La Cassazione interviene in materia di incompetenza a trattare i reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace

Scarica PDF Stampa
Cassazione penale, Sez. Un., 27 settembre 2018 (ud. 27 settembre 2018, dep. 3 luglio 2019), n. 28908 (Presidente Carcano, Relatore Fidelbo)

Cassazione penale, Sez. Un., 27 settembre 2018 (ud. 27 settembre 2018, dep. 3 luglio 2019), n. 28909 (Presidente Carcano, Relatore Fidelbo)

 

(Riferimenti normativi: D.lgs., 28 agosto 2000, n. 274, art. 48; C.p.p., art. 23, c. 2)

Premessa

Le Sezioni Unite, nelle sentenze nn. 28908 e 28909 depositate  il 3 luglio del 2019, sono intervenute in materia di incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo.

In particolare, nella prima decisione, è stata affrontata la questione se, in caso di riqualificazione del fatto giudicato dal tribunale e ricondotto ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, debba essere dichiarata l’incompetenza ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48, disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero mentre, nella seconda, il contrasto giurisprudenziale dedotto dalla Sezione semplice rimettente riguardava se, in caso di assoluzione dal reato di competenza del tribunale che ha determinato la vis actractiva di una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, il giudice debba dichiarare l’incompetenza, ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48, e disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero.

Orbene, vediamo come le Sezioni Unite hanno deciso su tali questioni.

L’arresto giurisprudenziale operato nella sentenza n. 28908

Nella decisione n. 28908 emessa il 27 settembre del 2018 e depositata il 3 luglio del 2019, le Sezioni Unite rilevavano in via preliminare come il contrasto interpretativo denunciato si presentasse in termini piuttosto sbilanciati, nel senso che risulta fortemente maggioritario l’orientamento secondo cui il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 non deroga al regime generale previsto dal art. 21 c.p.p. e art. 23 c.p.p., comma 2, sulla non rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per materia per eccesso, in quanto si assume che tale disposizione ha solo la funzione di stabilire che l’incompetenza per materia in favore del giudice di pace deve essere dichiarata con sentenza, trasmettendo gli atti al pubblico ministero e non direttamente al giudice di pace (Sez. 5, n. 25499 del 27/03/2015; Sez. 5, n. 4673 del 25711/2016) essendo ivi oltre tutto sostenuto che, con espresso riferimento al tema relativo ai limiti di deducibilità dell’incompetenza per materia, l’incompetenza del tribunale a conoscere dei reati del giudice di pace, qualora non costituisca oggetto di eccezione di parte, tempestivamente proposta, nel termine di decadenza stabilito dall’art. 491 c.p.p., comma 1, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice di legittimità, non sussistendo alcuna nullità e stante la tassatività della previsione normativa in materia (Sez. 5, n. 15727 del 22/01/2014, omissis, Rv. 260560; Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008; nello stesso senso, sebbene in riferimento al giudice di appello e alla possibilità che possa decidere nel merito ai sensi dell’art. 24 c.p.p., comma 2, anche fuori dai casi previsti dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 6, cfr., Sez. 3, n. 21257 del 05/05/2014 e Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014).

Si faceva al contempo presente che allo stesso modo, nell’ipotesi in cui il tribunale riqualifichi il fatto in uno dei reati ricompresi nell’art. 4 D.Lgs. che individua la competenza del giudice di pace, la giurisprudenza, in larga maggioranza, tende ad escludere che il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 imponga al giudice “superiore” (tribunale ovvero corte d’appello) di dichiarare la propria incompetenza e di trasmettere gli atti al pubblico ministero perchè instauri il procedimento davanti al giudice di pace precisandosi al contempo che anche in questi casi l’orientamento prevalente dà rilevanza al regime della deducibilità dell’eccezione di incompetenza ai sensi dell’art. 23 c.p.p., comma 2 escludendo che l’art. 48 d.lgs. n. 274/2000 costituisca una deroga alla regola generale stabilita nel codice, quindi riaffermando l’esistenza del limite preclusivo del termine previsto dall’art. 491 c.p.p. (Sez. 5, n. 4673 del 25/11/2016; Sez. 5, n. 28651 del 02/05/2016; Sez. 5, n. 15157 del 12/04/2016; Sez. 5, n. 25763 del 13/03/2015; Sez. 5, n. 39943 del 24/10720118) e ad analoghe conclusioni si era pervenuti anche nei casi in cui la derubricazione sia ritenuta dal giudice di appello essendo stato postulato che se il secondo giudice, riqualificando un fatto giudicato dal tribunale, lo riconduca ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, può decidere nel merito della impugnazione senza dover dichiarare la competenza del giudice di pace e trasmettere gli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 48 cit. (Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014; Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014).

A fronte di ciò, si metteva in risalto il fatto che poche decisioni si erano contrapposte a siffatto orientamento prevalente quale, tra le capofila, Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010 che, nell’annullare senza rinvio la sentenza del tribunale che aveva condannato l’imputato per un reato di competenza del giudice di pace, aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 ravvisando la violazione della disciplina sulla competenza per materia del giudice di pace così come nello stesso senso si ponevano: Sez. 5, n. 43359 del 02/07/2013 che aderiva alla tesi della rilevabilità officiosa dell’incompetenza per eccesso; Sez. 5, n. 32995 del 17/04/2012 che aveva attribuito all’art. 48 cit. un ruolo di norma fondante un potere officioso del giudice, anche nel caso in cui l’imputato, formulata tempestiva eccezione, abbia successivamente richiesto il giudizio abbreviato; Sez. 5, n. 43486 del 07/04/2014 che aveva riconosciuto all’art. 48 la natura di norma speciale rispetto all’art. 23 c.p.p..

Ciò posto, gli ermellini sottolineavano come il primo profilo del contrasto si concentrasse sull’interpretazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 e sulla sua attitudine a derogare le regole codicistiche in tema di competenza per materia per eccesso.

Premesso questo, si osservava come l’art. 48 cit. sia rivolto al giudice “togato” al quale impone di dichiarare, in ogni stato e grado del processo, la propria incompetenza ove ritenga che il reato appartenga alla competenza del giudice di pace, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero trattandosi di una disciplina che si discosta dalle previsioni contenute nel codice di procedura secondo cui l’incompetenza del giudice superiore può essere rilevata soltanto entro termini stabiliti a pena di decadenza, altrimenti il giudice incompetente per eccesso trattiene il procedimento, decidendolo nel merito, visto che l’art. 23 c.p.p., comma 2, prescrive che se il reato appartiene alla cognizione di un giudice inferiore, l’incompetenza è rilevata o eccepita – a pena di decadenza – entro il termine stabilito dall’art. 491 c.p.p., comma 1, in questo modo derogando, a sua volta, alla regola generale sulla incompetenza per materia che, invece, prevede la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del processo e dunque, in conseguenza di ciò, il minor rigore nella disciplina codicistica dell’incompetenza c.d. per eccesso si giustifica ragionevolmente considerando che si tratta di una violazione delle norme meno grave rispetto alla incompetenza per difetto: di conseguenza, una volta superato il termine costituito dall’accertamento della costituzione delle parti, il reato appartenente alla cognizione del giudice inferiore resta “incardinato” presso il giudice superiore (incompetente), in base al principio della perpetuatio iurisdictionis.

I giudici di piazza Cavour evidenziavano altresì come la diversa disciplina introdotta dall’art. 48 d.lgs. n. 274/2000 trovi la sua ragione nella specificità della giurisdizione onoraria e nella peculiarità del procedimento davanti al giudice di pace nel senso che la stessa competenza per materia e il catalogo dei reati attribuiti a questo giudice delineano, più di ogni altro parametro, i caratteri della sua giurisdizione che conciliano il soddisfacimento delle esigenze deflattive con un nuovo modello di giurisdizione volto alla composizione del dissidio interindividuale consacrato in modo formale nel D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 2, comma 2 che funzionalizza il procedimento all’obiettivo della conciliazione tra le parti trattandosi di un tipo di giurisdizione onoraria concorrente e, al tempo stesso, alternativa a quella professionale, con caratteristiche di originalità e capace di offrire una differente risposta giudiziaria a reati “minori” fermo restando che – tenuto conto che la selezione delle fattispecie individua situazioni di micro-conflittualità tra privati, connotate da semplice accertamento e da interessi confliggenti interpersonali con un livello di gravità modesto, elementi che contribuiscono a delineare un giudice risolutore e mediatore di piccoli conflitti – nell’ambito di questa competenza si innesta un arsenale sanzionatorio anch’esso tipico e alternativo rispetto a quello utilizzato dal giudice professionale che si ascrive ad un “diritto penale mite“: sono previste solo pene pecuniarie mentre sono bandite pene di natura detentiva; solo nei casi di reiterazione di comportamenti caratterizzati da una certa gravità sono contemplate sanzioni dotate di maggiore afflittività, quali l’obbligo di permanenza in casa o il lavoro di pubblica utilità; gli istituti premiali previsti dal codice di procedura penale sono sostituiti da meccanismi di conciliazione del giudice in cui è previsto anche l’intervento dei centri di mediazione e, soprattutto, dagli istituti dell’improcedibilità per la particolare tenuità del fatto e delle condotte riparatorie che possono determinare l’estinzione del reato; l’intero processo è imbastito in funzione servente delle specificità della giurisdizione onoraria, diretta alla piena attuazione della mediazione del conflitto interindividuale.

Chiarito ciò, si rilevava inoltre come, per un verso, di tali caratteristiche avesse risentito anche la disciplina sulla competenza: il risultato è una competenza chiusa in cui sono ridotti al minimo i contatti con i “giudici diversi“, scelta che vuole preservare la specificità di questa giurisdizione, per altro verso, una conferma di questa tendenza all’autonomia rispetto alla giurisdizione professionale la si trovava nella Relazione allo schema di decreto legislativo deliberato dal Consiglio dei ministri del 23 giugno 2000 in cui, sebbene con riferimento alla materia della connessione, la volontà di tracciare “un solco tra le diverse forme di esercizio della giurisdizione penale” è espressa in modo netto, specificando che l’obiettivo è quello di riservare al giudice di pace “la cura di un “orto chiuso”, come già accade per il giudice minorile” pur facendosi presente che questa iniziale impostazione radicale fosse stata in parte superata, anche a seguito del parere della Commissione giustizia del Senato reso il 27 luglio 2000, essendosi evidenziati i possibili effetti negativi di una soluzione così massimalista che avrebbe avuto l’effetto di moltiplicare i giudizi aventi ad oggetto la medesima regiudicanda, con l’ulteriore rischio di giudicati contraddittori; tuttavia, risultava confermato il carattere autonomo e tendenzialmente separato di questa giurisdizione.

Del resto, ribadivano le Sezioni Unite in questa pronuncia, la peculiarità della giurisdizione di pace è stata valorizzata in diverse occasioni dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 298 del 2008; n. 426 del 2008; n. 47 del 2014) che, recentemente, ha rimarcato come il procedimento di pace presenti caratteri di assoluta specificità che lo rendono incompatibile con il procedimento davanti al tribunale con forme alternative di definizione le quali si innestano in un “procedimento connotato da una accentuata semplificazione e concernente reati di minore gravità, con un apparato sanzionatorio del tutto autonomo: procedimento nel quale il giudice deve inoltre favorire la conciliazione tra le parti e in cui la citazione a giudizio può avvenire anche su ricorso della persona offesa” (Corte Cost., n. 50 del 2016) così come anche le Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare la peculiarità del modello di giustizia onoraria sottolineando, da un lato, l’autonomia del sistema sanzionatorio, configurato “nel segno della complessiva mitigazione dell’afflittività”, dall’altro, la novità del “rito orientato, più che alla repressione del conflitto sotteso al singolo episodio criminoso, alla sua composizione” (Sez. U, n. 53683 del 28/11/2017).

A garantire lo spazio di autonomia di questa giurisdizione, ad avviso della Corte, è l’art. 48 del D.lgs., 28 agosto 2000, n. 274 – oltre alle regole sulla competenza, soprattutto per connessione – assicurando che il giudice superiore debba sempre riconoscere, in ogni stato e grado del processo, la propria incompetenza a favore del giudice di pace, così preservando non solo la tutela degli spazi operativi dell’organo giudicante, ma garantendo all’imputato di poter fruire di tutti gli istituti conciliativi e deflattivi previsti.

Dunque, una volta riconosciuto all’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 il ruolo di “custode della separatezza” della giurisdizione onoraria, ad avviso della Corte, appare difficile sostenere che non abbia la capacità di derogare alla disciplina codicistica di cui all’art. 23 c.p.p., comma 2, fermo restando come non potesse non darsi rilevanza ad alcune pronunce della Corte costituzionale che avevano già avuto modo di affermare, espressamente, la natura derogatoria dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 rispetto alla disciplina generale dell’incompetenza per materia atteso che In re distinte ordinanze la Corte costituzionale aveva dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni riguardanti disposizioni contenute nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 in materia di immigrazione rilevando la palese incompetenza per materia dei tribunali, che le avevano sollevate sull’erroneo presupposto di poter conoscere dei reati appartenenti alla competenza del giudice di pace, senza considerare l’operatività dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000, a cui il giudice delle leggi ha riconosciuto piena capacità di derogare alla disciplina generale relativa alla c.d. incompetenza per eccesso prevista dall’art. 23 c.p.p., comma 2 (ord. n. 252 del 2010; ord. n. 318 del 2010; ord. n. 144 del 2011).

Ebbene, dalle considerazioni sin qui esposte, il Supremo Consesso ne faceva discendere, con riferimento al primo punto della questione, come non potesse essere condivisa quella giurisprudenza che opera una dequotazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 negandogli la capacità di derogare alla disposizione generale contenuta nell’art. 23, comma 2, cod. proc. riconoscendogli solo la funzione di precisare che, in caso di dichiarazione di incompetenza a favore del giudice di pace, gli atti debbano essere trasmessi al pubblico ministero e non al giudice tenuto conto altresì del fatto che questa lettura minimalista era stata smentita anche dalla stessa relazione al D.Lgs. n. 274 del 2000 da cui risulta il rilievo del tutto secondario dato al tema della trasmissione degli atti essendo stato ritenuto che la soluzione consistente nell’imporre la trasmissione degli atti al giudice non assicurava un risparmio di tempo e di risorse sicchè si era preferito adeguarsi alla regola generale prevista dall’art. 23 c.p.p., come emendato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 76 del 1993, prevedendo che gli atti fossero trasmessi al pubblico ministero e di conseguenza tale scelta di uniformità alla regola codicistica era relativa alla sola fase di trasmissione degli atti, non certo alla disciplina della rilevabilità della incompetenza per eccesso prevista dall’art. 23 c.p.p., comma 2.

Oltre a ciò, si sottolineava come, anche in base ad una interpretazione meramente letterale, la differenza tra le due norme risulti essere evidente dal momento che il riferimento ad “ogni stato e grado del processo”, contenuto nell’art. 48 del dl.gs. n. 274/2000, segna la distanza rispetto alla regola posta dall’art. 23 c.p.p., comma 2, che prevede termini di decadenza entro cui eccepire l’incompetenza.

D’altra parte, veniva anche considerato il fatto che il modello di giurisdizione di pace si è innestato su un sistema processuale penale già esistente in cui operava una disciplina della competenza innovata dal D.Lgs. n. 274 del 2000, artt. 4-7, 47 e 48 che hanno, rispettivamente, previsto il catalogo dei reati attribuiti al nuovo giudice, inserito il riferimento al giudice di pace nell’art. 6 c.p.p. e disciplinato il rapporto di competenza con il giudice professionale.

Tal che se ne faceva conseguire che l’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 è norma che succede all’art. 23 c.p.p., comma 2, nei cui confronti si pone come deroga: lo stesso D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 2, comma 1, norma di chiusura del sistema, nel prevedere l’applicazione nel procedimento davanti al giudice di pace delle norme contenute nel codice di procedura penale, impone comunque di verificarne la compatibilità (“in quanto applicabili“), una compatibilità che deve essere esclusa per il citato art. 23, comma 2, proprio per la presenza dell’art. 48, che ha un contenuto alternativo.

Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla luce delle argomentazioni sin qui enunciate, giungeva  ad asserire che la disciplina prevista dall’art. 23 c.p.p., comma 2, è inapplicabile con riferimento al giudice di pace e conseguentemente che deve escludersi che l’incompetenza del tribunale a conoscere dei reati del giudice di pace debba essere eccepita entro il termine di decadenza stabilito dall’art. 491 c.p.p., comma 1, come richiamato dall’art. 23 c.p.p., comma 2, trovando applicazione la regola contenuta nel D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48, secondo cui la competenza del giudice di pace deve essere dichiarata in ogni stato e grado del processo così come, per le medesime ragioni, non si condivideva quell’orientamento che, nell’ambito dei rapporti tra giudice di pace e giudice ordinario, risolve sulla base dell’art. 24 c.p.p. i casi in cui la “derubricazione” sia ritenuta dal giudice di appello, ossia quell’indirizzo interpretativo secondo cui, se la corte di appello, riqualificando un fatto giudicato dal tribunale, lo riconduce ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, può decidere, anche fuori dai casi previsti dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 6, nel merito dell’impugnazione, senza dover trasmettere gli atti al pubblico ministero e dichiarare contestualmente la competenza del giudice di pace (Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014).

Difatti, si evidenziava a tal riguardo che l’art. 24 c.p.p., nel comma 2, assegna un regime omogeneo a tutti i casi in cui viene riconosciuta l’incompetenza per eccesso del primo giudice sancendone l’irrilevanza in grado di appello, regola questa che non trova spazio nei rapporti con la competenza del giudice di pace in cui va riconosciuta la prevalenza dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000, anche qualora sia il giudice di appello a operare la riqualificazione in favore della competenza del giudice onorario ovvero in quella sede venga meno il vincolo di connessione.

Ciò posto, passando ad esaminare il secondo aspetto della questione, le Sezioni Unite rilevavano prima di tutto come la regola appena enunciata, destinata ad assicurare un carattere tendenzialmente esclusivo alla giurisdizione di pace, non sia assoluta in quanto va messa in relazione ad alcune vicende che possono intervenire nel corso del processo.

In particolare, una volta preso atto che l’ordinanza di rimessione ha individuato alcuni casi problematici in cui il giudice “superiore” si trova a dover giudicare esclusivamente di un reato di competenza del giudice di pace, si evidenziava come la questione da trattare riguardava la verifica circa l’ambito applicativo dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 ovvero se il giudice “ordinario” debba sempre dichiarare la propria incompetenza a favore del giudice di pace oppure se vi siano casi in cui possa comunque giudicare del reato appartenente alla competenza del giudice di pace, in forza del principio della perpetuatio iurisdictionis.

Premesso ciò, gli ermellini rilevavano che, in mancanza di una disposizione come quella dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000, non vi è dubbio che il giudice ordinario conserverebbe sempre la sua competenza – salvo tempestiva eccezione – e la conserverebbe utilizzando il menzionato principio della perpetuatio iurisdictionis (rectius: competentiae) posto che si tratta di un principio che il codice di procedura penale non menziona affatto, ma che nel nostro ordinamento è espressamente considerato dall’art. 5 c.p.c., secondo cui “la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo”.

Orbene – dopo essersi fatto presente che tale principio è il frutto di una risalente esperienza giudiziaria penale, ribadita anche con l’avvento del processo del 1988, che lo pone, innanzitutto, in relazione all’esigenza di limitare l’applicazione delle nuove leggi ai processi pendenti e, inoltre, all’esigenza di fare in modo che il giudice procedente non sia privato della competenza per effetto di modifiche che investono il rapporto processuale ovvero di una diversa qualificazione giuridica del fatto essendo evidente come alla base vi siano esigenze di certezza dei rapporti e di economia processuale in quanto si vogliono ridurre i casi in cui il processo debba spostarsi tenuto altresì conto che il riconoscimento del principio della perpetuatio iurisdictionis può porsi in attrito con il principio costituzionale del giudice naturale di cui all’art. 25 Cost., comma 1, dal momento che l’applicazione rigorosa di quest’ultimo imporrebbe la traslatio iudicii al giudice competente ogni volta che venga meno il procedimento che aveva determinato la competenza per connessione – i giudici di piazza Cavour rilevavano che, con riferimento alla questione in esame, apparisse necessario individuare un punto di bilanciamento tra il rispetto del principio della garanzia del giudice naturale e quello della ragionevole durata del processo tenendo conto della regola posta dal D.Lgs. n. 274 del 2000, in una materia come quella della disciplina processuale del giudice di pace in cui ridottissima è l’area della connessione e in cui è presente una norma come quella dell’art. 48 del d.lgs. n. 274, e dunque sembrerebbe che, con il venir meno del vincolo connettivo ovvero in presenza di una derubricazione, si debba sempre ripristinare la competenza originaria.

Pur tuttavia, si denotava come questa regola conosca delle eccezioni visto che una disposizione come quella dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 non può ricevere un’applicazione rigida ed automatica, che cioè porti a prescindere del tutto dalle vicende e dalle modifiche che possono intervenire nel corso del processo, dal momento che la disciplina posta da tale articolo a tutela della specificità della giurisdizione di pace deve tenere conto sia di un principio di natura costituzionale come quello della ragionevole durata del processo, ma soprattutto non può derogare alle regole, anch’esse di rilievo costituzionale, sulla precostituzione del giudice.

In altri termini, ad avviso della Corte, se la competenza del giudice ordinario è stata individuata correttamente, nel rispetto delle disposizioni processuali, comprese quelle previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000, il fatto che venga meno il reato più grave, ad esempio per effetto di una assoluzione parziale che determini la scomparsa del vincolo di connessione ovvero, come nel caso in esame, a seguito di riqualificazione, non determina l’operatività dell’art. 48 del d.lgs. n. 274 posto che tale norma non opera in presenza di una individuazione corretta del giudice competente, nel rispetto delle regole sulla sua precostituzione, ma solo nel caso in cui la competenza al giudice diverso da quello di pace sia stata individuata erroneamente mentre attribuire un diverso e più generale ambito applicativo all’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 porterebbe ad una irragionevole disapplicazione delle regole sulla competenza.

Con una ricostruzione ermeneutica di tale genere, difatti, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, viene realizzato un bilanciamento degli interessi che devono essere presi in considerazione, in una materia dove il legislatore ha voluto garantire la specificità della giurisdizione di pace: la perpetuatio competentiae, che in questo caso è a garanzia del principio della ragionevole durata del processo, trova applicazione solo nel caso in cui tutte le regole sulla competenza siano state osservate, ciò anche a garanzia del principio del giudice naturale precostituito per legge; diversamente, troverà piena operatività l’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 in tutti quei casi dove l’errata applicazione delle regole sulla competenza (e sulla connessione) ha condotto all’individuazione di un giudice che non era competente a giudicare dei reati appartenenti alla giurisdizione di pace fermo restando che in questa seconda ipotesi la dichiarazione di incompetenza a favore del giudice di pace si giustifica anche perchè non risulta rispettata, sin dall’origine, l’individuazione del giudice naturale e precostituito per legge; in sostanza, nell’ipotesi di incompetenza per eccesso derivante da una riqualificazione (“derubricazione“) di uno o più reati attribuiti alla cognizione del giudice “ordinario” l’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 opera solo se la competenza del giudice ordinario sia stata, in origine, erroneamente individuata, sottraendo il reato alla cognizione del suo giudice naturale, cioè del giudice di pace; invece, qualora l’attribuzione della competenza al giudice ordinario sia stata, in origine, correttamente operata e la “derubricazione” sia un effetto determinatosi nel corso del processo a seguito di situazioni sopravvenute, dovute ad acquisizioni probatorie o a modificazioni del rapporto processuale ovvero a esiti parzialmente assolutori che hanno riguardato singoli reati, resta ferma la competenza del giudice ordinario in relazione al residuo reato del giudice di pace in attuazione del principio della perpetuatio competentiae che, in questo caso, garantisce lo stesso principio del giudice naturale precostituito per legge.

A sostegno di questa ricostruzione, la Suprema Corte, oltre ad individuare una serie di ipotesi in cui l’ambito applicativo dell’art. 48 del d.lgs. n. 274/2000 subisce delle limitazioni, richiamava anche il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 63, secondo cui, quando il giudice “ordinario” è competente a giudicare dei reati indicati dall’art. 4 D.Lgs. n. 274/2000, deve applicare le sanzioni del giudice di pace e, in particolare, l’intera disciplina prevista dal titolo II del D.Lgs. n. 274 del 2000, alcune disposizioni in materia esecutiva nonchè gli specifici istituti della particolare tenuità del fatto, delle condotte riparatorie e della sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare trattandosi di una disposizione volta ad assicurare che il sistema sanzionatorio del giudice di pace, assieme ad alcuni significativi istituti processuali e sostanziali, trovi applicazione anche nei procedimenti che si svolgono davanti a “giudici diversi” e tra questi casi, venivano annoverati anche quelli in cui i reati del giudice di pace vengono giudicati dal tribunale per i minorenni o quando il reato appartiene alla competenza di giudici speciali, ad esempio il tribunale dei ministri o il tribunale militare mentre non era ritenuto scontato che la disposizione trovi spazio nei casi di connessione eterogena derivante da concorso formale (D.Lgs. n. 274 del 2000, ex art. 6) in quanto in tali ipotesi il tribunale applicherà la sanzione prevista dal reato più grave, che solitamente non è quello di competenza del giudice di pace mentre, al contrario, l’art. 63 del d.lgs. n. 274/2000 è destinato a trovare sicura applicazione proprio nei casi sopra individuati in cui la competenza del giudice togato si radica per effetto del principio di perpetuatio iurisdictionis.

Le Sezioni Unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungevano a postulare il seguente principio di diritto: “L’incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo, ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48, disposizione che deroga al regime previsto dall’art. 23 c.p.p., comma 2, sulla rilevabilità dell’incompetenza per materia c.d. in eccesso entro precisi termini di decadenza; tuttavia nel caso in cui il giudice togato riqualifichi il fatto in un reato di competenza del giudice di pace, resta ferma la sua competenza per effetto del principio della perpetuatio iurisdictionis, purchè l’originario reato gli sia stato attribuito nel rispetto delle norme sulla competenza per materia e la riqualificazione sia un effetto determinato da acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo“.

L’arresto giurisprudenziale operato nella sentenza n. 28909

La sentenza n. 28909 emessa e depositata lo stesso giorno in cui la sentenza n. 28908 è stata rispettivamente emessa e depositata, è munita di una motivazione che ricalca quest’ultima decisione ma che differisce unicamente nella formulazione del principio di diritto ivi contenuto.

Difatti, la Corte di Cassazione, in questa decisione, alla luce delle considerazioni già illustrate in precedenza, aveva formulato il seguente principio di diritto: “L’incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo, ai sensi dell’art. 48 D.Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, disposizione che deroga al regime previsto dall’art. 23 c.p.p., comma 2, sulla rilevabilità dell’incompetenza per materia c.d. in eccesso entro precisi termini di decadenza; tuttavia nel caso in cui il giudice togato conosca del reato del giudice di pace per essere venuto meno il vincolo di connessione resta ferma, per effetto del principio della perpetuatio iurisdictionis, la sua competenza, purchè in origine correttamente individuata”.

Conclusioni

Le sentenze summenzionate sono di sicuro interesse in quanto, non solo chiariscono che l’incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo, ma individuano anche taluni casi in cui invece resta ferma la competenza del giudice togato.

In particolare, alla luce di questi arresti giurisprudenziali, la permanenza della competenza del giudice togato nel poter continuare a trattare  reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace ricorre: a) nel caso in cui il giudice togato riqualifichi il fatto in un reato di competenza del giudice di pace purchè l’originario reato gli sia stato attribuito nel rispetto delle norme sulla competenza per materia e la riqualificazione sia un effetto determinato da acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo; b) nel caso in cui il giudice togato conosca del reato del giudice di pace per essere venuto meno il vincolo di connessione purchè in origine sia sta correttamente individuata la sua competenza.

Le decisioni in commento, dunque, proprio perché spiegano quando il giudice togato non può conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace e quando invece si, devono essere prese nella dovuta considerazione ogni qualvolta si deve verificare se il giudice togato possa decidere o meno casi di questo tipo.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatte pronunce, proprio per questa loro funzione chiarificatoria, non può che essere positivo.

Volume consigliato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegato

71742-1.pdf 63kB

Sentenza collegata

71740-1.pdf 58kB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento