1. Inquadramento giuridico della fattispecie
La disciplina penale degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope è uno dei punti maggiormente dibattuti all’interno del nostro ordinamento. Come è noto, in ossequio agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in tema di stupefacenti, l’ordinamento penale italiano, attraverso il D.P.R. del 09 ottobre 1990 n° 309[1], ha predisposto un ampio catalogo di disposizioni incriminatrici volte proprio a reprimere non solo il dilagante fenomeno della diffusione del consumo di droghe ma anche quello dell’incremento della produzione e del traffico illecito che rappresentano una pesante minaccia per la salute ed il benessere degli individui oltre che per le basi economiche, culturali e politiche della società. Un quadro normativo, quello approntato dal legislatore, atto a tutelare una varietà di beni giuridici individuati, sia dalla giurisprudenza costituzionale[2] che da quella di legittimità[3], nella salute pubblica, nella sicurezza e nell’ordine pubblico, tanto più nella “salvaguardia delle giovani generazioni”, certamente più sensibili all’utilizzo di droghe[4]. Per ciò che in tal sede concerne, è d’uopo evidenziare come all’interno del succitato corpus normativo un ruolo di fondamentale rilevanza nel reprimere qualsivoglia condotta di stimolo alla creazione, diffusione o al consumo degli stupefacenti, è ricoperto dall’art. 73 del D.P.R. n. 390/90 che prevede e punisce, per l’appunto, i delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope. Considerata pietra angolare dei reati in materia di stupefacenti la norma – che nei suoi primi quattro commi disciplina i fatti non lievi circoscrivendo, invece, le fattispecie di lieve entità all’interno dei restanti co. 5, 5-bis e 5-ter[5] – è fortemente connessa al disposto di cui all’art. 75 D.P.R. il quale a sua volta rappresenta la norma cardine dell’intero sistema sanzionatorio amministrativo. Un sistema quello predisposto dal T.U. in materia di stupefacenti connotato da un doppio “binario” in cui ai fatti penalmente rilevanti individuati ex art. 73 si accostano gli illeciti di natura amministrativa previsti ex art. 75 avuto riguardo dalla destinazione della droga per cui, l’uso esclusivamente personale viene qualificato, sulla scorta di una valutazione operata dal giudice caso per caso, quale mero illecito amministrativo.
Al quadro normativo così come delineato dal summenzionato D.P.R., si è affiancata – di recente – la disciplina normativa della cannabis (o canapa) cosiddetta legale – altresì nota come ‘cannabis light’ – contenuta nella Legge n. 242 del 2.12.2016[6] rubricata “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”. La ratio dichiarata dalla Legge in esame si sostanzia nel sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della canapa del tipo ‘Cannabis sativa’ – che, fra quelle esistenti, rappresenta una varietà a bassissimo contenuto di THC – “quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione” (art. 1, co. 1). Tale legge ha, dunque, statuito che specifiche varietà di tale pianta – ovverosia quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 – non rientrano nell’ambito di applicazione del D.P.R. 309/90: sono pertanto sottratte alla disciplina penale e possono essere coltivate liberamente, senza necessità di autorizzazione, a condizione che le varietà coltivate non superino lo 0,6% di THC.
Ebbene, operate tali, seppur sommarie, premesse di carattere generale in ordine ai reati in materia di stupefacenti, giova senz’altro segnale sul punto la recentissima pronuncia della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 6 novembre 2020, n. 30930.
2. La vicenda processuale
La vicenda processuale prende avvio dalla decisione operata dalla Corte di Appello di Roma di confermare la decisione resa dal Tribunale di Roma all’esito del giudizio abbreviato e appellata dall’imputato la quale, ha confermato il giudizio di penale responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 73 co.5 D.P.R. 390/90 condannandolo alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e 3.000 € di multa per aver – tra le altre cose – coltivato una piantina di marijuana dell’altezza di circa un metro. Avverso la succitata sentenza l’imputato, per mezzo del suo difensore, proponeva ricorso in Cassazione, adducendo – per ciò che in tal sede rileva – nel primo motivo di ricorso la mancata applicazione della Legge n. 242/2016 puntualizzando che, nel caso de quo, il limite di tolleranza di THC previsto dalla legge (0,06%) veniva superato di appena 0,01% e sotto diverso profilo, contestava la tipicità e, soprattutto, l’offensività della condotta stante l’unicità della piantina tenuta sul balcone, coltivata in mondo rudimentale e diretto all’uso esclusivamente personale.
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3. La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi, con la sentenza in esame, ha dichiarato l’inammissibilità del primo motivo di ricorso confermando appieno il ragionamento operato dai giudici di prime cure.
Preliminarmente, gli Ermellini, ribadiscono le finalità perseguite dalla Legge 242/2016 evocata dal ricorrente, sgomberando il campo da quello che è stato definito come un “equivoco” e ne escludono l’applicazione alle coltivazioni domestiche, giacché normativa atta solamente a promuovere la filiera agricola della canapa.
Sulla contestata tipicità e offensività della condotta viene poi dato atto di come la Corte Territoriale, nel confermare la penale responsabilità dell’imputato, abbia fatto proprio l’orientamento prevalente in giurisprudenza per cui, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze di tipo stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, attesa la formulazione della norma e la ratio della disciplina in materia, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente[7]. Di talché, non è configurabile il reato di coltivazione non autorizzata di piante dalle quale sono estraibili sostanze stupefacenti nel solo caso di condotte “inoffensive” e cioè nel caso le stesse siano inidonee a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma[8], bene che nel caso di specie – così come emerge dal corpo del testo – risulta essere leso giacché accertato, a seguito di sequestro della pianta, un contenuto di THC idoneo al confezionamento di 200 dosi medie singole.
Sul punto, viene, inoltre, dato atto del recente l’intervento delle Sezioni Unite[9] le quali – superando la precedente giurisprudenza “di rigore”, sintetizzabile nel principio che la coltivazione è sempre penalmente rilevante a prescindere da quale sia la dimensione e dalla destinazione personale del ricavato[10] – hanno affermato che non integra il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. 390/90 chi coltiva per uso domestico piante da stupefacente in numero modesto, tale da accreditare una destinazione dello scarsissimo principio attivo ricavabile ad un uso esclusivamente personale del coltivatore. Detto in altri termini, la Suprema Corte a Sez. Un., pur aderendo all’orientamento per cui il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente[11], ne esclude dal perimetro della tipicità – in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale – le coltivazioni di minime dimensioni svolte in forma domestica purché questa, in relazione agli indici del caso concreto (rectius: rudimentalità delle tecniche, esiguità del numero di piantine, modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, assenza di ulteriori indici indicativi di uno stabile inserimento nel mercato degli stupefacenti) appare destinata a produrre sostanza stupefacente diretta all’uso meramente personale di colui che la coltiva.
Sicché, nella fattispecie de qua, gli Ermellini hanno concluso che la pianta sequestrata, in virtù delle sue dimensioni (di quasi un metro) e del grado di sviluppo, era da considerarsi come concretamente idonea a produrre 200 dosi medie, ritenute destinate allo spaccio, stante il rinvenimento sia della strumentazione atta al confezionamento (bilancino di precisione, trita erba, ritagli di buste di plastica e coltelli) sia di sostanza stupefacente di altra tipologia (7 grammi di cocaina, 5,2 grammi di marijuana e 2,4 grammi di ecstasy).
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Note
[1] Il D.P.R., del 09 ottobre 1990, n° 309, rubricato “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” e pubblicato in Gazz. Uff. del 31 ottobre 1990, n. 255, è stato aggiornato, da ultimo, con le modifiche apportate dal D.lgs. n. 21 del 1° marzo 2018 e dal D.M. 23 ottobre 2019.
[2] Corte Cost., sentenza 10 luglio 1991, n. 333 in http://www.giurcost.org/decisioni/1991/0333s-91.html .
[3] Cfr. fra tutte, Cass. Pen., Sez. Un., 24 giugno 1998, n. 9973, Kremi, in C.E.D. Cass., n. 211073; Sez. Un., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, ivi, n. 239920 nonché in Foro it., 2008, II, c. 620, con nota di AMATO, Coltivazione di sostanze stupefacenti: è possibile una soluzione “alternativa” a quella “di rigore” adottata dalle sezioni unite?
[4] In particolare si Veda Sez. Un., 22 gennaio 2009, Ronci, n. 22676, in C.E.D. Cass., n. 243381, la quale ha ritenuto in motivazione che «la legislazione in materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, ma, […], ha come scopo diretto ed immediato delle sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale della droga e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della salute pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico […]». È stato inoltre precisato che «[…] lo scopo ulteriore ed indiretto di tutelare la vita dei possibili consumatori riguarda solo un rischio ed un pericolo generali e generici per l’incolumità e la salute della massa dei consumatori, pericolo che è già incluso nel disvalore complessivo, severamente sanzionato dalle disposizioni sulla produzione e sullo spaccio degli stupefacenti».
[5] Cfr. da ultimo, Corte di Cassazione Pen., Sez. IV, sentenza n. 17674/19. Del 09/04/2019, depositata il 29 aprile 2019.
[6] Legge n. 242 del 02/12/2016, rubricata “disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa” – è stata pubblicata nella Gazz Uff. del 30.12.2016, n. 304 ed è entrata in vigore il 14 gennaio 2017.
[7] Cfr. Cass. Pen, Sez. VI, sent. n. 22459 del 24/05/2013, Cangemi, Rv. n. 255732.
[8] Cfr. Cass. Pen, Sez. III, sent. n. 21120 del 31/01/2013, dep. Il 16/05/2013, Colamartino, Rv. n. 255427.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. Unite, Sent. n. 12348 del 19/12/2019, dep. Il 16/04/2020, Caruso, Rv n. 278624-01.
[10] E’ nota, infatti la diversa lettura interpretativa fornita in precedenza dalle Sezioni unite, nelle sentenze 24 aprile 2008, Di Salvia e 24 aprile 2008, Valletta, secondo cui costituiva condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando fosse realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale, essendo irrilevante ai fini della sussistenza del reato la distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica. Secondo tale impostazione, lo spazio per una pronuncia liberatoria poteva semmai aversi solamente in presenza di condotte di coltivazione che risultassero concretamente “inoffensive”, spettando al giudice di merito verificare se la condotta di coltivazione accertata fosse in ipotesi assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e dovendosi in proposito considerarla “inoffensiva” [solo] se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non risultasse idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Cfr. Cass. Pen, Sez. Un., sentenza 24 aprile 2008, n. 28605 – Riv. Polizia, 2008, 11-12, 814 nota di MONTAGNA e la sua gemella Cass. Pen, Sez. Un., sentenza 24 aprile 2008, n. 28606 (Valletta), P.G. Genova in proc. V., Corriere del Merito, 2008, 11, 1185 nota di PICCIALLI.
[11] Cass. Pen., Sez. Unite, Sent. n. 12348 del 19/12/2019, cit, Rv n. 278624-02, CED Cassazione 2020.
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