La coltivazione della canapa per uso personale

Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso afferma che “il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”. Tuttavia, nel corso della Motivazione, con grande ardimento innovativo, Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso esclude dalla precettività dell’Art. 73 TU 309/90 l’”uso personale” della coltivazione; ovverosia “devono, però, ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale [ex Art. 73 TU 309/90], le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. La soluzione di Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso può essere senz’altro criticabile, ma essa, in ogni caso, costituisce una forma di risposta ad un quesito giurisprudenziale irrisolto dal 1975. Finalmente, nel bene o nel male, la problematica è stata affrontata dopo circa una cinquantina d’anni di lacune tanto legislative quanto giurisprudenziali.
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Indice

1. La situazione attuale


In ultima analisi, Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso ha accolto la tesi definitiva di Consulta 443/1994 e, viceversa, ha rigettato Consulta 360/1995. Infatti, Corte Costituzionale 443/1994, nell’ottica del comma 1 Art. 75 TU 309/90, proponeva “la equiparazione tra la coltivazione ad uso personale e la detenzione ad uso personale”; mentre Corte Costituzionale 360/1995, in maniera decisamente proibizionistica, decreta “l’affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione”. Quindi, Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso si schiera a favore delle correnti di pensiero non legaliste e non proibizioniste.
In buona sostanza, Sezioni Unite Caruso del 2019 distinguono tra la rilevanza penale della coltivazione “professionalmente organizzata” e la non precettività dell’Art. 73 TU 309/90 per la fattispecie della “coltivazione domestica”, reputata meno anti-sociale e munita di una pericolosità anti-giuridica meramente astratta. D’altra parte, a pg. 19 delle Motivazioni di Sezioni Unite Caruso del 2019, è evidente la ratio de-penalizzante di siffatto Precedente, in tanto in quanto si afferma che “l’irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve […] essere ancorata non alla sua assimilazione alla distinzione ed al regime giuridico di quest’ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un’interpretazione restrittiva della fattispecie penale [ex comma 1 Art. 73 TU 309/90]”.
Anzi, il Precedente di legittimità qui in parola contesta espressamente Consulta 360/1995, la quale ipostatizzava la disciplina penalistica, asserendo che “la coltivazione, a differenza della detenzione, è un’attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti”. Al contrario, Sezioni Unite Caruso del 2019 precisa che “[penalizzare sempre e comunque la coltivazione di uno stupefacente] non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti” (pg. 20, Motivazioni di Sezioni Unite Caruso del 2019). Come si può notare, la Suprema Corte torna ad analizzare la tematica centrale della pericolosità penalmente astratta e bagatellare di una coltivazione di stupefacenti ad uso meramente personale. Sezioni Unite Caruso del 2019 si affranca da un utilizzo oltranzista ed apodittico della normazione penalistica di cui all’Art. 73 TU 309/90. D’altronde, si comprende pure che una coltura domestica per uso individuale non reca alcuna offensione al bene della tutela della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. .
Di nuovo, pertanto, l’interprete si trova di fronte ad una fattispecie infrattiva priva di un pericolo concreto, dunque penalmente irrilevante ed avulsa dal contesto grave e concreto di cui al comma 1 Art. 73 TU 309/90. A pg. 22 delle proprie Motivazioni, Sezioni Unite Caruso del 2019 nota che “la coltivazione è penalmente irrilevante […] [nell’ottica del] paradigma dell’offensività in concreto”
Nelle proprie conclusioni, Sezioni Unite Caruso del 2019 non soltanto ribadiscono la non precettività dell’Art. 73 TU 309/90, ma anche escludono la pertinenza dell’Art. 75 TU 309/90 nel caso di coltivazione ad uso personale. Più nel dettaglio, il summenzionato Precedente precisa che “[la non perseguibilità penale delle colture di canapa ad uso privato] si basa, radicalmente, sull’affermazione della mancanza di tipicità della condotta di coltivazione domestica destinata all’auto-consumo. Se la prima conseguenza di questa radicalità è l’esclusione della rilevanza penale della condotta [ex Art. 73 TU 309/90], non meno importante è la seconda conseguenza, e cioè l’esclusione della rilevanza amministrativa ex Art. 75 TU 309/90, norma che non può trovare applicazione perché tale disposizione non si riferisce, in nessun caso, alla coltivazione”.
Per il vero, a parere di chi redige, le Motivazioni delle Sezioni Unite Caruso del 2019 si schierano troppo apertamente a favore di un lassista ed estremo antiproibizionismo, in tanto in quanto:
 
1.     l’auto-consumo domestico depenalizza la coltivazione “rudimentale” di canapa
2.     la detenzione di marjuana “domesticamente” coltivata integra gli estremi dell’illecito puramente amministrativo dai cui all’Art. 75 TU 309/90
3.     le conseguenze di una coltivazione professionale, dunque penalmente rilevante, possono essere, comunque, ridotte al minimo, per “particolare tenuità del fatto” (Art. 131 bis CP) o per la “lieve entità della condotta” (comma 5 Art. 73 TU 309/90).

Ora, secondo il sommesso parere di chi scrive, circondare, in tal modo, di attenuanti e scriminanti la fattispecie della coltivazione di cannabis reca, per il tramite di Sezioni Unite Caruso del 2019, ad un regime normativo radicalmente contrario alla ratio proibizionistica scelta dal Legislatore all’interno di tutto il TU 309/90 e ss.mm.ii. . Sezioni Unite Caruso del 2019, secondo chi commenta, ha tradito le restrizioni de jure condito in tema di coltivazione di stupefacenti e si è avvicinata eccessivamente al permissivismo radical chic degli Anni Duemila. Di nuovo, pertanto, la Giurisprudenza di legittimità si è sfacciatamente e spudoratamente sostituita al Legislatore. Quindi, è stato violato il monopolio della legislazione costituzionalmente riservato al Parlamento e non all’AG, giacché un conto è interpretare il de jure condito, un altro conto è stravolgere di dati normativi.
Le posizioni liberistiche di Sezioni Unite Caruso del 2019 sono state poi condivise pure da Cass., sez. pen. IV, 16 marzo 2022, n. 9715, ai sensi della quale “[il reato di coltivazione di stupefacenti ex Art. 73 TU 309/90] è configurabile […] per la coltivazione tecnico-agraria [e professionale, ndr], mentre rimangono al di fuori del paradigma normativo le coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l’intento di soddisfare esigenze di consumo esclusivamente personali, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti”. Ecco, di nuovo, in Cass., sez. pen. IV, 16 marzo 2022, n. 9715, la depenalizzazione della coltivazione “con mezzi rudimentali”, dunque astrattamente pericolosa nei confronti della ratio della tutela della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. .

2. Analisi dei lemmi “minime dimensioni svolte in forma domestica” in Sezioni Unite Caruso del 2019


In un passo decisivo delle Motivazioni, le Sezioni Unite Caruso del 2019 asseriscono che “[non sono punibili] le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate, in via esclusiva, all’uso personale del coltivatore”. Dunque, Sezioni Unite Caruso del 2019 si concentra su due elementi, ai fini della applicabilità/non applicabilità del comma 1 Art. 73 TU 309/90, ovverosia le caratteristiche (non) professionali della coltura e la teleologia (non) personale dell’utilizzo dello stupefacente ricavato.
Per quanto afferisce alla “minima forma domestica” della coltivazione, Sezioni Unite Caruso del 2019 afferma che è penalmente irrilevante “[solo] una coltivazione che è personale, svolta in luoghi nella disponibilità del coltivatore [e] di dimensioni minime”. Molti, in Dottrina, hanno tuttavia notato che la Sentenza qui in esame avrebbe dovuto specificare pure, per completezza, il numero di piante integrante gli estremi di siffatte “dimensioni minime”.
A loro volta, i lemmi “coltivazione domestica” sono diametralmente opposti a quelli di “coltivazione tecnico-agraria”. Tale è pure l’antitesi presente in Cass., sez. pen. IV, 16 marzo 2022, n. 9715. Più specificamente, Sezioni Unite Caruso del 2019 precisano, in sede motivativa, che “la coltivazione domestica è quella che è effettuata in via approssimativa e rudimentale e i cui frutti sono funzionali ad un utilizzo meramente personale, posta in essere, preferibilmente, in vaso, con semina e governo della coltivazione manuali, senza la disponibilità di attrezzi, strutture e sostanze da cui desumere un approccio tecnico-agrario, cioè imprenditoriale, alla coltivazione”.
Sintomatico della professionalità/non professionalità della coltura è pure il modo in cui è stata effettuata la semina. In Cass., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, si definisce “domestica” la sola coltivazione “in vaso”, poiché tale modalità di piantagione è un segnale che “la coltura è domestica [ed] effettuata in via approssimativa e rudimentale e i frutti sono [quindi] funzionali ad un utilizzo meramente personale [e] […] esso non assume [pertanto] rilievo penale”. Tuttavia, l’”invasamento” non costituisce l’unica forma “rudimentale”. Infatti, Cass., sez. pen. VI, 26 settembre 2016, n. 40030 evidenzia che “[di solito] la coltivazione domestica è quella in vaso […], ma non cambia la natura [rudimentale] della coltivazione se essa avviene su minime porzioni di terreno proprio (la classica pianta in giardino) o altrui, specie se terreno pubblico (ad esempio […] sugli argini dei canali). [All’opposto] la coltivazione non può essere considerata domestica se ha dimensioni notevoli, anche se è effettuata su un terreno per uso agricolo di cui si ha la disponibilità professionale”.
Ad ogni modo, le Sezioni Unite Caruso del 2019, provvidenzialmente, non tangono l’intatta rilevanza penale delle coltivazioni “riservate all’uso personale”, ma, tuttavia, “di dimensioni non minime”. D’altra parte, viceversa, l’”uso personale” rischierebbe di divenire un pretesto per nascondere potenziali attività di spaccio pp. e pp. ex Art. 73 TU 309/90.


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3. La nozione di “coltivazione ad uso personale”


Il problema della “coltivazione”, nel contesto criminologico italiano contemporaneo, attiene quasi esclusivamente alla cannabis indica o sativa. Meno diffuse, forse per ragioni climatiche, sono le colture di papavero da oppio, coca, funghi allucinogeni, ayahuasca e catha edulis; negli Anni Duemila, si segnalano, tuttavia, talune serre destinate allo psylocibe. V’è anche da rimarcare che la canapa ad uso tessile ed industriale viene legittimamente coltivata, purché essa contenga un valore infimo di THC. Per il vero, la cannabis appartiene ad una zona precettiva grigia ove è molto facile scadere nella produzione per usi tossicovoluttuari. Ciò è dimostrato pure dalla spinosa ed ambigua fattispecie della piantagione rudimentale di marjuana per finalità terapeutiche individuali. E’ possibile, dunque, affermare che il THC ed il CBD non brillano per trasparenza e, a parere di chi redige, bisogna placare gli entusiasmi degli antiproibizionisti, in tanto in quanto la legalizzazione della canapa psicotropa presenta più aspetti negativi che positivi. La marjuana e l’hascisc, anche se eventualmente liberalizzate, generano costantemente un perenne sottobosco criminale a metà strada tra la legalità e l’illegalità.
Sempre in tema di canapa, sin dalla normazione del 1975, il nodo esegetico cruciale è consistito nell’esatta qualificazione del lemma “coltivazione” e dell’espressione “uso personale”. D’altra parte, tali problemi ermeneutici non sono stati definitivamente risolti nemmeno da
 Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso, la quale ha riservato a queste questione ben quattordici pagine di Motivazione, senza però pervenire ad una soluzione autenticamente definitiva e stabile.
Nel panorama malavitoso italiano, la coltivazione di canapa ad uso stupefacente è iniziata negli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando la tossicodipendenza ha cominciato a trasformarsi in una vera e propria piaga sociale. Per conseguenza, la L. 685/1975, per la prima volta, ha dovuto giuridificare la coltivazione della marjuana, ma anche il regime penale, o meno, da applicare al caso meno grave della coltura “ad uso esclusivamente personale”. Più specificamente, l’Art. 80 L. 685/1975 criminalizzava lo spaccio, ma, nel contempo, disponeva che “non è punibile […] chi illecitamente acquista o comunque detiene modiche quantità delle sostanze innanzi indicate per farne uso personale non terapeutico, o chi abbia, a qualsiasi titolo, detenuto le sostanze medesime, di cui abbia fatto uso esclusivamente personale”, Purtroppo, tuttavia, la medesima L. 685/1975 nulla dispose per la “coltivazione ad uso esclusivamente personale”. Tant’è che Tribunale di Padova, Ordinanza 12/04/1983 rimise la problematica della “coltura” di sostanze psicotrope alla Corte Costituzionale, pur se tale lodevole tentativo chiarificatorio non sortì l’esito sperato.

4. Il parere della Consulta nell’Ordinanza n. 95/1981


De quo, Tribunale di Catania 03/12/1979, alla luce dell’Art. 3 Cost., notò l’illegittimità costituzionale della mancata distinzione tra chi coltiva “per fini di spaccio” e chi coltiva “per uso esclusivamente personale”. Nel dettaglio, Tribunale di Catania, 03/12/1979 adì la Consulta precisando che “sono costituzionalmente illegittime le norme che vietano [in ogni caso] la coltivazione di piante di canapa senza depenalizzare l’ipotesi della coltivazione di [solo] poche piante per suo personale”. Analogamente, Giudice Istruttore di Rovereto, 11/05/1981 reputò incostituzionale “l’equiparazione tra chi coltiva per cedere a terzi e chi coltiva [solo] per uso personale […]. [E’ incostituzionale prevedere] una medesima pena sia per chi coltiva sostanze stupefacenti per farne commercio, sia per chi coltiva per uso personale”.
Corte Costituzionale, Ordinanza 95/1981 rigettò entrambe le suddette doglianze de quo, “in quanto anche la coltivazione è un comportamento idoneo ad accrescere il quantitativo di stupefacenti presente sul territorio nazionale; e risulta, anzi, di maggiore pericolosità, non essendo valutabile a priori il quantitativo di droga potenzialmente ricavabile”. Come si nota, Consulta, Ordinanza 95/1981 si conforma ad un proibizionismo rigido, rigoroso, quasi estremista. Tuttavia, non mancarono le voci dissenzienti. P.e, nonostante il parere della Corte Costituzionale, Tribunale di Perugia, 18/02/1981 reputo “non penalmente rilevante” una “modica quantità” di stupefacente “coltivato per uso esclusivamente personale [e non in maniera professionale, ndr]”. All’opposto, nella Giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. pen. I, 2 marzo 1984 e Cass., sez. pen. VI, 26 marzo 1987 reputarono “pericolosa” per la salute pubblica anche la coltura di marjuana in forma domestica e non per finalità di spaccio. Dunque, la Suprema Corte si era adeguata a Consulta, Ordinanza 95/1981.
Similmente, la L. 162/1990, nonché il referendum del 1993, confermarono il ferreo proibizionismo scelto dalla Corte Costituzionale nel 1981. D’altra parte, come anzidetto, la coltivazione della cannabis non brilla mai in fatto di trasparenza e legalità. Un altro problema incerto afferiva al possesso dei semi per la piantagione. Formalmente, acquistare e detenere semi non era reato, nella L. 685/1975 e nella L. 162/1990. Pertanto, non era nitido e certo il limite della “potenziale pericolosità” anti-giuridica del THC e del CBD.

5. Le più recenti Sentenze della Consulta e della Cassazione in tema di coltivazione di canapa


La novella apportata dalla L. 46/2006 possedeva una ratio decisamente proibizionista, anche in tema di coltivazione di stupefacenti per uso personale. Tuttavia, molti Precedenti di legittimità ignorarono il rigore granitico della predetta normazione del 2006, sussumendo le colture domestiche di marjuana all’interno dell’apparato sanzionatorio amministrativo, dunque attenuato, ex Art. 75 TU 309/90. Analogo fu il parere di Consulta 32/2014, la quale, nelle Motivazioni, precisava che “è sanzionata penalmente la condotta di chi coltiva e di chi comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti che […] appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale; mentre è sanzionata in via amministrativa la condotta di chi comunque detiene sostanze stupefacenti che, secondo le circostanze dell’Art. 75 comma 1 bis TU 309/90, appaiono destinate ad un uso esclusivamente personale”. Tuttavia, in buona sostanza, secondo chi commenta, né la L. 46/2006 né Consulta 32/2014 avevano affrontato, in maniera esplicita e diretta, la tematica della coltivazione di canapa o di altri stupefacenti di origine vegetale. Del pari, nella Giurisprudenza di legittimità, Cass., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia non erano state in grado di risolvere, in maniera appropriata, il problema delle colture di cannabis.
Entro tale confuso panorama interpretativo, era prevedibile ed inevitabile un’ulteriore adizione della Consulta, la quale rispose attraverso Corte Costituzionale n. 109/2016. Siffatto Precedente del giudice delle leggi evidenziò che “la violazione dell’Art. 3 Cost. viene dedotta dal rimettente sotto un profilo particolare e specifico: quello dell’ingiustificata disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale una sostanza stupefacente [già] ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate – condotta inquadrabile nella formula comunque detiene, presente nella norma censurata, e dunque sanzionata (in assunto) solo in via amministrativa – e chi è invece sorpreso mentre ha ancora in corso l’attività di coltivazione, finalizzata sempre all’uso personale, trovandosi, con ciò, esposto – secondo il Diritto vivente – alle sanzioni penali previste dall’Art. 73 TU 309/90 […]. [Ma], in questa prospettiva, la disparità di trattamento denunciata non sussiste; il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente [già] raccolto ed il coltivatore in atto rispondono entrambi penalmente”. In effetti, a parere di chi redige, costituisce un bizantinismo inutile il pretendere di distinguere tra la pericolosità anti-giuridica concreta della marjuana raccolta e la speculare pericolosità anti-giuridica potenziale della marjuana non ancora raccolta.
Per uscire dal summenzionato circolo vizioso, al Corte di Cassazione iniziò a distinguere gli Artt. 73 e 75 TU 309/90 sulla base della maggiore o minore “quantità di principio attivo”.
Altre Sentenze di legittimità qualificarono come non penalmente rilevante un quantitativo di marjuana coltivata qualitativamente privo di tenore drogante, dunque privo di THC (si vedano, a tal proposito, Cass., sez. pen. IV, 27 ottobre 2015, n. 44136, Cass., sez. pen. IV, 20 settembre 2013, n. 43184 nonché Cass., sez. pen. III, 9 maggio 2013, n. 23082).
Altri ulteriori Precedenti affermavano che la rilevanza penale iniziava dalla coltivazione di non meno di 25 mg di THC, mentre, sotto tale quantità massima detenibile (QMD), la fattispecie aveva una mera rilevanza amministrativa, ex Art. 75 TU 309/90 (si vedano, a tal proposito, Cass., sez. pen. IV, 17 febbraio 2011, n. 25674 e Cass., sez. pen. VI, 10 novembre 2015, n. 5254).
Infine, prevalse Sezioni Unite Castignani del 2019, a norma della quale “ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità [qualitativa, ndr] della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante, inteso come capacità di modificare, in maniera non trascurabile, l’assetto neuropsichico dell’assuntore”. Come si può notare, in Sezioni Unite Castignani del 2019, la pericolosità socio-sanitaria della droga è valutata alla luce di una ratio eminentemente qualitativa, e non rozzamente e semplicisticamente quantitativo-ponderale. Il c.d. “effetto drogante” concreto prevale pure in Cass., sez. pen. III, 9 ottobre 2014, n. 47670 nonché in Cass., sez. pen. VI, 22 gennaio 2013, n. 8393. Infatti, la coltivazione di canapa è o, viceversa, non è penalmente rilevante a seconda della “lesività psicofisica” del THC estratto dopo la maturazione delle infiorescenze.

6. La coltivazione di canapa nella Giurisprudenza contemporanea


•       La coltivazione agro-industriale di canapa nella L. 242/2016.
Nel territorio italiano, sono legittimamente coltivabili soltanto le 62 varietà di cannabis sativa L autorizzate nel “Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole”
(Art. 1 comma 2 L. 242/2006: “la presente legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’Art. 17 della Direttiva 2002/53/CE del Consiglio [d’Europa] del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del TU 309/90”). Sotto il profilo pratico, la L. 242/2016 autorizza la coltivazione di canapa per uso tessile o agro-industriale, purché la pianta produca infiorescenze prive o quasi prive di principi attivi psicotropi. Inoltre se, per ragioni botaniche non prevedibili, l’infiorescenza avesse sviluppato effetto stupefacente, la piante dev’essere distrutta, senza, però, alcuna conseguenza penale per il coltivatore, sempre che questi sia stato in buona fede al momento della semina
 
•       La coltivazione della “cannabis light”
Dal punto di vista botanico, alcune delle 62 varietà di canapa autorizzate dal Catalogo europeo (recepito in Italia dalla L. 242/2016) contengono molto CBD, ancorché un tenore di THC legalmente inferiore allo 0,2 %. Ora, il CBD non è qualificato dal TU 309/90 alla stregua di una sostanza stupefacente proibita, bensì come un principio attivo terapeutico lecito. D’altra parte, a livello globale, pare che il CBD sortisca effetti analgesici e tranquillanti, ideali per lenire il dolore in caso di tumori, SLA e spasmi muscolari. Ciò premesso,de jure condito, né la L: 242/2016 né le tabelle allegate al TU 309/90 proibiscono espressamente la coltura della cannabis “light”, ovvero contenente molto CBD e poco THC. Tuttavia, basterebbe un intervento legislativo o giurisprudenziale per sancire l’illegalità del CBD. D’altronde, chi scrive ribadisce che anche la canapa leggera oscilla pur sempre tra contesti criminologici legali ed opposti impieghi illeciti o, perlomeno, anche illeciti. Inoltre, al tossicologia forense, in maniera assai cauta, attende un monitoraggio di lungo periodo prima di asserire con totale certezza la bontà terapeutica del CBD.
 
•       La coltivazione di cannabis “per uso personale”.
Le Sezioni Unite Caruso del 2019 hanno interpretato come “non riconducibili all’mabito di applicazione della norma penale [ex comma 1 Art. 73 TU 309/90] le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica [e] destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”
 
•       La coltivazione di cannabis “per uso ornamentale”.
La L. 242/2016 consente la coltivazione della cannabis “per uso ornamentale e florovivaistico”, purché la pianta sia coltivata in una casa e, soprattutto, contenga un tenore di THC inferiore allo 0,2 %. E’ indifferente la presenza  di CBD e la semente deve appartenere ad una delle 62 varianti del Catalogo europeo. Vanno conservati cartellino del seme e scontrino. Infine, l’uso ornamentale esclude qualunque forma di commercio
 
•       La coltivazione di cannabis “per uso (auto)terapeutico”.
L’automedicazione a base di canapa è oggetto di una Giurisprudenza assai contraddittoria ed altalenante. Un primo filone interpretativo reputa penalmente rilevante la coltivazione terapeutica dalla quale deriva una quantità di principio attivo manifestamente superiore allo stretto fabbisogno individuale del malato. Un secondo orientamento giurisprudenziale, invece, è libertario ed ammette le colture per “automedicazione”, in tanto in quanto non lesive della ratio della tutela della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. . Anche in tal caso, come si nota, torna quella zona grigia di semi-legalità fisiologicamente e perennemente connessa al mondo della coltivazione e dell’utilizzo del THC e del CBD

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Dott. Andrea Baiguera Altieri

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