizzando un dispositivo elettronico inserito negli apparecchi da gioco per omettere la registrazione e comunicazione delle giocate alla rete di controllo dell’Amministrazione) tenuto altresì che, essendo previsto anche in questo caso il pagamento del PREU, la sentenza n. 21318/2018 aveva ritenuto significativa la sua natura di imposta, evidentemente computata su una base che costituisce ricavo di impresa.

Quindi, sulla scorta di tale natura tributaria e dell’essere il concessionario soggetto passivo d’imposta, cui si aggiunge la responsabilità solidale del soggetto incaricato della raccolta, alla luce di tale approdo ermeneutico, veniva escluso che gli incassi degli apparecchi da gioco fossero originariamente di spettanza della Pubblica Amministrazione ritenendosi a tal riguardo come tale conclusione non fosse contraddetta dalla normativa regolamentare che prevede la contabilizzazione delle giocate, poiché tale obbligo non è di per sé indicativo della proprietà pubblica degli incassi.

In conclusione, secondo questo indirizzo, la condotta di appropriazione del gestore non integra il peculato.

Ciò posto, l’ordinanza di rimessione segnalava un ulteriore profilo problematico, strettamente legato alla qualificazione soggettiva del gestore degli apparecchi, considerato che le Sezioni unite civili (sent. n. 14697 del 29/05/2019) sembravano escludere che l’esercizio del gioco d’azzardo da parte dello Stato sia un pubblico servizio e, pertanto, al di fuori della ipotesi della sussistenza del ruolo di agente contabile, potrebbe non ricorrere la qualifica di incaricato di pubblico servizio necessaria per configurare quale peculato l’appropriazione di cosa altrui.

Al riguardo, l’ordinanza rammentava come risulti necessario, nel caso di specie, considerare se si sia in presenza di un pubblico servizio caratterizzato dalle finalità pubbliche dell’attività e gestito in base ad una regolamentazione di natura pubblicistica che vincoli l’operatività e la discrezionalità del soggetto agente nell’ambito dei principi di legalità e sul punto si riteneva come andasse differenziata l’attività del concessionario che riguarda la gestione del gioco mediante gli apparecchi da intrattenimento da quella che riguarda l’incasso di somme che, se del caso, sono originariamente di pertinenza pubblica.

Le argomentazioni sostenute dalla parte civile

La parte civile presentava due memorie con cui veniva postulato che la tesi principale della società concessionaria è che quanto prelevato dagli apparecchi da gioco, corrispondente al PREU, costituisce denaro pubblico e, quindi, il suo maneggio da parte del gestore indica di per sé lo svolgimento di una pubblica funzione o di un pubblico servizio; la condotta di appropriazione del R., pertanto, integra certamente il delitto di peculato.

A sostegno di tale ricostruzione, si considerava che la concessione riguarda un’attività che è oggetto di un monopolio statale in quanto riguarda l’organizzazione e commercializzazione del gioco lecito e, in logica conseguenza, gli incassi sono originariamente dell’erario.

Il soggetto concessionario, rispetto al maneggio di tali somme, ha il ruolo di agente contabile mentre i soggetti gestori, il cui ruolo è previsto dalla convenzione di concessione, effettuano la manutenzione degli apparecchi e, soprattutto, la raccolta periodica delle somme presenti nei cassetti dei singoli apparecchi, somme che devono porre a disposizione del concessionario a scadenze concordate.

Il rapporto del gestore con il denaro, di conseguenza, per questa parte processuale, è semplicemente quello di detenzione nell’interesse del concessionario, concorrendo nella sua attività di agente contabile per conto dell’Amministrazione concedente fermo restando che tale ricostruzione non è condizionata dagli argomenti dell’ordinanza di remissione riferiti alla natura tributaria del PREU che non incidono sulla proprietà pubblica degli incassi delle giocate.

Oltre a ciò, veniva altresì fatto presente che, diversamente da quanto sostenuto nell’ordinanza, il PREU non è computato sul ricavo di impresa posto che la sua base imponibile è costituita dal totale della somma giocata dall’utente del servizio ed è, dunque, corretta la «qualificazione del concessionario come contribuente di diritto e non di fatto» dal momento che la qualificazione del concessionario quale soggetto passivo d’imposta è solo strumentale per consentire una puntuale riscossione dell’importo, mentre l’effettivo onere del prelievo grava sui giocatori.

La parte civile, inoltre, proponeva anche un’argomentazione subordinata rilevando che, pur qualificando il PREU quale mero tributo, questo, nella stessa prospettiva dell’ordinanza di rimessione, sarebbe riferito al ricavo di impresa del concessionario e non certo del gestore.

Inoltre, costei considerava come il gestore svolga comunque un’attività di rilevanza pubblicistica tale da qualificarlo incaricato di pubblico servizio ex art. 358 cod. pen. perché l’attività di organizzazione ed esercizio dei giochi è riservata allo Stato ex d.lgs. n. 496 del 1948.

Quindi, in virtù di tale ruolo pubblicistico, il gestore commette il reato di peculato qualora si appropri del denaro a lui affidato, prelevato (“scassettato” in gergo) dagli apparecchi da gioco poiché si tratta in ogni caso di denaro “altrui” essendo indifferente ai fini della qualificazione del fatto che la proprietà faccia capo al concessionario o alla amministrazione.

 

Ulteriori argomentazioni addotte dalla difesa

 

Il difensore dell’imputato, con memoria, ribadiva innanzitutto la indiscussa natura tributaria del PREU rispetto al quale il concessionario ha il ruolo di soggetto passivo diversamente dal concessionario del gioco del lotto che la legge definisce espressamente quale sostituto d’imposta.

Secondo la esplicita previsione di legge, pertanto, il mancato versamento del prelievo erariale comporta un accertamento di natura tributaria con le relative conseguenze come dimostra il fatto che, nel medesimo periodo cui è riferito il processo a carico dell’imputato, ad una analoga situazione di reiterato mancato versamento del PREU da parte di alcuni concessionari ha fatto seguito un accordo transattivo con la AAMS (oggi ADM).

In un tale contesto, per il ricorrente, il rapporto del gestore con il concessionario è strettamente di tipo civilistico e nessun ruolo gli viene riconosciuto dalla legge nel rapporto tributario, né l’accordo con il concessionario prevede alcuna implicazione del gestore nei profili di carattere tributario assegnandogli solo compiti riferibili ai rapporti commerciali.

Le argomentazioni addotte dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Il Procuratore generale presso la Cassazione concludeva chiedendo il rigetto del ricorso per avere la sentenza impugnata correttamente affermato il ruolo di incaricato di pubblico servizio del ricorrente e la appartenenza all’Erario dell’incasso delle giocate conseguendone la correttezza della contestazione di peculato.

Riteneva di conseguenza non condivisibile l’orientamento minoritario, in realtà limitato ad un’unica sentenza dissenziente, ribadendo sia il ruolo di incaricato di pubblico servizio del concessionario di rete, che la natura di denaro pubblico del PREU.

La qualifica ex art. 358 cod. pen. ricorre, poiché i soggetti privati agenti per l’Amministrazione sono chiamati a svolgere attività di maneggio di denaro pubblico e, quindi, a partecipare ad un servizio pubblico tenuto tra l’altro conto del fatto che le Sezioni Unite civili, del resto, avevano ritenuto estraneo al perimetro del pubblico servizio solo l’esercizio del gioco d’azzardo in sé e non la complessiva attività del concessionario di rete.

Quanto alla originaria proprietà pubblica del denaro incassato, per la Procura generale, ciò risultava innanzitutto proprio dalla pacifica circostanza che il PREU è un tributo che grava sul denaro immesso dal giocatore nelle macchine autorizzate nella rete.

Risultava, di conseguenza, di natura pubblica indipendentemente da chi effettui la raccolta e proceda al riversamento ed era, pertanto, erroneo confonderlo, per il Procuratore generale, con il ricavo di impresa, di natura privata, che è nozione riferibile al solo importo residuo ovvero a quella minima percentuale degli incassi lasciata quale corrispettivo della gestione.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “se l’omesso versamento del prelievo unico erariale (PREU), dovuto sull’importo delle giocate al netto delle vincite erogate, da parte del “gestore” degli apparecchi da gioco con vincita in denaro o del “concessionario” per l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito, costituisca il delitto di peculato”.

Premesso ciò, prima di affrontare il tema in oggetto, si riteneva utile, nei limiti di quanto di interesse ai fini della decisione, illustrare sinteticamente la disciplina della tipologia degli apparecchi da gioco lecito cui è applicato il PREU, un settore relativo all’ambito di esercizio del monopolio fiscale su giochi e scommesse, destinato a fornire risorse finanziarie allo Stato, in cui le finalità del controllo pubblico comprendono il contrasto alla ludopatia, la gestione dei flussi di denaro derivanti dal gioco, in maggiore parte destinati all’erario, i sistemi di controllo per evitare frodi ed evasione fiscale.

Nella vicenda sottesa alle condotte oggetto di giudizio, in particolare, veniva in rilievo l’utilizzazione di giochi tipo slot-machine ovvero quegli apparecchi “autosufficienti” che, con varie forme di automatismo, interagendo direttamente con il soggetto scommettitore, consentono la giocata previo inserimento di denaro, elaborano il meccanismo di vincita e, se del caso, consegnano immediatamente il premio al giocatore.

La legge 27 dicembre 2002, n. 289 ha modificato l’art. 110 R.D. 18 giugno 1931 n. 773, disciplinando la installazione di apparecchi automatici “leciti” nei seguenti termini: a) si è previsto che la installazione degli «apparecchi automatici di cui ai commi 6 e 7, lettera b), dell’articolo in esame è consentita negli esercizi assoggettati ad autorizzazione ai sensi degli articoli 86 o 88» (comma 3); b) sono state regolamentate le macchine “autosufficienti” che prevedono la scommessa in denaro ed il gioco gestito esclusivamente dalla macchina locale (comma 6); c) sono state previste altre tipologie di macchine che non offrono la vincita diretta in denaro, ma per le quali si introduce un controllo diretto (anche) alla verifica del pagamento delle imposte che gravano sulle stesse (comma 7).

Con riferimento alle macchine “autosufficienti” si notava che la norma prevede precise condizioni per l’esercizio del gioco (si fa riferimento alla previsione attuale, essendo intervenute varie modifiche delle percentuali di destinazione dell’incasso delle giocate): 1) gli apparecchi, di proprietà privata, sono leciti a condizione che siano «dotati di attestato di conformità alle disposizioni vigenti rilasciato dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato» e siano «obbligatoriamente collegati alla rete telematica di cui all’articolo 14-bis, comma 4, del DPR 26 ottobre 1972, n. 640»; 2) la giocata ammessa non può superare un euro e la durata della partita non deve essere inferiore a quattro secondi; 3)  la vincita non può essere superiore a E. 100 e deve essere pagata con denaro erogato direttamente dalla macchina; 4) su di un ciclo di 140.000 partite, ogni singola macchina deve restituire in premi il 75% delle somme inserite.

Il sistema essenziale di controllo sul regolare esercizio delle attività di gioco, compresa la gestione degli incassi, previsto da tale normativa, a sua volta, si incentra sulla creazione di una rete telematica per potere avere il controllo diretto ed in tempo reale dell’utilizzazione di ogni singolo apparecchio: a tale fine è stato modificato il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 640 (imposta sugli spettacoli) e si è previsto che l’AAMS individui con gare ad evidenza pubblica uno o più concessionari della «rete o delle reti per la gestione telematica degli apparecchi».

Il successivo d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, ha introdotto il sistema di raccolta della quota destinata all’Erario degli introiti degli apparecchi da gioco, lasciati in esercizio ai concessionari delle reti ed ai loro gestori ed esercenti.

Il citato decreto-legge, all’art. 39, comma 13, nel dettaglio, dispone che su tali apparecchi «si applica un Prelievo Erariale Unico fissato in misura del 13,5 per cento delle somme giocate, dovuto dal soggetto al quale l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato ha rilasciato il nulla osta di cui all’articolo 38, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni fermo restando che, a decorrere dal 26 luglio 2004, il soggetto passivo d’imposta è identificato nell’ambito dei concessionari individuati ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, e successive modificazioni, ove in possesso di tale nulla osta rilasciato dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (…).».

Il PREU è, quindi, configurato come imposta sul consumo e la sua natura tributaria è stata affermata dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 334 del 2006, che, in sede di conflitto di attribuzione tra la Regione Siciliana e lo Stato, ha risolto il dubbio su alcuni profili ambigui della disciplina, ritenendo il PREU una «entrata tributaria erariale» sostitutiva della precedente forma di imposta sugli intrattenimenti applicata agli apparecchi da gioco.

La natura di imposta di consumo, dunque, porta a ritenere, per il Supremo Consesso, che rispetto al PREU il giocatore è il contribuente di fatto mentre il concessionario è il contribuente di diritto atteso che l’imposta è computata sull’importo della giocata e non sul reddito di impresa del contribuente di diritto.

Le ulteriori norme introdotte con la legge finanziaria del 2006 hanno completato la specifica disciplina del PREU, per il quale è prevista la riscossione mediante ruolo.

Per completare la disciplina della destinazione degli introiti degli apparecchi di gioco lecito, oltre al PREU, determinato per legge, le convenzioni di concessione delle reti per la gestione telematica degli apparecchi, predisposte dall’AAMS in base al D.M. 12 marzo 2004 n. 86 del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Regolamento per la gestione telematica di tali apparecchi da divertimento e intrattenimento) dispongono l’ulteriore destinazione delle somme nette incassate dagli apparecchi da gioco: canone di concessione, destinato alla AAMS, aggio destinato al concessionario, quota residua che va divisa tra il concessionario ed il gestore (o esercente) degli apparecchi.

Le somme costituenti aggio e residuo andranno a formare il ricavo di impresa del concessionario.

Orbene, una volta terminato questo excursus normativo e fatto presente che il d.P.R. n. 640 del 1972 prevede che l’esercizio delle attività nel settore in questione sia affidata con concessione “traslativa“, avente ad oggetto la gestione della rete di controllo e l’esercizio dei singoli apparecchi che sono di proprietà privata, ma devono essere muniti dell’apposito nulla osta rilasciato dall’ente concedente (si tratta dell’attestato di conformità alle disposizioni vigenti, previsto dall’art. 110, comma 6, T.U.L.P.S.), a questo punto della disamina, si rendeva necessario chiarire i ruoli dei singoli soggetti che partecipano in vario modo all’esercizio di tale concessione e, in particolare, oltre al concessionario, rilevano le figure del “gestore” e dell’“esercente” i quali, pur svolgendo la propria attività nella gestione del gioco sulla base di un contratto di diritto privato con il concessionario, sono figure che ricevono una regolamentazione prevalentemente dalla convenzione di concessione.

Più nel particolare, il gestore è il soggetto che esercita un’attività organizzata diretta alla distribuzione, installazione e gestione economica degli apparecchi da intrattenimento provvedendo materialmente a prelevare i proventi, mediante l’operazione gergalmente denominata di “scassettamento” e quindi è il gestore che in prima battura ha la disponibilità materiale delle somme contenute nei singoli apparecchi, al netto delle vincite erogate mentre l’esercente è il titolare dell’esercizio ove sono installati gli apparecchi che svolge attività simili quando non vi sia un soggetto gestore.

A sua volta la convenzione di concessione con l’AAMS (oggi ADM) prevede che il concessionario di rete possa avvalersi nell’attività di gestione degli apparecchi di gioco dei citati ausiliari che devono essere in possesso delle prescritte autorizzazioni, devono essere iscritti nell’apposito elenco di cui all’art. 1, comma 533, della I. 23.12.2005, n. 266 e successive modifiche e sono legati al concessionario da appositi contratti di diritto privato il cui contenuto è predeterminato dall’atto di concessione e dall’AAMS (oggi ADM) e il gestore è tenuto a rispettare specifici obblighi nello svolgimento dell’attività di interesse dell’Amministrazione.

Premesso ciò, veniva evidenziato che – come sottolineato dall’ordinanza di rimessione – le decisioni, che avevano dato luogo al contrasto, riguardavano casi in cui il soggetto gestore che operava per conto del concessionario nell’effettivo esercizio degli apparecchi si era appropriato di tutte le somme materialmente raccolte nei dispositivi da gioco non riversandole al concessionario ossia il caso che ricorre anche nel presente processo in cui l’imputazione faceva riferimento, non solo all’appropriazione delle somme destinate al pagamento del PREU, ma anche di quelle destinate a canone di concessione e di quelle destinate al concessionario.

Orbene, un primo orientamento, in linea con una giurisprudenza incline a riconoscere la natura pubblica delle somme raccolte da privati abilitati allo svolgimento di svariate tipologie di giochi autorizzati, qualifica il concessionario della gestione della rete telematica come “agente contabile” «atteso che il denaro che riscuote è fin da subito di spettanza della P.A.» come risulta dal decreto 12 marzo 2004 del Ministero dell’Economia e delle Finanze che dispone che il concessionario «contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatagli, il prelievo erariale unico ed esegue il versamento del prelievo stesso, con modalità definite con decreto di AAMS».

In questo senso, Sez. 6, n.49070 del 05/10/2017, secondo la quale «riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il subconcessionario per la gestione dei giochi telematici, trattandosi di un soggetto che, in virtù di una facoltà riconosciuta al concessionario dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), è investito contrattualmente dell’esercizio dell’attività di agente contabile addetto alla riscossione ed al successivo versamento del prelievo erariale unico sulle giocate previsto dall’art. 2, lett. g), del d.m. 12 marzo 2004».

In relazione a tale orientamento interpretativo, la Corte argomentava che il concessionario, nel delegare le proprie attività al “subconcessionario“, ancorché utilizzi lo schema del contratto di diritto privato, comunque «demanda ad altro soggetto l’esercizio dell’attività di agente contabile».

Logico corollario di tale impostazione, per la Suprema Corte, è che la condotta del gestore che si impossessa degli incassi delle giocate, omettendo di versarli al concessionario, integra il peculato ex art. 314 cod. pen. evidenziandosi al contempo, da un lato, che tale decisione ritiene che ricorre sostanzialmente lo stesso schema del concessionario dell’attività di raccolta del gioco del lotto la cui condotta di appropriazione delle giocate è qualificata in giurisprudenza come peculato, dall’altro, che questa impostazione risulta condivisa anche da Sez. 6, n.15860 del 10/4/2018, che, affrontando la questione in sede cautelare, ha ritenuto corretta la contestazione di peculato a fronte della condotta appropriativa del PREU e del canone di concessione posta in essere dal gestore che non aveva versato la raccolta del gioco esercitato con apparecchi del tipo in questione tenuto altresì conto che questa decisione, per un verso, sottolineava, altresì, che la configurabilità del reato non è esclusa dall’eventuale esistenza di contestazioni tra il gestore ed il concessionario circa le somme da riversare all’Erario, per altro verso, precisava che la sussistenza del reato in capo al gestore non è neppure esclusa per effetto dell’adempimento dell’obbligo fiscale da parte del concessionario.

Sez. 6 n. 4937 del 30/04/2019, a sua volta, è sostanzialmente adesiva alle argomentazioni della sentenza n. 49070/2017 essendo ivi ribadito, con argomentazioni simili, che il denaro delle giocate è fin da subito di spettanza della P.A. («il denaro versato dai giocatori diviene ‘pecunia publica’ non appena entra in possesso del soggetto incaricato di raccogliere tale denaro») fermo restando che la natura privatistica del contratto con cui il concessionario “demanda” ad altro soggetto l’esercizio dell’attività di agente contabile non esclude la qualifica di incaricato di pubblico servizio del sub-concessionario/gestore atteso che il contratto regola comunque l’esercizio di servizi pubblici in quanto il gestore viene investito della partecipazione all’attività di agente contabile quale «addetto alla riscossione ed al successivo versamento del “prelievo erariale unico” sulle giocate, previsto dall’art. 2 lett. g) del D.M. 12 marzo 2004, poiché il servizio del gioco è riservato allo Stato».

In definitiva, ad avviso delle Sezioni Unite, anche tale sentenza esclude che l’attività del gestore possa ridursi alla semplice fornitura/assistenza delle macchine e che la sua attività di raccolta degli incassi delle giocate possa essere qualificata come semplice attività materiale.

Le sentenze Sez. 6, n. 35373 del 28/05/2008, e Sez. 2, n. 18909 del 10/04/2013, a loro volta, confermano la configurabilità del reato di peculato nei confronti del gestore che si appropria delle somme destinate a PREU ravvisando la originaria proprietà pubblica degli incassi.

Il diverso orientamento, invece, è rappresentato dalla sentenza Sez. 6, n. 21318 del 05/04/2018, che è intervenuta in un caso in cui il gestore degli apparecchi aveva utilizzato un espediente tecnico tale da impedire la comunicazione dei dati delle giocate all’Amministrazione ed in tal modo aveva nascosto l’incasso indebito delle somme non contabilizzate.

La sentenza appena menzionata, in particolare, una volta considerata la normativa positiva disciplinante il PREU quale debito tributario, aveva, quindi, affermato che le somme materialmente prelevate dagli apparecchi da gioco sono in possesso del gestore del gioco il quale è tenuto al pagamento del PREU quale soggetto passivo d’imposta sulla base di un’analitica valutazione di tutte le disposizioni rilevanti di tale normativa che consentono di qualificare il PREU quale imposta il denaro incassato all’atto della puntata, e a causa di questa, deve ritenersi non immediatamente di proprietà, pro quota, dell’erario (all’epoca dei fatti in misura pari al 12% degli introiti), bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all’importo da versare a titolo di prelievo unico erariale e questo perché la giocata genera un ricavo di impresa sul quale è calcolato l’importo che la società deve corrispondere a titolo di debito tributario; di conseguenza, l’impresa che gestisce il congegno da gioco non incassa neppure in parte denaro già in quel momento dell’erario e, di conseguenza, quando non corrisponde le somme dovute a titolo di prelievo erariale unico, non si appropria di una cosa altrui ma omette di versare denaro proprio all’Amministrazione finanziaria in adempimento di un’obbligazione tributaria.

La sentenza citata, inoltre, giungeva a tale conclusione sulla base dell’esegesi del d.l. 24 novembre 2003, n.326 da cui desumeva che: I) il soggetto passivo di imposta non è individuato nel giocatore ma nei concessionari della rete (art.39, commi 13 e 13-bis), con i quali i terzi incaricati della raccolta (i cd. gestori) sono solidamente responsabili (art.39-sexies); II) l’unità temporale di riferimento per il calcolo finale del PREU è riferita all’anno solare (art.39, comma 13-bis), mediante un versamento finale a saldo dei versamenti periodici; III) il PREU è dovuto su tutte le somme giocate tramite apparecchi e congegni che erogano vincite in denaro, anche se questi siano esercitati al di fuori di qualunque autorizzazione e non siano collegati alla rete telematica (art.39-quater).

Secondo la sentenza in esame, per giunta, la specifica disciplina, dettata per la categoria di apparecchi da gioco in esame, consentirebbe di affermare che il soggetto passivo dell’imposta non è il giocatore, bensì il concessionario ed il terzo incaricato della raccolta sicché, ove il denaro non venga riversato all’AAMS (oggi ADM), non si configurerebbe l’appropriazione di somme già appartenenti all’erario, bensì un tipico caso di omesso versamento di un tributo (nel caso di specie il PREU).

Corollario di tale affermazione è che il denaro, raccolto mediante le giocate, altro non è che il ricavo di un’attività commerciale che, a prescindere dal fatto che sia svolta in forma lecita o illecita, genera in ogni caso l’insorgere dell’obbligazione tributaria.

Nell’ordinanza di rimessione, oltre a considerare in modo dettagliato gli argomenti della sentenza n. 21318/2018, si osservava che, in tale prospettiva, «il soggetto che incassa le somme delle giocate non ha il possesso o la disponibilità di denaro altrui, ovviamente per la parte da versare all’Amministrazione finanziaria a titolo di prelievo erariale unico ma, diversamente, è debitore nei confronti di questa in relazione ad una obbligazione pecuniaria commisurata all’entità del denaro percepito».

In definitiva, secondo tale impostazione, il denaro incassato non è di proprietà pubblica bensì del concessionario della rete il quale, su tale incasso dei “propri” apparecchi di gioco, assume un’obbligazione tributaria e, per tale ragione, la condotta di appropriazione non integra il reato di peculato.

Ebbene, una volta terminato di illustrare questi orientamenti nomofilattici, gli Ermellini osservavano come tale contrato scaturisse da un’unica decisione rispetto ad un orientamento sostanzialmente stabile sottolineandosi che la differenza di ricostruzione, che porta alla alternativa qualificazione giuridica della condotta di indebito trattenimento degli incassi delle giocate, non verte sulla natura di obbligazione tributaria del versamento del PREU, bensì sulla proprietà del denaro versato dai giocatori negli apparecchi da gioco, al netto di quanto restituito direttamente in vincite.

Secondo il primo indirizzo, tale denaro è incassato a prescindere dalla proprietà dei dispositivi di gioco, nell’esercizio della concessione e per conto della concedente e, quindi, appartiene alla Amministrazione; la peculiare modalità di riversamento del denaro, con il meccanismo tributario per una gran parte (il PREU) e con il canone di concessione per altra, non incide sulla natura di denaro pubblico, dato rilevante ai fini che qui interessano.

L’altro indirizzo, invece, accentuando il profilo di natura tributaria e, qualificando il PREU come imposta sui redditi di impresa (come sembra affermare quando parametra l’imposta al «ricavo di impresa») anziché come imposta sui consumi, usa tale argomento per affermare che l’incasso delle somme residuate dalle giocate, detratte le vincite, rappresenta un “guadagno” privato sottoposto, appunto, ad imposta (PREU).

Ebbene, il Supremo Consesso riteneva di dovere condividere la conclusione cui giungeva il primo indirizzo per le seguenti ragioni.

Per la Corte, si dovevano, innanzitutto, tenere distinti due diversi profili ossia: quello riguardante la proprietà delle somme incassate dagli apparecchi da gioco, di cui (una gran) parte destinata al pagamento del PREU, e quello relativo all’obbligo di versamento del PREU quale tributo atteso che tale profilo appariva essere dirimente per rispondere al quesito posto dalla ordinanza di rimessione quanto alla qualità di incaricato di pubblico servizio del gestore.

Precisato ciò, si faceva presente come la soluzione prescelta poggiasse sulla considerazione che non è dubitabile che (tutti) i proventi del gioco presenti negli apparecchi, al netto del denaro restituito quale vincita agli scommettitori, appartengano all’Amministrazione.

La questione della proprietà degli incassi era già stata risolta dalle Sezioni Unite civili che, in più occasioni, avevano confermato la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti dei concessionari di rete, chiamati dal giudice contabile alla resa del conto giudiziale, ai sensi del R.D. 23 maggio 1924, n. 827, per la gestione degli incassi, in quanto originariamente appartenenti alla pubblica amministrazione concedente e gestiti dai soggetti concessionari nel ruolo di “agente contabile“.

In tali termini, si erano espresse in primo luogo Sez. U. civ. n. 13330 dell’01/06/2010, secondo cui «la società contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento; come tale essa riveste la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario».

Un’altra decisione aveva altresì precisato che la società concessionaria dell’Azienda Autonoma dei Monopoli dello Stato per la attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito assicura che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale, e, inoltre, provvede a contabilizzare, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico, seguendone il versamento (così, Sez. U civ., ord. n. 14891 del 21/06/2010).

Ebbene, secondo queste decisioni, la società concessionaria riveste la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario.

Negli stessi termini e con più ampio sviluppo, proprio degli aspetti rilevanti ai fini della odierna decisione, sono intervenute di recente Sez. U civ., n. 14697 del 29/05/2019, che avevano ritenuto espressamente la natura pubblica di tutti gli incassi degli apparecchi da gioco in questione proprio in considerazione della funzione del collegamento diretto del sistema centrale dell’Amministrazione rispetto ai singoli apparecchi da gioco e avevano affermato che questo «sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica».

Soprattutto, le Sezioni Unite civili risolvevano l’aspetto qui rilevante escludendo che vi possa essere contrasto tra l’essere il concessionario soggetto passivo d’imposta rispetto al PREU e l’essere gli incassi del gioco di proprietà pubblica: il regime fiscale previsto dal legislatore non incide sull’obbligo del concessionario di assicurare, mediante, la conduzione operativa della rete telematica, la contabilizzazione delle somme giocate, delle vincite e del P.R.E.U.

La natura tributaria dell’imposta (Corte cost. 334 del 2006) e la qualificazione del concessionario come soggetto passivo d’imposta (ex art. 1, comma 81 della legge n. 296 del 2006), a loro volta, operano limitatamente al rapporto di natura tributaria senza incidere sulla funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell’attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell’attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse (Sez. Un. civ. n. 14697 del 2019, cit.).

Per la Suprema Corte, la soluzione recepita dalle Sezioni unite civili era in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti competente ad esercitare il controllo sui concessionari in virtù della loro qualificazione quali “agenti contabili“.

Il problema sottoposto al Collegio, del resto, si era già ampiamente posto dinanzi al giudice contabile, sostanzialmente nei medesimi termini circa l’esatta qualificazione del PREU come un’entrata erariale qualificabile come tale ab origine, piuttosto che come un ordinario tributo rispetto al quale il concessionario non poteva assumere il ruolo di agente contabile, ma solo quello di soggetto passivo d’imposta.

Nella sentenza resa da Sez. I App., n. 1086 del 18.09. 2014, la Corte dei Conti aveva testualmente affermato quanto segue: «la società appellata è concessionaria dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli dello Stato per l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito. Essa assicura, perciò, che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale. La società – inoltre – contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento. Tanto precisato, essa riveste la qualifica di agente della riscossione (agente contabile), tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario».

La suddetta pronuncia, inoltre, si era espressamente confrontata anche con la presunta incompatibilità tra la qualifica di agente contabile derivante dalla riscossione di denaro pubblico rispetto alla disciplina tributaria del PREU laddove argomentava che «la sottoposizione del concessionario al prelievo erariale unico (PREU) non incide sulla sua natura di agente contabile, stante che tale prelievo è solo la modalità con cui l’Amministrazione ottiene il versamento da parte del concessionario di somme dovute da calcolarsi, però, su conti da rendersi da chi rivesta la qualifica di contabile, per avere maneggio delle somme di denaro su cui anche il PREU deve calcolarsi».

L’appartenenza del denaro oggetto di PREU all’erario, inoltre, era esplicitata in maniera ancor più netta da Corte Conti Lazio, sez. reg. giurisd., n. 2110 del 05/11/2010, secondo cui:  «è proprio la gestione in via esclusiva di un’attività propria del soggetto pubblico con attribuzione di poteri pubblici al concessionario ed imposizione di particolari obblighi a determinare la nascita di un soggetto che ha la disponibilità materiale di beni, materie e valori di pertinenza pubblica. Lo stesso denaro raccolto con l’utilizzo di apparecchiature collegate alla rete telematica della P.A. deve ritenersi, quindi, denaro pubblico e ciò, ovviamente, non tanto in ragione della sua provenienza, che è squisitamente privata, ma in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d’azzardo altrimenti vietato.  Ed allora, se il privato deve utilizzare l’apposito canale pubblico rappresentato dalle apparecchiature elettroniche collegate alla rete telematica della Pubblica Amministrazione per effettuare la sua giocata, ne consegue che il denaro impiegato diventa denaro pubblico, soggetto alle regole pubbliche di rendicontazione e il cui maneggio genera ex se l’imprescindibile obbligo dell’agente a rendere giudiziale ragione della gestione attraverso un documento contabile che dia contezza della stessa e delle sue risultanze».

Nell’ambito di tale sistema, pertanto, i concessionari gestiscono l’attività di gioco nell’ambito di un continuo controllo realizzato per il tramite del collegamento alla rete telematica dei singoli apparecchi e proprio tale «sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica».

La tesi secondo cui il denaro provento delle giocate è di immediata appartenenza pubblica, ad avviso della Suprema Corte, non è contraddetta neppure dal particolare regime fiscale adottato dal legislatore lì dove il PREU viene qualificato quale prelievo di natura tributaria (come riconosciuto anche da Corte cost., n.334 del 2006) ed il concessionario è indicato quale soggetto passivo di imposta.

Secondo le Sezioni unite civili, infatti, la natura tributaria del PREU non esclude la «funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell’attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell’attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse».

Sulla base di tali argomentazioni le Sezioni unite civili ritenevano come il denaro provento delle giocate, a prescindere dalla specifica destinazione pro quota dello stesso, sia di «diretta appartenenza pubblica».

Orbene, per le Sezioni Unite penali, l’interpretazione data dalle SS.UU. civili e dal giudice contabile è univoca e ne andavano condivisi gli argomenti.

Il privato concessionario gestisce in via esclusiva un’attività propria dell’Amministrazione, rientrante nell’ambito di un monopolio legale, esercitandone i medesimi poteri pubblici e, in un tale contesto, il concessionario procede alla raccolta di denaro, tramite gli apparecchi collegati alla rete telematica della Pubblica Amministrazione, attività che assume carattere pubblico in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d’azzardo che, altrimenti, integrerebbe un’attività assolutamente vietata dall’art. 110 T.U.L.P.S. e sanzionata.

Il soggetto al quale viene affidata dalla Pubblica Amministrazione la gestione della funzione pubblica del gioco lecito ed, in particolare, deputato istituzionalmente al maneggio di tale denaro pubblico, riveste obiettivamente il ruolo di agente contabile ex art. 178, R.D. 23 maggio 1924 n. 827 in virtù delle regole che gli conferiscono specifici compiti di raccolta, rendicontazione e riversamento della quota parte della giocata sotto forma di prelievo unico erariale secondo quanto previsto testualmente dalla convenzione di concessione in conformità alle inequivoche disposizioni del D. M. 12 marzo 2004, n. 86 (Regolamento concernente disposizioni per la gestione telematica degli apparecchi in questione).

Orbene, a questo punto della disamina, per la Suprema Corte, può offrirsi una prima risposta alla questione essenziale che ha dato luogo al contrasto in quanto non è in discussione se il PREU in sé sia un’imposta in quanto questa natura è pacifica proprio alla luce della normativa inequivoca che lo disciplina mentre invece è in questione la natura pubblica degli incassi del gioco realizzati utilizzando una certa tipologia di apparecchi.

A tal proposito si faceva presente che l’orientamento minoritario ritiene che gli incassi degli apparecchi rappresentino “ricavi” dell’attività imprenditoriale svolta dalla concessionaria non può essere condiviso per gli argomenti in precedenza illustrati che dimostrano che la proprietà degli incassi, proprio per l’attività dalla quale provengono, non può essere attribuita al privato.

Come sopra argomentato, è reputato corretto quanto affermato dal primo indirizzo che, del resto, non qualifica quale peculato il mancato pagamento del PREU quale imposta, bensì l’indebita appropriazione dell’intero incasso prelevato dagli apparecchi di cui una (maggior) parte, ma non il tutto, destinata al pagamento del PREU.

La condanna dell’imputato, difatti, è stata disposta espressamente per essersi appropriato anche della quota destinata, come aggio e come ricavo residuo, al concessionario, nonché delle somme destinate a canone di convenzione come ben chiarito nel prospetto fatto nel corpo della motivazione della sentenza di primo grado.

La risposta al quesito, per quanto riguarda il concessionario di rete, per le Sezioni Unite, è quindi nel senso che lo stesso è responsabile del reato di peculato lì dove si appropri degli incassi (anche) per la parte destinata a PREU, perché si tratta di “denaro pubblico“, che egli gestisce in veste formale di agente contabile indipendentemente dalla ulteriore considerazione se, nella gestione del gioco lecito, svolga un pubblico servizio.

Ulteriore problema, per la Suprema Corte, è quello di verificare se il concessionario vada qualificato quale incaricato di pubblico servizio per la complessiva attività svolta a prescindere dal ruolo di agente contabile trattandosi di un passaggio necessario per ritenere che tale qualificazione spetti anche al gestore il cui eventuale ruolo di incaricato di pubblico servizio è condizionato dall’esserlo il concessionario dal quale, in ipotesi, deriverebbe il conferimento dei compiti nella conduzione del servizio pubblico.

Il tema, inoltre, veniva esplicitamente affrontato anche perchè la questione del ruolo del concessionario, al di là dell’ambito del maneggio di denaro di proprietà pubblica, era stata posta in termini dubitativi dall’ordinanza di rimessione.

Ebbene, l’ordinanza, dopo avere richiamato i comuni principi secondo i quali il soggetto “incaricato di pubblico servizio” va individuato sotto il profilo funzionale della attività effettivamente svolta, riteneva che proprio le Sezioni Unite civili, in particolare con l’ordinanza n. 14697 del 2019, dubitassero che nella attività devoluta al concessionario di rete vi sia un contenuto di pubblico servizio.

Secondo la Sezione rimettente, invero, tale ordinanza espressamente afferma che la società ricorrente è concessionaria di un’attività che non ha né natura di servizio pubblico, né assolve una funzione neanche latu sensu pubblicistica” (p. 9), evidentemente riferendosi alla intrinseca estraneità dell’esercizio del gioco d’azzardo da parte dello Stato dal perimetro proprio ai pubblici servizi, ove si astragga dalle connesse entrate tributarle e dal vantaggio erariale che ad esse consegue.

Veniva invero chiarito come questo passaggio della decisione citata andasse collegato a quanto sostenuto nella ordinanza delle Sezioni Unite civili che, subito dopo avere escluso la funzione pubblicistica del gioco d’azzardo in sé, faceva riferimento al compito proprio del concessionario di esercizio della rete telematica deputata al controllo ed affermava che solo all’interno «di queste rigide maglie» il gioco può ritenersi lecito.

Il “pubblico servizio” è, quindi, rappresentato dal diretto e continuativo controllo di un’attività che, altrimenti, sarebbe illecita.

L’ambito del pubblico servizio attribuito al concessionario di rete è chiaramente individuato anche dalla recente giurisprudenza costituzionale dato che la sentenza costituzionale n. 56 del 2015, proprio con riferimento alla tipologia di concessioni riferite agli apparecchi da gioco di cui all’art. 110, comma 6, T.U.L.P.S., ne aveva rammentato la natura di “concessione traslativa” in quanto «la materia dei giochi pubblici è riservata al monopolio dello Stato, che ne può affidare a privati l’organizzazione e l’esercizio in regime di concessione di servizio, sulla base di una disciplina che trova origine negli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496 (Disciplina dell’attività di giuoco)».

In particolare, venivano ravvisati gli interessi pubblici tutelati dalla normativa che disciplina tali giochi nella «pubblica fede, l’ordine pubblico e la sicurezza, la salute dei giocatori, la protezione dei minori e delle fasce di giocatori adulti più deboli, la protezione degli interessi erariali relativamente ai proventi pubblici derivanti dalla raccolta del gioco».

Pertanto, l’attività di gestione della rete di controllo deve qualificarsi come pubblico servizio come del resto chiarisce il decreto ministeriale 12 marzo 2004, n. 86, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, contenente il Regolamento per la gestione telematica degli apparecchi da divertimento e intrattenimento in questione, secondo il quale la Amministrazione «affida in concessione l’attivazione e la gestione operativa delle reti telematiche» e non l’esercizio del gioco d’azzardo.

È inoltre un pubblico servizio l’esercizio del monopolio fiscale connesso ai giochi leciti.

Nel già citato d.l. n. 269 del 2003, n. 269, istitutivo del PREU, si fa difatti riferimento più volte a tale monopolio con riferimento alla gestione delle entrate fiscali (art. 39, comma 13-quinquies: «Al fine di evitare fenomeni di elusione del monopolio statale dei giuochi …», «attività di giuoco riservato allo Stato»).

In definitiva, per il Supremo Consesso, non può dubitarsi che il concessionario svolga in regime di concessione un pubblico servizio, riservato al monopolio statale, che consiste proprio nel controllo delle attività di gioco sia per il rispetto dei limiti entro quale può ritenersi lecito, svolgendo quella funzione pubblica, più volte dichiarata nella normativa, di contrasto alla diffusione della ludopatia e delle attività criminali nel dato settore, sia per la gestione degli incassi delle giocate, destinati all’Erario.

Per quanto invece riguarda il ruolo del gestore, quanto sinora esposto chiariva per la Corte che il denaro che le figure di supporto dell’attività del concessionario hanno in gestione non può mai definirsi a loro appartenente.

La stessa questione controversa, verteva sul profilo della spettanza degli incassi allo Stato, concedente dell’esercizio del gioco lecito, o al concessionario fermo restando che, in ogni caso, il gestore non assume mai il possesso autonomo del denaro, secondo gli schemi della convenzione di concessione che non consente di “cedere” la concessione, ma solo di avvalersi di soggetti addetti ai dati compiti, imponendo contenuti ai contratti di collaborazione per funzioni di garanzia del corretto esercizio dell’attività.

Quindi, per le Sezioni Unite, il rapporto del gestore con il denaro che raccoglie dagli apparecchi è di detenzione nomine alieno, che, ai fini dell’art. 314 cod. pen., integra la condizione di altruità della cosa.

Il gestore, comunque, sicuramente non riveste in proprio il ruolo di agente contabile dal momento che tale ruolo risulta già essereattribuito al concessionario, né la convenzione di concessione, che pure disciplina il rapporto dei gestori, assegna loro alcun ruolo autonomo nel “maneggio” degli incassi, quanto ad autonomia e responsabilità di gestione.

Del resto, un ruolo autonomo di agente contabile del gestore contrasterebbe con quello, avente lo stesso oggetto, del concessionario, e vi dovrebbe essere una autonoma relazione, quanto alla resa del conto ex R.D. 23 maggio 1924, n. 827, tra i “subconcessionari” ed il giudice contabile.

Dal punto di vista del Regolamento di contabilità, del resto, la posizione degli ausiliari rientra agevolmente nell’art. 188 del R.D. 23 maggio 1924 n. 827, che prevede la responsabilità dell’agente contabile nei confronti dell’Amministrazione anche per le attività dei propri ausiliari con funzione di cassieri etc. «anche se la loro assunzione sia stata approvata dalle autorità competenti».

Chiarito ciò, a questo punto della disamina, per la Cassazione si rendeva necessario verificare se il gestore (o l’esercente) svolga, su incarico del concessionario, solo attività comuni o anche compiti rientranti nel pubblico servizio quale sopra delineato, in modo da acquisire a sua volta la qualità pubblicistica in base al quale la sua condotta di appropriazione del denaro altrui integra il peculato: diversamente, ricorrerebbe l’appropriazione indebita o un diverso reato “comune“, come nel caso della sentenza n. 21318/2018 che, ricorrendo le ulteriori condizioni di occultamento fraudolento degli incassi, aveva qualificato la condotta quale truffa.

La questione si poneva infatti per la Corte poiché, non essendo neanche prevista la figura del gestore dal citato regolamento di cui al D.M. n. 86 del 2004, le attività previste dai contratti di collaborazione con il concessionario, quali la collocazione fisica degli apparecchi, la verifica del loro corretto funzionamento e la necessaria manutenzione, lo “scassettamento” del denaro e la sua movimentazione potrebbero valutarsi quali attività meramente materiali e non di partecipazione all’esercizio del servizio pubblico visto che il contenuto della convenzione di concessione dimostra che l’Amministrazione impone che i soggetti delegati all’esercizio dei dati compiti per conto del concessionario esercitino anche attività proprie del pubblico servizio.

In particolare, pur se non si prevede alcun rapporto diretto ed obbligo di rendiconto direttamente nei confronti dell’Amministrazione, il gestore (che può essere anche proprietario delle macchine o può operare con apparecchi altrui) svolge la sua attività in autonomia, senza il controllo diretto del concessionario, ed a lui è affidata, tra l’altro, la verifica della funzionalità della rete telematica con obblighi di segnalazione di anomalie, risultando già solo per questo avere un ruolo determinante nel profilo che qualifica l’attività data in concessione quale pubblico servizio.

Inoltre, tali soggetti, pur non essendo loro assegnato un ruolo diretto ed autonomo nella gestione del denaro per conto dell’ente pubblico proprietario, lì dove delegati anche alla gestione degli incassi, sono comunque destinatari, secondo la convenzione di concessione (artt. 6-bis, del contratto con il gestore, e 6, del contratto con l’esercente), di penetranti obblighi di controllo, offerta di garanzie, tracciabilità; tali obblighi sono evidentemente fondamentali per la verifica dei corretti flussi finanziari per la prevenzione dell’inserimento di fenomeni criminali, anche di riciclaggio, così realizzando altri interessi pubblici sottesi alla gestione monopolistica nei termini di cui si è già detto.

Si può, quindi, affermare per il Supremo Consesso che anche il gestore riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio quando, come nel caso di specie, abbia la gestione degli incassi trovandosi a detenere nomine alieno il denaro per ragione del suo servizio pubblico atteso che costui partecipa, per la parte delegatagli, all’esercizio delle attività in concessione e, in particolare, partecipa anche all’esercizio della stessa attività di agente contabile del concessionario svolgendo rispetto a questa, pur nell’ambito del rapporto di dipendenza considerato dal citato art. 188, R.D. 23 maggio 1924 n. 827, funzioni che non sono di mero concetto essendogli delegate parte delle necessarie attività di contabilizzazione e movimentazione che il gestore svolge in piena autonomia ed al di fuori del diretto controllo del suo committente, condizioni che, a ben vedere, hanno consentito proprio nella vicenda oggetto di questo processo la rilevante sottrazione di incassi per un ampio arco temporale.

In definitiva, per la Suprema Corte, la condotta del gestore (cui, si rammenta, va equiparato l’esercente) di appropriazione degli incassi degli apparecchi da gioco, in quanto denaro “altrui” del quale ha il possesso per ragione del suo ufficio di incaricato di pubblico servizio, è quindi correttamente qualificata come peculato.

In conclusione, in risposta al quesito proposto, le Sezioni Unite affermavano il seguente principio di diritto: “Integra il reato di peculato la condotta del gestore o dell’esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all’art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del PREU, non versandoli al concessionario competente“.

Conclusioni

La decisione in questione è assai interessante in quanto essa, componendo un contrasto giurisprudenziale, giunge ad affermare il principio di diritto secondo cui integra il reato di peculato la condotta del gestore o dell’esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all’art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del PREU, non versandoli al concessionario competente.

Tale pronuncia, di conseguenza, deve essere presa nella dovuta considerazione ove si verifichi una fattispecie di questo genere dovendo essa essere ricondotta nell’alveo della condotta delittuosa preveduta dall’art. 314 cod. pen..

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

 

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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