La domanda di risarcimento dei danni nei confronti dell’amministrazione è infatti regolata dal principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.,
secondo cui chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, per cui grava sul danneggiato l’onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e colpa); quindi il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, della sussistenza della colpa e del dolo dell’Amministrazione e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito.
Nella fattispecie la resistente anzitutto nega la sussistenza dell’elemento della colpa.
Il Collegio non condivide questo assunto.
Va premesso che nell’illecito dell’amministrazione la colpa non può essere ricostruita in termini psicologici; essa consiste nella “violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenze, omissioni o anche errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili; tra le negligenze inescusabili vanno annoverati comportamenti sciatti, superficiali, sbrigativi nel compiere operazioni valutative di agevole e semplice esecuzione, come la verifica dell’esistenza o meno di titoli facili da verificare e non comportanti sottili e complicate indagini.
Con riferimento alla colpa dell’apparato amministrativo in relazione all’interpretazione ed all’applicazione di norme giuridiche, ai fini della scusabilità o evitabilità dell’errore deve farsi riferimento “al giurista di medio livello che applica professionalmente norme amministrative”; sicché la mera possibilità, sempre presente, di un’erronea interpretazione normativa deve essere considerata incolpevole – in tal caso gravandosi definitivamente del danno verificatosi il terzo che lo ha incolpevolmente subito – solo nell’ipotesi in cui il testo normativo sia insuscettibile di ogni comprensibilità: se, cioè, nessun elemento consenta all’Amministrazione di sciogliere il dilemma esegetico in modo corretto, prima e senza l’intervento del giudice” (in questo senso T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 24 febbraio 2011, n. 1720).
Ciò premesso, dalla lettura della sentenza del Consiglio di Stato risulta che l’annullamento è stato pronunciato per l’omissione dell’avviso del procedimento e (della prova) di ogni altra garanzia partecipativa nei confronti della ricorrente. Si tratta all’evidenza di una violazione inescusabile della legge dato che la giurisprudenza da tempo era approdata all’affermazione del principio (oggi sancito positivamente e inequivocamente nel D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) secondo cui il destinatario di provvedimenti ablatori deve essere posto concretamente in grado di incidere sulle scelte dell’amministrazione cosicchè la pendenza del procedimento deve essere portata nella sua sfera di conoscibilità in un momento tale da rendere possibile una sua partecipazione effettiva (cioè potenzialmente idonea a influire sulle decisioni finali) al procedimento; nella fattispecie, come risulta dalla sentenza del Consiglio di Stato, ciò non è avvenuto.
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