La codificazione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano

Sommario. 1. introduzione. 2. la convenzione di New York e la giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo. 3.Le norme introdotte nel codice penale e la struttura del reato. 4 art. 613 bis II comma, aggravante o reato autonomo? 5.L’ art. 613 ter c.p. Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura. 6. Un primo arresto fondamentale della giurisprudenza di legittimità. 7. Segue.. Sulla verificabilità del trauma e sulla minorata difesa della vittima. 8. Sulla verificabilità del trauma e sulla minorata difesa della vittima. 9.conclusioni.

 

Introduzione.

Negli ultimi tempi alcuni efferati fatti di cronaca, hanno destato alcuni spunti di riflessione alla luce del nuovo reato di tortura, così come formulato dal legislatore, in ordine alla sua concreta applicabilità.

Come noto con L. 110/2017, dopo un soffertissimo iter parlamentare, veniva introdotto nel nostro ordinamento il reato di tortura al fine di colmare un vulnus venutosi a creare dopo la convenzione di New York risalente addirittura all’anno 1984 e ratificata dall’Italia nel 1988 senza però prevedere il recepimento di tale fattispecie nell’ordinamento penale italiano. Dopo circa 29 anni e numerosi richiami della CEDU, il Legislatore si è deciso ad introdurre il reato con l’introduzione nel codice penale degli articoli 613 bis e 613 ter il cui testo finale ha attirato le critiche feroci di schieramenti contrapposti.

Fino all’entrata in vigore della Legge n.110/2017, infatti, la tortura era oggetto di repressione penale in quanto crimine di guerra (art. 185-bis del codice penale militare di guerra) ed entro i suoi limitati ambiti applicativi, con la conseguenza che, a seguito delle note vicende del G8 di Genova, lo Stato italiano era stato condannato numerose volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’inaccettabile lacuna normativa del nostro ordinamento.

Le durissime critiche nascono dal fatto che il testo, nato da un compromesso politico e dopo un iter durato tantissimo ha, come spesso succede, nella sua utopica propensione di contemperare interessi contrapposti, scontentato tutti. Pertanto il nuovo reato di tortura nasce sotto i peggiori auspici con un testo normativo   allargato ed estremamente contradditorio non solo di difficile interpretazione ma anche, come vedremo di seguito, di poco agevole  applicazione.

A distanza di 3 anni, un lasso di tempo minimo per consentire  alla giurisprudenza di merito e soprattutto a quella di legittimità di esprimersi interpretando le nuove disposizioni, è opportuno effettuare alcune riflessioni soprattutto per effettuare una verifica di come le norme hanno trovato attuazione nel nostro ordinamento.

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La convenzione di New York e la giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo

In realtà, secondo la definizione licenziata dalla Convenzione ONU del 10 dicembre 1984, per tortura  intendiamo qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti fisiche o mentali ai fini di ottenere informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o far pressioni su di lei o su una terza persona o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore e sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persone, che agisca o su sua indicazione o col suo consenso espresso o tacito.

Pertanto secondo questa definizione occorre partire da due presupposti fondamentali ovvero che il fatto venga commesso  da un appartenente alle Forze di Polizia al fine di estorcere informazioni oppure per punirla di comportamento o di una appartenenza a qualche fazione. Si tratterebbe pertanto di un reato proprio ma soprattutto a dolo specifico.

Il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante viene sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed è stato uno dei traguardi più importanti delle società moderne.  Infatti, in passato, la tortura era considerata la tecnica principale di ricerca della prova all’interno dei sistemi processuali di tipo inquisitorio; la giustificazione teorica dell’inflizione dei supplizi stava nella finalità repressiva dei delitti, infatti l’interesse pubblico alla punizione del colpevole era considerato prioritario rispetto all’ingiustizia e inumanità dello strumento utilizzato. Tuttavia accadeva sovente che le sofferenze impartite cagionassero il più delle volte una falsa testimonianza o una inveritiera confessione. Inoltre il prigioniero arrivava a confessare delitti non compiuti pur di porre fine ai supplizi, e d’altra parte, era altrettanto possibile che il colpevole venisse scagionato in virtù della propria capacità di resistere ai tormenti, dando così prova di (falsa) innocenza. In pratica le capacità di resistenza di un prigioniero erano in grado di indirizzare le attività di indagine in un modo anziché in un altro.

La convenzione europea per i diritti dell’uomo (C.E.D.U.)[1] firmata a Roma il 4 novembre 1950, e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848 al 2004 è stata ratificata da 47 paesi aderenti al Consiglio d’Europa, tra cui i quindici membri dell’Unione Europea. Secondo una parte della dottrina[2] e alcune pronunce del G.A[3]. di primo grado, con il trattato di Lisbona firmato  dai 27 stati membri il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009 sarebbe avvenuta la cosiddetta comunitarizzazione della Convenzione EDU entrando la stessa a tutti gli effetti a far parte del diritto comunitario. Questo comporterebbe che, in caso di norma interna contrastante con la Convenzione EDU, il giudice italiano la debba disapplicare direttamente applicando la norma europea senza alcun passaggio alla Corte Costituzionale Secondo altri, di contro, il trattato di Lisbona, di modifica del trattato sull’Unione europea, avrebbe soltanto comunitarizzato la carta di Nizza limitandosi a riconoscere per la Convenzione EDU la possibilità di una adesione dell’Unione con la conseguenza che non vi sarebbe una diretta applicabilità delle norme CEDU ma, al contrario, un eventuale giudizio di quest’ultima in sede di interpretazione conforme e di prevalenza sul diritto interno secondo quanto già riconosciuto da alcune pronunce della corte Costituzionale pertanto dette norme devono considerarsi quali fonti interposte.

Il testo della CEDU è stato più volte emendato negli anni e si compone attualmente di 59 articoli e diversi protocolli addizionali. A seguito di questa convenzione internazionale ogni Stato si è obbligato al rispetto dei diritti garantiti dalla stessa nell’ambito del proprio ordinamento giuridico nazionale ed a favore di qualunque persona, senza distinzioni di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Tra i più importanti divieti a carico degli Stati: la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, la schiavitù, la servitù e il lavoro forzato, nessuna pena senza legge, la retroattività delle leggi penali, le discriminazioni nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione, l’espulsione da parte di uno Stato dei propri cittadini, l’espulsione collettiva di stranieri, l’imprigionamento per debiti, l’abuso del diritto, la pena di morte. In pratica con questa convenzione è stato istituito una sorta di catalogo di quelle che sono le libertà e i diritti umani fondamentali.

Segnatamente il divieto di tortura è previsto dall’articolo 3  che ne prevede la proibizione unitamente al divieto di essere sottoposto a pene o trattamenti inumani o degradanti.

Numerosi sono stati gli interventi della CEDU in questa materia. La Corte di Strasburgo riconosce che il divieto di tortura consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche tale da non consentire eccezioni, né limitazioni, né bilanciamenti di alcun genere, né di ammettere in alcun modo alcuna possibilità di deroga. Per quanto riguarda l’Italia, da sempre paese poco avvezzo al rispetto delle prescrizioni della convenzione, si segnalano in particolare le condanne inerenti lo stato dei detenuti, le detenzioni abusive nei Centri di identificazione e espulsione (Cei) e le violenze di Genova durante il G8 del 2001. Vere e proprie sentenze spartiacque che hanno ancora di più determinato nell’opinione pubblica prima, e poi nel dibattito politico, l’esigenza di una introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento sono le sentenze relative alle violenze commesse dalle Forze di Polizia durante il G8 di Genova. Andando nello specifico due sono state le condanne inflitte allo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU. La prima condanna era già arrivata ben 5 anni fa ed era relativa ai fatti inerenti il blitz nella scuola Diaz del 21 luglio 2001. I giudici della Corte Europea infatti avevano indicato per la prima volta che ciò che avvenne la notte del 22 luglio 2001 dovesse senz’altro qualificarsi come tortura. Veniva infatti stabilito dai Giudici europei all’unanimità come fosse stato violato l’articolo 3 della Convenzione. Stessa musica e quasi speculare motivazione per l’altra condanna relativa al G8, di due anni più tardi, relativa alle violenze avvenute all’interno della caserma di Bolzaneto, sede del VI Reparto Mobile della Polizia di Stato, luogo deputato come centro raccolta e di identificazione dei fermati. Anche in quel caso, secondo la Corte, le forze dell’ordine avevano torturato coloro che erano stati fermati e portati nella caserma senza che lo Stato italiano gli avesse garantito  protezione e, successivamente, giustizia, soprattutto perché in Italia non esisteva una legge sul reato di tortura che sanzionasse con pene adeguate queste gravissime violazioni.

A fronte di queste, e altre prese di posizione, l’inerzia che per lungo tempo aveva caratterizzato il legislatore italiano nell’introdurre una apposita fattispecie di reato era  stato veramente fonte di critiche feroci.  Infatti anche a voler prescindere dall’art. 3 della convenzione alcuni avevano rappresentato che molte di quelle prescrizioni che avrebbero dovuto integrare una norma sulla tortura erano de relato ravvisabili in diverse norme Costituzionali e che, pertanto, non prevedere una norma specifica andava a violare alcuni principi della nostra carta fondamentale.

Infatti già l’articolo 13, co. 4, della Costituzione, afferma testualmente: “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà”.

Inoltre la violenza commessa su soggetti privati della libertà personale non soltanto lederebbe gravemente la dignità, l’integrità psico-fisica e la libertà morale della persona, ma andrebbe anche a violare la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27 comma 3 della carta.

Non sono mancati anche i diversi richiami di organizzazioni internazionali non governative e in particolare di Amnesty International la quale in un recente rapporto di qualche anno fa, prima dell’introduzione della norma,  annoverava l’Italia  tra i Paesi ove numerosi casi di tortura (e altri maltrattamenti) erano stati denunciati e accertati, peraltro oltre alle vicende legate al G8, non erano mancate  ulteriori  condanne a carico del nostro paese  da parte della Corte di Strasburgo per la violazione del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. In realtà le doglianze di Amnesty International continueranno anche dopo l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento.

In questo clima si innestò un aspro dibattito politico tra chi riteneva che il tenore della norma da introdurre dovesse principalmente essere volto a reprimere gli abusi delle Forze di Polizia continuando a considerare tale reato come “proprio” e chi invece si opponeva ad una formulazione del reato che potesse in qualche modo essere troppo penalizzante per le Forze dell’Ordine stesse e tale da menomarne grandemente lo spazio di intervento specie in situazioni contingenti di ordine pubblico ove non è possibile intervenire senza un uso minimo della forza. Insomma il confronto era tra chi riteneva la tortura un reato di Stato e chi invece si opponeva a tale definizione. Di fatto alcune formulazione emerse durante i lavori preparatori apparivano a molti come eccessivamente limitative dei poteri della polizia ed in alcuni casi  addirittura quasi punitive a prescindere. Peraltro il diritto penale già prevedeva diverse norme volte a punire gli abusi delle FFPP tra cui l’arresto illegale, l’indebita limitazione della libertà personale, l’abuso di autorità contro arrestati e detenuti, perquisizioni e ispezioni arbitrarie di cui agli artt. 606 e ss  c.p. e anche il reato di violenza sessuale con abuso di autorità di cui all’art. 609 bis prima parte c.p., e nell’ipotesi aggravata di cui al 609 ter  n.4 oltre a tutta una serie di aggravanti previste per altri reati commessi da pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio. Su pensi anche alla circostanza aggravante prevista dall’art. 61 n. 9 c.p.,

Le norme introdotte nel codice penale e la struttura del reato.

Se questo era il dibattito politico, ruvido e alimentato da continue tensioni, il richiamo delle Corti europee e delle Organizzazioni Internazionali non poteva essere lettera morta e lasciar scampo a dubbi di sorta: l’Italia doveva munirsi di un sistema normativo che reprimesse la tortura. Pertanto gioco forza tutta la discussione non era tanto inerente sulla necessità o meno dell’introduzione di tale reato, ormai scontata, quanto piuttosto concentrato sugli elementi definitori della tortura. Reato proprio, reato comune, reato unisussistente, reato configurabile solo nei confronti di chi si trovi in una particolare stato di soggezione nei confronti del presunto autore? Il dibattito restava aperto e feroce anche in considerazione del fatto che, come visto, l’articolo 3 della Convenzione EDU si era ben guardata dal definire la tortura limitandosi a prevederne il divieto. Quindi ci si chiedeva se ci si dovesse richiamare tout court alla convenzione di New York che prevedeva il reato come proprio oppure definire in altro modo il reato stesso.

Sulla base di queste premesse, come di solito avviene in questi casi, e come anche accennato nell’introduzione, è stata adottata una soluzione di compromesso che potesse contemperare le opposte esigenze ma che in realtà ha scontentato tutti ed in particolar modo coloro che vedevano questo reato esclusivamente riferibile agli abusi delle forze di polizia tanto da indurre il primo firmatario della legge On. Manconi a non votarla atteso che, secondo una interpretazione molto qualificata,[4] il reato, cosi come scritto, richiedendo una pluralità di condotte (fatto salvo un eventuale trattamento inumano che non richiede una pluralità di azioni/omissioni)  non avrebbe consentito di reprimere molti  degli abusi perpetrati duranti il G8. Secondo la parte politicamente contrapposta il nuovo reato di tortura presentava non poche criticità soprattutto dal punto di vista della tassatività.

Il legislatore ha infatti, come vedremo scelto una strada completamente diversa rispetto a quella che era la prima proposta del firmatario non facendone un reato un reato proprio del pubblico ufficiale, ma ritagliando lo spazio della punizione dei fatti di tortura all’interno di una norma che concerne una più ampia dimensione di tutela nei confronti di tutti i soggetti che si trovino affidati alla altrui “custodia, potestà,  vigilanza, controllo, cura o assistenza” o comunque in stato di “minorata difesa”, rispetto a chi si trovi a esercitare su di loro una qualche forma di potestà. Tuttavia se il concetto di reato proprio nell’ambito della tortura usciva dalla porta, nel successivo art. 613 ter vi rientrava dalla finestra atteso che in questo caso il reato doveva configurarsi come proprio.

Ebbene a questo punto è d’uopo entrare nel cuore del problema ed esaminare il testo definitivo così come introdotto nel codice penale che prevede due fattispecie.

Secondo il nuovo art. 613 bis  (tortura) “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. — Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. — Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. — Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. — Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. — Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo”

Nel successivo art. 613 ter c.p. r (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».

L’art. 2 della Legge ha modificato l’art. 191 c.p.p. (Prove illegittimamente acquisite) aggiungendovi il seguente comma 2-bis «Le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale».

Dal punto di vista strutturale siamo di fronte, nel caso di cui all’art. 613 bis c.p., ad un reato comune e quindi la norma colpisce anche la cosiddetta tortura tra privati ma la fattispecie è a condotta vincolata perché esige che siano inferte sofferenze fisiche e psichiche agendo con con violenza, minaccia o crudeltà. Ma al fine della punibilità ciò non è ancora sufficiente, occorrerà infatti che si agisca nei confronti di una persona che si trovi privata della libertà personale o sotto la custodia, vigilanza, potestà controllo cura o assistenza (o che si trovi in uno stato di minorata difesa). Poiché si tratta di un reato comune si potranno porre non poche problematiche nei rapporti con altri reati con le difficoltà applicative che ne derivano, basti solo pensare ad un possibile concorso, apparente o reale, di questa fattispecie rispetto ad altri delitti: maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., minacce persecutorie di cui all’art. 612-bis c.p., caporalato (art. 603-bis c.p.), abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.). Infatti è proprio una caratteristica della tortura che può dare sponda ad una accostamento di questo reato con quello di cui all’articolo 572 c.p. ovvero il possibile inquadramento in una categoria dogmatica di derivazione dottrinale quale risulta essere il reato abituale. Detta figura si ravvisa allorquando vi sia la reiterazione nel tempo da parte dello stesso soggetto agente di più condotte identiche od omogenee. Ergo il reato necessariamente deve consistere nella ripetizione di condotte che,  se considerate isolatamente, non costituirebbero reato (cd. reato abituale proprio), In realtà secondo la dottrina più accreditata conosce anche la figura del cosiddetto reato abituale improprio consistente nella ripetizione di condotte che già di per sé costituiscono reato. Accanto al reato abituale parte della dottrina prevede il reato eventualmente abituale in cui la reiterazione è solo una mera eventualità potendosi il reato manifestare anche con una sola condotta.

Ne consegue che la consumazione del reato abituale (almeno per quello necessariamente abituale) debba richiedere un numero minimo di fatti sufficienti a integrare quel sistema di comportamenti che caratterizzano tale reato e la cui valutazione è affidata alla discrezionalità del giudice.

Ebbene secondo la nostra opinione la tortura di cui all’art. 613 bis c.p. richiedendo una pluralità di atti nella loro declinazione di violenze gravi o minacce a ben ragione potrebbe essere inserito nella categoria dogmatica del reato abituale e, più nello specifico, nel reato abituale improprio atteso che le condotte necessarie costituiscono già di per sé reato. Diversamente la giurisprudenza di legittimità, come vedremo nel paragrafo seguente, qualifica il reato solo come eventualmente abituale.

Dal punto di vista soggettivo esce dalla norma il dolo specifico pertanto viene richiesto il comunissimo dolo generico. Il tentativo pare astrattamente configurabile in quanto trattasi di reato di comune  di danno e  a evento naturalistico. E’ infine previsto un caveat molto importante: il reato è escluso allorquando le sofferenze derivino unicamente dall’esecuzione di provvedimenti privativi o limitativi di diritti legittimi.

 

L’art. 613 bis II comma aggravante o reato autonomo?

Il secondo comma dell’art. 613-bis prevede una pena più grave (da cinque a dodici anni) «se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio». L’intenzione del legislatore sembrerebbe quella di far rientrare il reato in quello che era la prima intenzione dei firmatari della legge. Ovvero un mezzo di contrasto ai gravi abusi di Stato prevedendo perciò una circostanza aggravante del reato base. A leggere attentamente i lavori parlamentari dell’iter che ha portato all’approvazione della norma penale sulla  tortura sembrerebbe non esserci dubbi sul fatto che  il legislatore abbia voluto sottrarre questo comma all’effetto stigmatizzante dell’incriminazione “diretta” dell’appartenente alle forze di polizia e quindi prevedendo una mera aggravante. Secondo altri però la scrittura ambigua della norma potrebbe indurre a proporne la diversa lettura della norma in termini di  fattispecie autonoma di reato. Secondo questa impostazione se si considerasse il II comma del 613 bis cp. Una aggravante, le ulteriori aggravanti del IV e del V comma 613-bis, calcolati in misura percentuale sulle “pene di cui ai commi precedenti” diverrebbero, rispetto al secondo comma, sarebbero da considerare un aggravante dell’aggravante.  Ma vi è di più. Risulterebbe inapplicabile l’esimente di cui al III comma (sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti) se il secondo sia concepito come aggravante o, ancora, l’applicazione del criterio del “grado di lesività più intenso” del reato posto in essere dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, analogamente a quanto ricavabile dall’orientamento della Corte di Cassazione sull’autonomia del delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.) rispetto a quello di violenza sessuale (art. 609-bis).[5]

 

L’ art. 613 ter c.p. Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

Questo reato autonomo introdotto subito dopo la tortura torna ad essere ricompreso nello schema tipo della convenzione di new York in quanto viene configurato come reato proprio.  E quindi si pone in termini distonici con il delitto di tortura, quale reato non necessariamente di Stato. Norma criticatissima soprattutto da alcuni sindacati di polizia molto rappresentativi rappresenta un vero e proprio articolo di compromesso e quindi tecnicamente, come spesso succede, una norma fatta male. In primo luogo, la norma non contempla l’ipotesi che l’istigato sia un privato. In secondo luogo, si è eliminata la clausola di riserva, prevista nell’originario testo Camera, in favore dell’art.414 c.p., che a sua volta rimanda all’art.302 c.p. per le ipotesi di istigazione o apologia per delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità. Ancora, la disposizione costituisce l’ennesima eccezione al quasi reato di cui all’art.115 c.p., dando luogo ad una nuova incriminazione, in virtù del particolare disvalore della condotta e delle sue potenzialità lesive.

Ovviamente il tentativo non è consentito elevandosi la soglia di punibilità alla semplice istigazione.

Un primo arresto fondamentale della giurisprudenza di legittimità.

La Corte di Cassazione con la sentenza 8 luglio 2019 n. 47079 si pronuncia, per la prima volta, sul delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. adottando una interpretazione estensiva della fattispecie e intervenendo sugli aspetti più controversi e “oscuri” del dettato normativo, fornendo delle vere e proprie “linee guida”. Innanzitutto i giudici di piazza Cavour si sono dovuti interrogare sulla eventuale mancanza del requisito della abitualità della azione, allorquando eventuali condotte contestate fossero connotate da violenza grave ma dovessero altresì essere considerate singolarmente ed isolate l’una dall’altra.  Ebbene il giudice di legittimità ha ritenuto che la fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p. avesse natura di reato solo eventualmente abituale, in quanto la reiterazione nel tempo di violenze o minacce gravi non fosse richiesta ove l’agente abbia agito con crudeltà ovvero ove il fatto comportasse un “trattamento disumano e degradante per la dignità della persona”.

In un altro passaggio fondamentale i giudici di piazza Cavour si sono dedicati a verificare il requisito della gravità della condotta, anche in considerazione della poca chiarezza sul punto nei lavori preparatori della legge 110/2017, e in merito la Corte ha fornito una duplice chiave di lettura, sia sulla interpretazione dell’aggettivo “gravi” sia sul suo riferimento alle violenze o alle sole minacce. Secondo la Corte il termine “gravi” deve essere riferito a entrambe le ipotesi per due motivi:

1) da un lato sarebbe difficile, naturalisticamente, ricondurre le acute sofferenze e i verificabili traumi a violenze non connotate dal requisito della gravità;

2) dall’altro lato, il principio di proporzionalità impone una commisurazione tra l’entità della risposta sanzionatoria (nel caso di specie la reclusione da quattro a dieci anni) e la entità (rectius “gravità”) della condotta delittuosa.

Alla luce di quanto detto si è ritenuto sussistente il reato di tortura tutte le volte che vi sia una pluralità di condotte, ognuna di esse connotata da grave violenza, sia sulle cose che sulla persona, oltre che da crudeltà in considerazione delle sofferenze patite dalla vittima.

Molto interessanti gli spunti che la Corte offre in materia di “trattamento inumano e degradante” che secondo alcuni sussisterebbe solo in caso di sottoposizione della vittima a particolari trattamenti quali ad es. waterboarding, l’elettroshock, bruciature e simili, secondo altri anche la privazione del sonno rientrerebbe in questi canoni. In realtà però il reato di tortura come previsto dall’art. 613 bis c.p. abrebbe una portata applicativa di gran lunga più estesa rispetto alla formulazione dell’art. 3 CEDU che richiama per forza di cose la convenzione di New York.

Il legislatore del 2017, infatti, non ha recepito la distinzione sviluppatasi nella giurisprudenza della Corte EDU che, da sempre, ha escluso dal concetto di tortura in senso stretto quelle condotte che comportano per la vittima “soltanto” un trattamento degradante o disumano. Secondo la ricostruzione proposta dalla Corte di Strasburgo, la differenza risiede nella intensità e nella qualità della sofferenza inflitta: molto grave e crudele nella tortura, di particolare intensità nel trattamento inumano, atta a provocare umiliazione e sofferenza morale nel trattamento degradante.

La Corte di legittimità ha, piuttosto, valutato la peculiarità della nuova fattispecie incriminatrice alla luce dell’esperienza penale internazionale in cui si inserisce e da cui si ricava che la tortura – anche secondo l’interpretazione più evoluta della giurisprudenza convenzionale – deve essere intesa anche sotto il profilo psicologico, non potendosi escludere dalla sua definizione quelle ipotesi in cui la tortura non lasci tracce visibili sul corpo. Il problema sarà semmai quello di trovare un criterio o quanto meno delle linee guida per definire meglio quando ci si possa trovare di fronte ad una sofferenza psicologica grave e reiterata. E’ innegabile che tale criterio dovrà essere di volta in volta trovato dal giudice di merito secondo il criterio del fatto accertato “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Infatti è altresì innegabile come possano essere usate delle forme di tortura tramite l’uso di un sistema di tecniche particolarmente sofisticate volte ad infliggere del dolore senza lasciare segni fisici e, come tali, in contrasto con la tutela dell’inviolabilità della persona che l’art.613-bis c.p. intende accordare. La tecnica tortura bianca, che viene eseguita con strumenti ricercati che non lasciano traccia nel corpo, ma che sono comunque in grado di alterare la percezione del torturato fino a procurare stati psicotici oppure quella della privazione del sonno si pongono in letteratura come uno dei tanti metodi psicologici torturanti. Altri strumenti di tortura psicologici  molto in voga si sono rivelati la  deprivazione sensoriale, l’isolamento totale, il terrore psicologico, ottenuto ad es. mediante oggetti fobici quali ragni, insetti, ecc, l’umiliazione ed esposizione in condizioni di nudità. Pertanto la suprema Corte sottolinea  come il trattamento inumano e degradante possa essere integrato  anche in quelle ipotesi in cui si verifica una mortificazione o un annientamento di diritti fondamentali della persona che costituiscono il nucleo della sua dignità e non anche, necessariamente,  al comportamento dell’agente. Il disvalore della condotta, ossia la crudeltà e la gravità delle minacce e delle violenze perpetrate, tuttalpiù dovrà dedursi ogni volta dalle caratteristiche del caso di specie, facendo una valutazione alla stregua dello scopo dell’atto e delle sofferenze inflitte ed alle condizioni di vulnerabilità e minorata difesa della vittima.

 

Segue. Sulla verificabilità del trauma e sulla minorata difesa della vittima

Le condotte come sopra tipizzate devono essere dirette a cagionare “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico” ad un soggetto che si trova o in condizione di restrizione della libertà personale ovvero in condizione di minorata difesa.

Anche sotto questi due aspetti la sentenza in commento fornisce una interpretazione ampliativa della fattispecie. Infatti,  in relazione al concetto di minorata difesa l’art. 613-bis c.p. eleva detta condizione da circostanza aggravante comune (art. 61, n. 5 c.p.) ad elemento costitutivo del reato, che viene posto in chiusura di un elenco di situazioni che, al contrario, presuppongono l’esistenza di un rapporto qualificato tra il soggetto attivo ed il soggetto passivo e cioè a dire “una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. Pertanto i giudici di piazza Cavour, facendo leva su un’argomentazione di carattere letterale, hanno  riscontrato  come la struttura del dettato legislativo, includendo la minorata difesa tra le caratteristiche del soggetto passivo, voglia ricomprendere anche quelle ipotesi in cui, pur difettando tanto la preventiva privazione della libertà personale quanto il rapporto qualificato tra il soggetto agente e la vittima, quest’ultima si trovi in ogni caso in una situazione di particolare vulnerabilità. La valutazione di tale status, tuttavia, così come già evidenziato nelle decisioni dei giudici EDU, deve essere compiuta alla luce di una adeguata contestualizzazione del comportamento che tenga contro di tutte le circostanze e delle peculiarità proprie, tanto soggettive quanto oggettive, del caso concreto.

Il ragionamento della Cassazione è basato sui diversi arresti giurisprudenziali sviluppatasi intorno all’aggravante comune della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5 c.p. Facendo pertanto tesoro delle indicazioni provenienti dalla suddetta elaborazione giurisprudenziale, la Corte ha ritenuto che la minorata difesa ricorra quando la vittima non possa opporre resistenza, a fronte della condotta criminosa, a causa di particolari fattori ambientali, temporali o personali, non essendo tuttavia a tal fine necessario che la difesa si presenti impossibile.

La Cassazione pertanto suggerisce la necessità che la valutazione del comportamento debba necessariamente essere calata nel contesto circostante sì da tenere in debita considerazione tutte le circostanze del caso, tanto oggettive ( es.orario e luogo dell’azione) quanto soggettive (condizioni fisiche e psichiche, età, sesso, stato di salute della vittima). Ne deriva pertanto che  questa interpretazione andrà ad ampliare  o  a restringere la portata applicativa di tale reato  se legato ad una valutazione delle caratteristiche tanto oggettive quando soggettive (condizioni di vulnerabilità della vittima) del caso concreto.

Particolarmente d’interesse è il ragionamento che appare nella decisione relativamente all’elemento della verificabilità del trauma psichico, che tante polemiche aveva suscitato nel corso dell’iter parlamentare che ha condotto all’introduzione del reato nel nostro ordinamento. Tali perplessità erano state fortemente manifestate sia dalla Commissione Costituzionale che dal Commissario per i Diritti Umani e riguardavano la portata ed il significato del termine “verificabile” riferito al trauma psichico usato dal legislatore nella scrittura definitiva del 613 bis c.p.

Si rendeva necessario pertanto che venisse fornita una  giusta lettura a questo termine fornendo un’interpretazione adeguata.

Ebbene la Corte, in via preliminare, nell’interrogarsi sul significato da attribuire alla locuzione “trauma psichico” opta per una nozione di tipo tecnico-psicologico. In tale ottica, per i giudici di legittimità, “rientra nel concetto di trauma qualsiasi evento che, per le sue caratteristiche, risulta non integrabile nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentarne la coesione mentale. Di talché integra il trauma psichico un evento critico, sotto il profilo psicologico, che si presta ad una rapida soluzione senza che sia necessario che l’esperienza dolorosa si traduca in una sindrome di trauma psicologico strutturato necessariamente idoneo a determinare effetti duraturi”.

A questo punto i giudici della Corte vanno ad interrogarsi su quelle che sono le affinità tra il reato di tortura e quello di atti persecutori. Infatti, in entrambe le ipotesi, gli eventi (alternativi) previsti fanno riferimento ad un turbamento che si produce nella sfera psicologica del soggetto passivo: il verificabile trauma psichico da un lato ed il perdurante e grave stato d’ansia o di paura dell’altro.

A questo punto la Cassazione, mutuando la giurisprudenza formatasi intorno al reato di atti persecutori, ritenuto di dover meglio specificare la portata del requisito della verificabilità del trauma proprio afferma che, sotto un profilo prettamente probatorio, si è di fronte a un evento che attiene al “foro interno”, pertanto naturalisticamente insondabile. Pertanto l’accertamento della ricorrenza del “trauma psichico” non può e non  deve essere oggetto di riscontro nosografico o peritale, potendo dedursi da un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali; e ciò in considerazione del fatto che l’evento è integrato anche da un semplice trauma temporaneo, anche non inquadrabile in una categoria predefinita. Tutte le circostanze possono essere valutate comprese le dichiarazioni delle vittima pertanto deve essere esclusa la necessità di dovere ricorrere ad un giudizio medico per accertare la sussistenza del trauma psichico poiché una siffatta soluzione potrebbe portare ad inaccettabili conseguenze allorquando la vittima delle violenze o delle minacce nelle more delle indagini,  muoia magari proprio in conseguenza delle condotte lesive perpetrate nei suoi confronti.

Sul concorso di persone nel reato di tortura

Ulteriore ed ultimo passaggio di rilievo affrontato dalla sentenza in commento attiene alla valutazione del contributo concorsuale nella realizzazione della fattispecie criminosa.

Sul punto, la Corte non ha esitato ad aderire alla teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo del concorso di persone nel reato non restringendo l’ambito applicativo dell’art. 110 c.p. alle sole ipotesi in cui il contributo concorsuale si pone in diretto rapporto causale con la realizzazione del reato. Ormai, infatti, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la configurabilità della fattispecie del concorso di persone deve necessariamente estendersi anche a quelle ipotesi in cui la condotta partecipativa realizzi un apprezzabile contributo, sia che esso si esplichi tramite il rafforzamento dell’intento criminoso o tramite l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti.  I giudici infatti hanno voluto sottolineare in questo arresto  come in alcuni casi il partecipe aumenta comunque le possibilità di riuscita del reato, diminuendo il rischio di insuccesso. È sufficiente quindi che possa rinvenirsi una semplice agevolazione nella attuazione della condotta criminosa, non essendo necessario, affinché si configuri il concorso del partecipe, che il contributo concorsuale si ponga come condicio sine qua non del reato, richiedendosi solo una facilitazione della condotta delittuosa.

Considerazioni finali.

Come detto l’Italia si è vista quasi costretta dopo quasi trent’anni ad adottare una figura autonoma di tortura ma il risultato ottenuto con la formulazione della norma, figlia di deleterie contrapposizioni politiche tra il partito dell’antipolizia e l’altra parte politica contrapposta spalleggiata da una fazione ultra sindacalizzata di alcune amministrazioni delle FFOO[6] ad ordinamento civile, ha prodotto un risultato veramente scadente.

L’aver spogliato la tortura di quelle che erano le sue caratteristiche principali di lotta ad uno strumento aberrante usato principalmente per estorcere informazioni o più spesso confessioni o delazioni da parte di appartenenti a forze di polizia che sono proprie di regimi dittatoriali o comunque non connotati da principi democratici, ha creato un vero e proprio mostrum giuridico senza identità con serie problematiche di applicazione in concreto parzialmente mitigate dalla citata sentenza della Cassazione che ha connotato tale reato come delitto solo eventualmente abituale. Quello che infatti non convince è la declinazione di reato comune ma soprattutto l’aver previsto, dal punto di vista soggettivo, il dolo comune quasi a considerare la tortura un reato fine a se stesso e non invece un delitto aberrante finalizzato ad ottenere un risultato ben preciso e determinato.

Questa sua connotazione rende particolarmente difficile distinguerlo da altri reati soprattutto relativamente ai maltrattamenti e al caporalato. Mentre relativamente alle somiglianze con gli atti persecutori si è già riferito[7], in ordine al primo reato basti pensare a forme di maltrattamento gravi medianti la segregazione da parte del coniuge o del convivente torturante di una persona che possa essere stata oggetto nel tempo di una pluralità di condotte attuate con minacce o violenza che possano cagionare o acute sofferenze fisiche oppure, ed è più probabile naturalisticamente, un trauma psichico verificabile. Ma non solo, secondo le indicazioni della citata Cassazione basterebbe un solo atto se trattasi di per sé di trattamento inumano.

Anzi, seguendo le indicazioni della Corte, per il reato di tortura non sarebbe nemmeno richiesto necessariamente un rapporto qualificato tra l’autore e la vittima bastando che quest’ultima si trovi in una situazione di particolare vulnerabilità. Allora in questo come in altri casi, se il rapporto qualificato non è necessario, sarà veramente difficile distinguere i due reati diventando l’unico discrimen solo la privazione della libertà personale che sarebbe il quid pluris richiesto dall’art. 613 bis. Stesso discorso potrebbe essere fatto per il reato di caporalato di cui all’art. 603 bis. Infatti, spesso e volentieri, le condizioni di sfruttamento di cui al n. 1) di questo articolo consistono proprio in forme di assoggettamento che si sostanziano in privazioni della libertà personale e  in forme di violenza consistenti nell’obbligo di osservare turni di lavoro massacranti, forse che tale forma di sfruttamento non possa cagionare quella pluralità di condotte caratterizzate da minacce/ violenze gravi o trattamento crudele,  o, peggio ancora quella forma di trattamento inumano che cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche? In questi casi quale fattispecie criminosa dovrà applicarsi o meglio ancora vi sarà concorso apparente di norme o si applicheranno entrambe le fattispecie penali? Infatti il reato può essere compiuto non solo nei confronti di chi trova privato delle libertà personale ma anche nei confronti di chi è affidato alla custodia, vigilanza, controllo cura ed assistenza. Quest’ultimo richiamo delle norma ci fa pensare anche ai numerosi casi che si verificano all’interno di case di riposo o RSA dove i ricoverati spesso sono oggetto di azioni aberranti che ben possono richiamare la tortura anziché i maltrattamenti.

Il problema rimane aperto fino ad un prossimo arresto giurisprudenziale sull’argomento.

Sono tante le zone grigie che il 613 bis presenta e ci sentiamo in dovere di accodarci alle numerose critiche che sono state poste ma senza condividerne le motivazioni, ma non perché si tratti di una norma che non punisce adeguatamente la tortura e quindi sia elusiva delle convenzioni internazionali e nemmeno perché sia troppo penalizzante per le forze di polizia. In realtà la norma, cosi come scritta, crea troppe sovrapposizioni e spesso si rivela essere un inutile doppione di altre norma senza avere una sua propria specificità. Occorre pertanto restituire a tale reato dignità autonoma attraverso un’operazione che possa riconsegnare a questo reato antico come il mondo le sue caratteristiche speculari come delineate dalla Convenzione di New York. Il reato deve tornare ad essere “proprio” ovvero essere previsto solo a carico di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito, e quindi concepiamo un concetto molto allargato di FF.PP.o di FF.OO che dir si voglia[8]), e l’elemento soggettivo deve essere il dolo specifico ovvero essere indirizzato ad ottenere informazioni o confessioni ovvero essere messo in atto contro una persona per punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o di cui sospettata di aver commesso, per intimorirla o far pressioni su di lei o su una terza persona o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione. Solo una norma così ricostruita, peraltro, consentirebbe di spiegare le altre norme inserite dalla stessa legge che ha introdotto la tortura. Infatti nel successivo art. 613 ter (istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura) il reato torna ad essere proprio, inoltre nella nuova formulazione dell’art. 191 c.p.p. (Prove illegittimamente acquisite) il comma 2-bis prevede che le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non siano comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Infine diversamente opinando non si spiegherebbe nemmeno la clausola di esclusione della punibilità di cui al comma 3 del 613 bis che prevede la non applicabilità delle norma nel caso in cui le sofferenze siano conseguenti all’esecuzione di provvedimenti legittimi.

Tutte queste norme non sono altro che previsioni che sarebbe logico ritenere presupponessero un reato proprio ed invece in maniera incomprensibile fanno da corollario ad un reato comune.

Giova infine precisare a chiosa di questa riflessione e a sostegno di quanto detto che il reato di tortura attualmente viene utilizzato spesso in modo strumentale ai fini dell’ottenimento di benefici penitenziari in caso di sovraffollamento carcerario. Infatti il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) ha più volte richiamato l’Italia al rispetto dello spazio di 4 m quadri per ogni detenuto atteso che spazi minori andrebbero a essere considerati una forma di tortura anche se, a dire il vero, mancherebbe lo scopo dell’ottenimento di notizie o confessioni. Altro elemento che aggiungendosi agli altri rende assolutamente urgente un ripensamento della formulazione del delitto di tortura quale reato del codice penale.

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Note

[1] In realtà con tale acronimo si vuole indicare sia la convenzione stessa che la Corte Europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, regolata dagli art. 19 e ss che ha appunto lo scopo di verificare le violazioni alla convenzione medesima.

[2] Roberto GAROFOLI- Giulia FERRARI, manuale di diritto amministrativo VII edizione

[3] Tar Lazio, Roma sez. II bis. 18 maggio 2010, n. 11984.

[4] Il riferimento è al Procuratore Capo di Genova.

[5] IL REATO DI TORTURA (*) Un’ombra ben presto sarai: come il nuovo reato di tortura rischia il binario morto di Stefania Amato e Michele Passione, in “diritto penale contemporanea pag. 12 e ss in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/2614-amatopassione2019a.pdf

[6] In realtà il termine FF.OO (Forze dell’Ordine) viene usato a volte come sinonimo di Polizia di Stato e a volte come sinonimo di Forze di Polizia comprendendo anche la Polizia Municipale ed escludendo i Vigili del Fuoco. Cfr. G. CALESINI: leggi di Pubblica sicurezza e illeciti amministrativi, Ed. XXVII pag.  50 e ss.

[7] Si guardi in particolare all’interpretazione fornita dalla Cassazione e specificata nel paragrafo 7.

[8] In questo caso riteniamo di comprendere anche l’esercito quando impegnato in missioni internazionali all’estero oppure nell’ambito di specifiche attività in Italia di controllo del territorio dopo aver acquisito la qualifica di Agenti di P.S. con atto prefettizio.

Francesco Costantini

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