Più in particolare, con ordinanza del 22 giugno 2017, n. 15534, i Giudici della terza sezione Civile della Corte di Cassazione hanno rimesso al primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, il seguente interrogativo: “Se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nella specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante»”.
Si tratta, cioè, di verificare la detraibilità – dal montante risarcitorio per danno patrimoniale conseguente a fatto illecito- di benefici, indennità, provvidenze o trattamenti di vario genere percepiti o percipiendi dal danneggiato e rinvenenti la loro fonte in un titolo indipendente dal fatto illecito (in species, legge o contratto con terzi).
Quaestio iuris estremamente delicata, stante l’assenza di una normativa ad hoc e la matrice essenzialmente pretoria del meccanismo liquidatorio in esame.
Sul punto, l’orientamento giurisprudenziale tradizionale, muovendo dall’assunto in forza del quale il principio della “compensatio lucri cum damno” troverebbe applicazione unicamente quando danno e lucro siano entrambi conseguenza del medesimo fatto illecito, fornisce al summenzionato quesito risposta negativa.
In termini più puntuali, secondo questa impostazione esegetica, affinché possa richiamarsi il principio de quo il vantaggio deve derivare direttamente dal fatto illecito e non da fattori causativi distinti ed ultronei, pur se questi a loro volta derivanti (ope legis ovvero ex contractu) dal dato materiale del pregiudizio subito dal danneggiato: il nesso che lega illecito e vantaggio deve essere in questo senso immediato e diretto, scevro cioè da “interferenze” eziologiche di alcun genere.
I quattro “vulnera” dell’orientamento tradizionale: la posizione dei giudici rimettenti
L’ordinanza in commento s’innesta, invece, nel solco di una diversa linea interpretativa che, in esito ad una articolata critica dell’esposto orientamento tradizionale, prospetta per il quesito una soluzione sensibilmente diversa.
In particolare, nel provvedimento in commento gli sforzi argomentativi dei giudici di nomofilachia si sono condensati sulla “non condivisibilità” di quattro presupposti teorici sottesi all’orientamento tradizionale.
- Più in particolare, un primo vulnusdell’orientamento tralatizio è di tipo logico perché, pretendendo la medesimezza del «titolo» per il danno e per il lucro al fine dell’operare della compensatio, finisce per disapplicare di fatto l’istituto. Ed invero, è assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sé solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno: si legge invero nel provvedimento interlocutorio che “«lucro» e «danno» non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte: del c.d. «lucro» derivante dal fatto illecito occorre invece stabilire unicamente se costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c”.
- Il secondo vulnusdell’orientamento tradizionale è di tipo dogmatico: precisa infatti la Cassazione che “altro è affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa”.
- Ed invero – a corredo del motivo di censura sopra delineato -osserva la sezione rimettente che negare l’operare della compensatiose non quando lucro e danno abbiano per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante comporta come ineludibile corollario la mancata operatività dell’istituto allorquando la vittima, in conseguenza del fatto illecito, abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale ex lege (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o ex contractu (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi): invero, in casi siffatti, il fatto illecito costituirebbe una mera “occasione” del lucro, non già la “causa” di esso.
Orbene, secondo i giudici della terza Sezione Civile, in parte qua l’impostazione si appalesa distonica rispetto alla moderna nozione di «causalità» giuridica nonché rispetto al sistema generale della responsabilità civile.
Sotto il primo profilo, la giurisprudenza dominante – come noto- ha assunto a fondamento il concetto di «regolarità causale», il quale ricorre, per affermare l’esistenza di un nesso di causalità giuridica tra condotta e danno, al criterio della condicio sine qua non, in forza del quale una condotta è causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato.
Ebbene, sul punto la Cassazione ha ripetutamente affermato che ai sensi dell’art. 1223 c.c. «tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota» (così Cass. 13 settembre 2000, n. 12103; nello stesso senso, tra le altre, Cass. 17 settembre 2013, n. 21255; 22 ottobre 2003, n. 15789); e che «il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo» (Cass. 21 dicembre 2001, n. 16163).
Ora, nello scenario così succintamente descritto, appare “scorretto” – ad avviso dei giudici – interpretare l’art.1223 c.c. “in modo asimmetrico e ritenere che il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito”.
Vieppiù, sottolineano i giudici con una precisazione importante, l’assunto secondo cui l’illecito non sarebbe «causa» in senso giuridico delle attribuzioni erogate alla vittima per legge o per contratto astrae dalla considerazione dell’esistenza di due ordini di rapporti: quello tra danneggiato e soggetto obbligato al pagamento del beneficio e quello tra danneggiato e danneggiante; sicché “che l’illecito non sia «causa» dell’attribuzione patrimoniale è affermazione che potrà ammettersi forse nell’ambito del primo di tali rapporti, ma non certo nell’ambito del secondo”.
- Da ultimo, secondo i Giudici di Piazza Cavour l’orientamento tradizionale che nega la compensatiotra il danno ed i benefici erogati alla vittima dall’ente previdenziale o dall’assicuratore (privato o sociale) finisce per abrogare in via di fatto l’azione di surrogazione spettante a quest’ultimo (ex art. 1203 e 1916 c.c. o in base alle singole norme previste dalla legislazione speciale). Ed invero, “una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l’intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell’illecito, non potrebbe poi essere costretto dall’ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima”.
Così ricostruita la pars destruens della motivazione in commento, con articolate considerazioni l’analisi dei Giudici individua la ratio profonda del risarcimento del danno nel c.d. «principio di indifferenza»[1], in forza del quale “il risarcimento del danno non può rendere la vittima dell’illecito né più ricca, né più povera, di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito”.
In altri termini, la vocazione ultima del risarcimento è quella di porre il danneggiato nello status quo ante, sicché esso non può condurre alla ingiustificata locupletazione del leso (id est ad una “situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito”): e ciò – lo si rammenta- ancor di più nel quadro di un sistema di responsabilità civile come il nostro che, salvo eccezioni di carattere settoriale, rifugge da finalità punitive, sanzionatorie o, comunque, lato sensu afflittive per il danneggiante.
L’applicazione delle predette coordinate ermeneutiche sembra, dunque, avvalorare la tesi per cui nella stima del danno dovrà tenersi conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’illecito, sia in bonam, che in malam partem: operazione, questa, che lungi dallo scindersi in due operazioni distinte (prima si liquida poi si compensa) ha carattere unitario e consiste “nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro. E se in tale operazione ci si imbatte in un vantaggio che sia conseguenza dell’illecito non si dirà che per quella parte si sta «compensando» danno e lucro, ma si dirà che l’illecito non ha provocato danno”.
La presa di posizione della Sezione rimettente traspare nettamente nelle battute conclusive del provvedimento in commento: “la percezione dell’indennizzo”, in special modo se di carattere assicurativo o previdenziale, “da parte del danneggiato, elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può più essere preteso, né azionato”.
Sulla scorta del delineato iter motivazionale, i giudici di legittimità hanno enucleato il seguente quesito di diritto:
«Se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nella specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante».
Quesito che in sé pone anche l’interrogativo sul “se la c.d. compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie”.
La parola alle Sezioni Unite.
[1] Il principio in esame si desume da un reticolo di norme eterogenee.
In primo luogo, dall’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento deve includere solo la perdita subita ed il mancato guadagno.
In secondo luogo dagli art. 1909 e 1910 c.c., i quali assoggettano l’assicurazione contro i danni al c.d. principio indennitario e, di conseguenza, escludono che la vittima d’un danno possa cumulare il risarcimento e l’indennizzo.
Una conferma indiretta del principio de quo la si ricava dall’art. 1224, 1° comma, ultima parte, c.c.: tale norma, stabilendo che nelle obbligazioni pecuniarie sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali «anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno», rende palese che, là dove il legislatore ha inteso derogare al principio di indifferenza, ha sentito la necessità di farlo in modo espresso.
Il principio indennitario è altresì desumibile da varie norme codicistiche che lo richiamano implicitamente: si considerino al riguardo le fattispecie previste dagli art. 1149 c.c. (che prevede la compensazione tra il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); 1479 c.c. (che nel caso di vendita di cosa altrui prevede la compensazione tra il minor valore della cosa e il rimborso del prezzo); 1592 c.c. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti).
Anche varie previsioni contenute in leggi speciali confermano l’esistenza del principio in esame: ad esempio (e si tratta di disposizioni già citate) l’art. 1, comma 1 bis, l. n. 20 del 1994 (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione), o l’art. 33, 2° comma, d.p.r. n. 327 del 2011 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilità prevede la compensabilità del credito per l’indennità espropriativa col vantaggio arrecato al fondo).
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