L’istituto della compensatio lucri cum damno: dalle regole generali del risarcimento del danno alla prima ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 15534 del 2017
Se nei sistemi di Common Law il risarcimento ha sempre avuto carattere fortemente punitivo delle condotte costituenti illecito civile, nell’ordinamento italiano ha subito una profonda evoluzione.
Si è, infatti, passati dalla centralità del danneggiante (e, dunque, dal risarcimento prettamente sanzionatorio) del codice del 1865 al risarcimento limitato al danno emergente ed al lucro cessante, che siano immediata e diretta conseguenza, indistintamente, del ritardo, dell’inadempimento e del fatto illecito. Più in dettaglio, la diversità dell’attuale sistema codicistico rispetto a quello previgente emerge dalle stesse norme a mezzo delle quali si opera l’accertamento e la quantificazione del danno conseguenza. A fronte di una richiesta risarcitoria discendente da un inadempimento contrattuale ovvero da fatto illecito, l’organo giudicante è chiamato alla selezione delle conseguenze risarcibili mediante la ricostruzione, in primis, del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento lesivo (danno ingiusto in sede extracontrattuale, inadempimento in sede contrattuale). In mancanza di norme civilistiche, occorre, al riguardo, riesumare le dinamiche dell’art. 40 cp.
Se, in ambito penalistico, la causalità materiale si ricostruisce alla luce della teoria condizionalistica, secondo la quale mediante un meccanismo di eliminazione mentale si risale all’antecedente causale che è condicio sine qua non dell’evento, nell’ottica civilistica si ricorre alla stessa tecnica, sia pure con l’attenuazione discendente dalla regolarità causale (e, sia pure con le dovute differenze sotto il profilo probatorio).
In secondo luogo, occorre ricostruire il nesso di causalità giuridica, ovvero il segmento del nesso causale che collega l’evento lesivo alla conseguenza dannose che da essa scaturiscono, siano esse patrimoniali o non patrimoniali.
La selezione in ambo le forme di responsabilità passa attraverso l’art. 1227 cc., il quale, al comma primo, ancora inerente la causalità materiale, impone di ridurre il risarcimento se il fatto colposo del creditore/danneggiato ha concorso a cagionare il danno e al comma successivo, inerente la causalità giuridica, esclude il risarcimento per i danni che il creditore, usando l’ordinaria diligenza avrebbe potuto evitare.
Tale ricostruzione, alla luce dell’art. 1223 cc, mira a ristorare il creditore/danneggiato, da un lato, di “tutte” le conseguenze effettivamente subite in virtù del principio di integralità del risarcimento, dall’altro, delle “sole” conseguenze effettivamente imputabili al comportamento non iure. Tale ultimo inciso nasce da un ulteriore regola che l’organo giudicante è chiamato a rispettare nell’accertamento e quantificazione del danno, la cd. teoria differenziale, che parte della dottrina ritiene sia racchiusa nell’art. 1221 cc[1], altra parte, maggioritaria, la rinviene direttamente nell’art. 1223 cc.
Secondo tale teoria, l’integrità del ristoro deve emergere da un raffronto tra la situazione patrimoniale del soggetto prima dell’evento lesivo e dopo l’evento lesivo.
Occorre, in altri termini, che la quantificazione del danno sia finalizzata a garantire un ripristino dello status quo ante; la posizione patrimoniale del soggetto deve essere identica a quella anteriore all’illecito e non inferiore né tantomeno superiore.
La funzione compensativa implicherebbe, dunque, l’applicazione di un ulteriore istituto, oggetto di recente attenzione della Suprema corte: l’istituto della compensatio lucri cum damno.
Infatti, se è vero che, a mezzo della teoria differenziale, occorre valutare la situazione patrimoniale prima e dopo l’evento, è altrettanto vero che la quantificazione del danno dovrebbe tener conto degli eventuali vantaggi che il danneggiato può aver ottenuto come conseguenza dell’evento lesivo, a condizione che si possano rinvenire i presupposti applicativi del predetto istituto.
L’individuazione dei predetti presupposti (nonché la stessa esistenza del predetto istituto isolatamente considerato), tuttavia, ancora oggi non è propriamente cristallina. Le difficoltà emergono tanto in ambito dottrinale, quanto in ambito giurisprudenziale. Da un lato, infatti, la dottrina fa fatica – in alcuni casi – perfino ad accettare l’istituto, in altri – pur accettandolo, fatica nel definirlo.
Dall’altro la giurisprudenza della Suprema Corte, in ragione della funzione nomofilattica che le è propria, non è chiamata a definire i confini generali dell’istituto, ad individuare un principio generale astratto disancorato dal caso concreto, ma si limita ad enunciare un principio che tragga fondamento dal caso di specie sottoposto alla sua attenzione. Con la conseguenza che, ad oggi, il problema viene considerato (sia pure in forma decisamente attenuata ed a livello, probabilmente, più teorico che pratico) ancora esistente, nonostante i ripetuti interventi delle Sezioni Unite.
Muovendo, in primis, dalle problematiche dottrinali, occorre considerare come si siano formati tre distinti orientamenti in relazione alla compensatio.
Secondo alcuni autori, l’istituto non dovrebbe trovare cittadinanza nel nostro ordinamento, <<non esisterebbe un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”[2]>>.
Secondo altra visione, si deve considerare ammissibile che lucro e danno debbano compensarsi, ma tale compensazione non si realizzerebbe in ragione di una regola generale[3]. Altro orientamento ritiene che all’istituto della compensatio lucri cum damno debba attribuirsi valenza di “regola generale”. Tuttavia, anche aderendo a tale impostazione, il cuore del problema è solo raggirato: pur ammettendo che si tratti di una regola generale, occorre comunque individuare i presupposti applicativi della regola e, dunque, capire quando essa trovi (e, soprattutto, non trovi) applicazione.
L’ordinanza di rimessione è particolarmente esaustiva nella ricostruzione delle diverse opinioni sul tema:<<…. gli autori i quali ammettono l’esistenza dell’istituto della compensatio lucri cum damno esprimono opinioni assai diverse quando si tratta di ravvisarne il fondamento e l’ambito di operatività. Alcuni ammettono la compensatio solo per i danni patrimoniali, altri anche per i danni non patrimoniali.
Alcuni ammettono la compensatio solo se danno e lucro siano conseguenza diretta della lesione del diritto; altri si contentano che danno e lucro traggano origine dalla condotta illecita. Alcuni esigono, per l’applicabilità della compensatio, che danno e lucro siano generati dall’azione del danneggiato, senza il concorso di altri; altri ammettono che la compensatio possa operare anche quanto il lucro derivi dalla condotta di un terzo.
La maggior parte degli autori che ammettono la compensatio, infine, per l’operatività dell’istituto pretende che il fatto illecito sia stato causa, e non già mera occasione, tanto del danno, quanto del lucro: salvo poi tornare a dividersi allorché si tratti di stabilire quando un fatto illecito possa dirsi “causa”, e quando “occasione”, del lucro>>.
Se, dunque, i presupposti applicativi non sono pacifici, giocoforza la frammentarietà delle tesi emerge nella risoluzione dei casi pratici.
Pertanto, al fine di giungere ad un risultato unitario, o, quantomeno, più chiaro, la Terza Sezione civile ha posto alle Sezioni Unite il seguente quesito : <<Se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati, da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante. […Il] quesito, dunque … in sé pone anche l’interrogativo sul se la cd. “compensatio lucri cum damno” possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie[4]>>.
Un passo indietro: i presupposti applicativi dell’istituto secondo l’orientamento prevalente
Sebbene vi sia discordia in ordine alla individuazione dei limiti di operatività dell’istituto, si possono ugualmente evidenziare dei punti-chiave emergenti dalle diverse ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali.
Come ricordato da alcuni Autori, pur in assenza di specifici riferimenti normativi, si era inizialmente ritenuto che la “tecnica dello scomputo” dovesse essere applicata quando: 1. Pregiudizio ed incremento patrimoniale discendevano dallo stesso evento; 2. Danno e vantaggio erano conseguenza di un rapporto di causalità diretto ed immediato dell’evento; 3. Le poste compensative potevano dirsi aventi la medesima natura giuridica .
Tali caratteri hanno reso da subito evidente come, di fatto, rispetto alla ipotesi codicistica di compensazione ex art. 1241 cc non vi fosse alcun punto di contatto e, pertanto, nessun principio poteva essere tratto dalle norme dedicate a questa peculiare forma di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento. L’unico elemento di contatto tra i due diversi istituti può, forse, essere individuato nella omogeneità delle poste compensative, dal momento che la stessa compensazione giudiziale ex art. 1243 cc la richiede[6]. Omogeneità che, ad ogni modo, come si vedrà, se è pacifica nella compensazione in senso tecnico, non lo è affatto nella compensatio lucri cum damno.
2.1 Le conseguenze negative della eccessiva rigidità dei criteri applicativi: le critiche ante ordinanza di rimessione
L’applicazione stringente dei presupposti poc’anzi individuati ha, tuttavia, suscitato un acceso dibattito recepito, ancora una volta, da alcune pronunce giurisprudenziali emanate tra gli anni Novanta ed il 2014 e, dunque, ante ordinanza n. 15534 del 2017, della quale ne rappresentano il substrato.
A destare le prime perplessità fu il criterio della medesimezza della natura giuridica delle poste compensative. I casi pratici, infatti, implicavano quasi sempre una coesistenza tra indennizzo/indennità speciali e poste puramente risarcitorie e richiedevano al giudicante uno sforzo nella scelta sul se compensare o meno le due voci.
La diversità civilistica tra indennizzo e risarcimento, che impone di considerare il primo elemento come minus rispetto al secondo, avrebbe dovuto proibire automaticamente al giudicante l’applicazione dell’istituto. Così accadde, infatti, in relazione ad una pronuncia di fine anni Novanta inerente la rottura di una diga che aveva condotto alla distruzione di alcuni Comuni .
Il caso di specie richiedeva al giudicante di valutare la compensabilità o meno delle indennità riconosciute ai Comuni in ragione dei danni cagionati dall’inondazione ed il risarcimento che i gestori della diga, alla luce dei principi civilistici inizialmente enunciati, avrebbero dovuto corrispondere.
In tale contesto, prescindendo momentaneamente dalle considerazioni inerenti gli altri due requisiti della compensatio, difettava chiaramente l’identità di natura giuridica, dal momento che le elargizioni di denaro pubblico dovute ai Comuni avevano puro fondamento solidaristico, diversamente rispetto alle poste risarcitorie, le quali nascevano dai principi cardine del sistema civile.
Tuttavia il pedissequo rispetto del predetto “limite alla compensatio” produceva (in questo, come in altri casi) come conseguenza un incremento patrimoniale del danneggiato.
Tali considerazioni furono, in parte, riprese in un’altra pronuncia del 2008, con la quale si cercò di ovviare all’eccessivo rigore della medesimezza della natura giuridica .
Il caso riguardava la cumulabilità o meno dell’indennizzo che la l. n. 210 del 1992 impone di corrispondere in caso di contagio da emotrasfusione ed il risarcimento del danno biologico e morale spettante al danneggiato , previo rispetto dell’onere probatorio su di esso gravante.
La fattispecie, che si può forse considerare un leading case, vedeva come soggetto chiamato tanto alla corresponsione dell’indennizzo quanto alla corresponsione del risarcimento il Ministero della Salute con la conseguenza che, mediante l’applicazione stretta dei criteri elaborati dalla dottrina prevalente: a. la vittima avrebbe legittimamente ottenuto un incremento patrimoniale in deroga agli esiti della applicazione della teoria differenziale (ovvero di quello che la giurisprudenza spesso definisce principio di indifferenza); b. un medesimo soggetto sarebbe stato chiamato, sia pure per ragioni diverse (imposizione ex lege ed imposizione giudiziale a mezzo dell’accertamento dei presupposti della responsabilità civile) a sopportare il peso di una duplice elargizione.
Al fine di evitare tali effetti negativi, la Suprema corte elaborò un principio di diritto ancora oggi valido (e considerato pacifico anche nelle recenti Sezioni Unite gemelle di maggio 2018 di cui si dirà più avanti ) a mente del quale la diversità di natura giuridica non costituisce ostacolo alla applicazione del criterio della compensatio e, conseguentemente, allo scomputo integrale delle due poste, in quanto la vittima risulterebbe indebitamente arricchita dalla duplice attribuzione patrimoniale avente identità di fonte che un medesimo soggetto è chiamato a corrispondere.
Su tali basi, si può dunque – in questa prima fase – ritenere che, quantomeno nell’ipotesi in cui la duplice attribuzione abbia identità di chiamato, il requisito della omogeneità delle voci compensative non trova applicazione.
Tale prima critica alla rigidità dei tre criteri evidenziati, lungi dall’essere esaustiva, ha avuto come seguito l’analisi degli altri due criteri.
Ammettere, infatti, che si possa mitigare la rigidità del criterio della omogeneità nella limitata ipotesi in cui sussista identità di chiamato, e, dunque, ammettere che due poste compensative aventi titoli di obbligazione diversi possano compensarsi significa iniziare a toccare il tema della causalità.
Come precedentemente evidenziato, il “secondo limite” della compensatio richiederebbe che lucro e danno siano conseguenza “immediata e diretta” dell’evento.
Tuttavia, le ipotesi in cui tanto il danno quanto il vantaggio siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito <<appaiono davvero rare>>. Tanto rare da rischiare di rendere praticamente inesistente il problema della applicabilità dell’istituto, dal momento che avrebbe più senso sostenere la tesi dottrinale secondo la quale, in verità, l’istituto non esiste affatto oppure dovrebbe essere considerato come mera estrinsecazione logica del principio di integralità del ristoro e della teoria differenziale per l’individuazione del danno.
La Suprema Corte si è espressa sul tema in numerose occasioni ed, in particolare, in una pronuncia del 2014 inerente la cumulabilità o meno della pensione di reversibilità e del risarcimento del danno .
Secondo tale pronuncia, la ricerca di una causalità immediata e diretta in senso stretto è espressione di un equivoco tutto dottrinale.
Secondo il collegio dire che solamente il risarcimento ha fonte diretta nell’illecito/evento lesivo, mentre “la pensione” – ma, più che altro, per le ragioni che si vedranno nel §3, è preferibile, in questa fase della trattazione, riferirsi genericamente alle “varie indennità speciali ed erogazioni riconosciute ex lege”– non ha fonte nell’illecito ma trova in esso mera “occasione”, dal momento che ne costituisce causa solamente la disposizione di legge che esplicitamente la prevede, appare osservazione discutibile.
La moderna ricostruzione della causalità , che prende le mosse dalle norme del diritto penale e dalla loro evolutiva interpretazione, in ambito civilistico ha, da tempo, abbandonato la distinzione tra “causa remota”, “causa prossima” ed “occasione” .
Ne consegue che << … per stabilire se un fatto possa dirsi causato da un altro non è proficuo arrovellarsi a discettare se il secondo sia stato causa o mera occasione del primo: non foss’altro che per la difficoltà, quando non per l’impossibilità, di distinguere tra l’una e l’altra. Occorrerà, invece, per affermare l’esistenza d’un nesso di causalità giuridica tra condotta e danno, ricorrere al criterio della condicio sine qua non, in virtù del quale una condotta è causa dell’evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato…[con l’attenuazione discendente dalla regolarità causale] >>.
Tale visione della causalità, da un lato, meglio rispecchia l’orientamento giurisprudenziale del 2006 che ammette una lettura estensiva dell’art. 1223 cc, norma inerente la causalità giuridica, consentendo all’organo giudicante la risarcibilità anche dei danni che siano conseguenza “mediata” dell’illecito. La Corte, in tale occasione, aveva chiarito che in tema di risarcibilità dei danni conseguiti da fatto illecito (o da inadempimento, nell’ipotesi di responsabilità contrattuale), il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentano come effetto normale secondo il principio della cd. regolarità causale.
Dall’altro rende intollerabile una interpretazione asimmetrica della medesima norma.
Non si può, in altri termini e come spesso sostenuto in giurisprudenza, considerare ammissibile che il rapporto tra illecito e danno possa anche non essere diretto ed immediato nel momento in cui oggetto di attenzione, ai sensi della predetta norma, sia soltanto la quantificazione del danno risarcibile e richiedere, per contro, un rigore eccessivo nella identificazione del vantaggio originato dall’illecito da prendere in considerazione ai fini di una più corretta quantificazione del danno risarcibile mediante la “tecnica dello scomputo”.
Dunque, si dovrebbe ricavare che: a. la medesimezza della natura giuridica delle poste compensative non gode del rango di criterio di applicazione/limite dell’istituto; b. deve accogliersi una lettura estensiva della causalità e, dunque, il requisito della immediatezza del nesso nell’esame del vantaggio da scomputare deve essere valutato in modo simmetrico rispetto alla lettura offerta dalla giurisprudenza in relazione all’art. 1223 cc nell’accertamento del solo danno; c. conseguentemente, l’ultimo limite, secondo il quale il pregiudizio ed incremento patrimoniale devono discendere dallo stesso evento/illecito dovrà essere coerente con la lettura più ampia di causalità .
2.2 La soluzione offerta dalla prima ordinanza di rimessione
Evidenziate le criticità emerse nel corso degli anni, si può ora porre l’accento nuovamente sulla prima ordinanza di rimessione, la quale non si limita a proporre un quesito all’attenzione delle Sezioni Unite (si veda §1), bensì si prefigge l’obiettivo di individuare una possibile soluzione al problema, utilizzando argomentazioni in parte precedentemente evidenziate e traenti spunto da precedenti giurisprudenziali significativi[17].
Il collegio, dunque, sostiene che : <<a. alla vittima di un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione; b. nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato dal fatto illecito; c. per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito>>.
Sulla base di tali preliminari valutazioni, la Terza Sezione sostiene che, di fatto, non potrebbe dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile come “compensatio lucri cum damno”, in questo l’istituto sarebbe mera estrinsecazione del “principio di integralità” della riparazione o “principio di indifferenza”<<in virtù del quale il risarcimento deve coprire l’intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato …. principio desumibile dall’art. 1223 cc.>>
Con tali premesse, la Corte ricorda quali sono i punti critici della compensatio, così brevemente riassumibili :
a.<<l’orientamento che nega la compensatio lucri cum damno quanto vantaggio e svantaggio non trovino ambedue causa immediata nell’illecito si fonda su quattro presupposti teorici non condivisibili>> perché:
- Pretendere la medesimezza del titolo significa disapplicare automaticamente l’istituto;
- L’istituto costituisce più che altro regola per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile ex art. 1223 cc; lucro e danno, pertanto, non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto.
b.<< l’orientamento secondo cui la regola della compensatio opera soltanto se “danno” e “lucro”scaturiscono in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appare frutto di un equivoco…>> perché:
- La regola secondo cui la compensatio esige la medesimezza dell’illecito è stata applicata, negli anni, sempre più tralatiziamente;
- L’originario requisito della “medesimezza della condotta” , da secoli fondamento della compensatio, si è trasformato in “medesimezza del fatto” e questa, a sua volta, in “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno.
c. <<…negando l’operatività dell’istituto se non quando lucro e danno abbiano per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante non si ammette l’operatività dell’istituto quando la vittima in conseguenza del fatto illecito abbia ottenuto un vantaggio in conseguenza di una norma di legge o di un contratto… In questi casi il fatto illecito costituirebbe una mera occasione di lucro e non la causa con conseguente esclusione dell’istituto>> ma tale ragionamento non è accoglibile perché:
- collide con la moderna concezione di causalità;
- collide con i principi della responsabilità civile;
d.<< l’orientamento che nega la compensatio tra il danno ed i benefici erogati alla vittima dall’ente previdenziale o dall’assicuratore finisce per abrogare in via di fatto l’azione surrogatoria spettantegli ex art. 1203 e 1916 cc>> ma tale impostazione non può essere accolta perché:
- si finirebbe con il privare l’assicuratore o l’ente previdenziale di un diritto attribuito loro ex lege;
Il collegio, evidenziato, su tali basi, qui brevemente schematizzate e riassunte, perché appare poco condivisibile una lettura restrittiva di quelli che, in precedenza, si sono chiamati “limiti” alla compensatio, chiarisce se ed a quali condizioni il vantaggio patrimoniale scaturito dall’illecito vada imputato nel risarcimento.
A tal fine, parte dal presupposto che nella stima del danno è necessario tener conto dei vantaggi economici procurati alla vittima dall’illecito in quanto:
- tale assunto, come già evidenziato, è estrinsecazione del principio di indifferenza del risarcimento;
- numerose norme speciali confermano l’esistenza di tale criterio generale (es. art. 33 comma 2 d. P.R. n. 327 del 2011);
Dunque, <<il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andrà ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile>>, e ciò avverrà quando si fronteggiano contemporaneamente:
- risarcimento danno biologico e indennizzo percepito dall’Inail;
- risarcimento per danno patrimoniale da incapacità lavorativa e pensione di invalidità;
- danno patrimoniale da perdita di prossimo congiunto e pensione di reversibilità;
Da tali argomentazioni, il collegio deduce che non esiste una regola definita “compensatio lucri cum damno” intesa come regola da applicare post liquidazione del danno al fine di evitare un ingiustificato arricchimento nel patrimonio della vittima. Ciò in quanto, nella fase di quantificazione dei danni civili <<non ci sono affatto due operazioni da compiere (prima si liquida e poi si “compensa”).L’operazione è una soltanto e consiste nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro>>.
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Come anticipato nel primo §, la Terza Sezione, ha posto, seppur all’esito della individuazione di una possibile soluzione, un quesito di carattere generale, al quale, tuttavia, le Sezioni Unite non possono fornire risposta svincolata dalla specifica fattispecie concreta oggetto di loro attenzione. La funzione nomofilattica che caratterizza il collegio, infatti, impedisce di individuare verità dogmatiche che prescindano dai casi di specie. Pertanto si vuole, in questa sede, individuare schematicamente i quattro casi specifici – in verità, cinque, quattro esaminati dalla Suprema Corte ed uno esaminato dai Giudici Amministrativi – e le relative soluzioni offerte.
Volendo partire dal caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato[18] (dal momento che viene più volte richiamato dalle Sezioni Unite nei diversi passaggi motivazionali), in ragione delle argomentazioni espresse, che rappresentano una sintesi delle problematiche già esaminate, occorre considerare che la fattispecie concreta riguardava un ricorso presentato da un sostituto procuratore della Repubblica che, per circa dieci anni, aveva svolto la propria attività lavorativa all’interno di una costruzione i cui muri esterni erano costituiti da lastre piane in cemento-amianto sostenute da profilati di alluminio e <<che le perforazioni presenti nelle lastre in cemento avevano determinato, con l’emissione di polvere, il rilascio di fibre di amianto>>.
Un esame radiologico aveva dato come esito la presenza di una malattia peptica ulcerosa duodenale. Una volta riconosciutagli la misura massima prevista dalle vigenti disposizioni di legge ai fini della concessione dell’equo indennizzo, chiedeva al Tar la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale alla salute. Dalla somma non avrebbe dovuto essere detratto l’importo già percepito a titolo di indennizzo[19].
Di tale avviso fu anche il Tar, il quale sostenne che le prestazioni indennitarie riconosciute dalla legge in favore dei dipendenti pubblici devono concorrere (senza, dunque, che intervenga alcuno scomputo) con il risarcimento del danno biologico che l’amministrazione è chiamata a corrispondere al danneggiato/creditore, con conseguente inoperatività del principio della compensatio lucri cum damno.
Tale convincimento prendeva le mosse dalla, più volte esposta, considerazione secondo la quale solo il risarcimento troverebbe fonte nell’illecito e non anche l’indennizzo che, per contro, sarebbe semplicemente occasionato dall’illecito, senza che sussista la necessaria causalità diretta. Naturalmente, il Ministero, per contro proponeva appello, invocando l’operatività dell’istituto della compensatio lucri cum damno.
Il Consiglio di Stato, al fine di dirimere la questione, opera una preliminare bipartizione tra rapporti a struttura bilaterale e rapporti a struttura trilaterale (o meglio duplici rapporti bilaterali).
I primi vengono in considerazione quando sussiste una sola parte responsabile (ed obbligata a risarcire il danno) ed una sola parte danneggiata. In siffatti rapporti nella valutazione delle conseguenze economiche negative dell’illecito occorrerà considerare anche il vantaggio – a condizione che trovi “causa” nella commissione dell’illecito – acquisito nel patrimonio del danneggiato/creditore.
In questi casi, <<la compensatio lucri cum damno non [avrebbe] una sua autonomia dommatica ma [rappresenterebbe] una mera espressione descrittiva di una delle possibili modalità di impiego del meccanismo causale nella fase di determinazione dei pregiudizi>>.
Il secondo nucleo di rapporti, invece, ricomprenderebbe, secondo la ricostruzione del Consiglio, un soggetto danneggiato e due distinti soggetti obbligati in base a diverso titolo[20]. Nei predetti rapporti rientrerebbero le ipotesi in cui sussistono previsioni di legge che impongono la corresponsione di indennità speciali aventi, ad esempio, finalità solidaristica.
In tale ultima ipotesi, dunque, si sarebbe in presenza di un doppio rapporto bilaterale: parte responsabile – vittima; vittima – soggetto erogatore. Secondo il Consiglio di Stato, sarebbero questi i rapporti che presentano maggiori difficoltà in termini di operatività dell’istituto.
Secondo un primo orientamento, in questo caso indennità ed eventuale risarcimento sarebbero cumulabili in quanto la duplice bilateralità del rapporto si traduce in una duplicità di titolo delle obbligazioni con la conseguenza che è giustificata la corresponsione di ambo le somme perché la condotta illecita che inerisce al primo rapporto costituirebbe solo occasione della indennità[21].
Secondo altro e diverso orientamento (ovvero secondo una soluzione coerente con quella offerta dall’ordinanza di rimessione), assumerebbe rilievo non la diversità di rapporto giuridico/titolo di obbligazione bensì la unicità della condotta che costituisce (si vedano sul punto le interpretazioni estensive più volte riprese) “causa” di ambo le attribuzioni, con la conseguenza che può essere applicata la regola della compensatio lucri cum damno onde evitare il fenomeno della funzione sovracompensativa del risarcimento del danno.
Il caso di specie, tuttavia, non può essere ricondotto né all’una né all’altra categoria di rapporti, in quanto, come visto in fatto, il soggetto obbligato è identico. Tanto l’indennizzo quanto il risarcimento sono a carico del Ministero della Giustizia, con la conseguenza che si viene a creare, a conti fatti, un rapporto giuridico bilaterale, tra danneggiato e soggetto sul quale gravano tutte e due le obbligazioni indennitaria/risarcitoria (implicanti una duplicità di titolo) discendenti da una unica condotta.
Si ritorna, dunque, ad una situazione analoga a quella già esaminata nel § 2.1, in cui chiamato alla corresponsione è lo stesso soggetto (nel caso precedentemente esaminato, il Ministero della Salute per i danni da emotrasfusione). Ed in quel caso, la Suprema Corte si espresse per l’applicabilità dell’istituto proprio per evitare il doppio peso sorgente in capo allo stesso “chiamato”.
Principio, questo, dato per scontato nelle sentenze gemelle che si esamineranno a breve e, di fatto, confermato anche dal Consiglio di Stato, sia pure all’esito di un percorso argomentativo lievemente diverso che prende le mosse dall’analisi strutturale sopra evidenziata.
Il Consiglio, infatti, chiarisce, nei limiti della questione inerente la cumulabilità o meno tra risarcimento ed indennizzo cui può essere chiamato il medesimo ente pubblico, che <<la presenza di un’unica condotta responsabile, fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica ed in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario>>.
Il riferimento alla sola causalità giuridica, dunque, lascia propendere per la considerazione secondo la quale, almeno in relazione a siffatti rapporti, implicanti identità di chiamato, non venga in realtà in considerazione l’istituto della compensatio per come esaminato, bensì le semplici tecniche di determinazione del danno. Infatti, il collegio chiarisce che in questo caso la condotta presa in considerazione (inadempimento del datore di lavoro/Ministero ex art. 1218 e 2087 cc[22]) ha determinato solo danni, pertanto si rende opportuno evitare non il cumulo di danno e lucro, bensì il cumulo di voci risarcitorie.
Si potrebbe, conseguentemente, dedurre che, contrariamente a quanto argomentato da parte della dottrina, anche il Consiglio di Stato come l’ordinanza di rimessione, propenda per la tesi che non riconosce alla compensatio una vera e propria valenza autonoma[23].
Diversa, invece, appare l’impostazione emergente dall’esame delle quattro sentenze. Si può evidenziare come in ciascuna di esse si affermi che l’esistenza dell’istituto della compensatio non costituisce questione controversa nella giurisprudenza della Corte. La stessa, infatti, nasce dalla necessità che il danno risarcibile sia <<il risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso>>.Nella quantificazione del danno il vantaggio deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento.
Pertanto, più che disquisire sull’esistenza o meno dell’istituto, è necessario porre l’accento sulla portata e sull’ambito di operatività della figura, ovvero disquisire sui “limiti” della compensatio. Solo a tal fine, quindi, può essere utile esaminare i quattro quesiti sottoposti alla Suprema corte, identificabili nel:
- Se sia cumulabile o, viceversa, scomputabile, la rendita per inabilità permanente costituita dall’Inail dal danno subito dal lavoratore a seguito di infortunio[24];
- Se nella liquidazione del danno da fatto illecito, dal computo del pregiudizio sofferto dalla compagnia aerea titolare del velivolo abbattuto nel disastro aviatorio di Ustica vada defalcato quanto essa abbia ottenuto a titolo di indennizzo assicurativo per la perdita dell’aereo[25];
- Se il danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, consistente nella perdita dell’aiuto economico offerto dal defunto, debba essere liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità accordata al superstite dall’Istituto nazionale della previdenza sociale[26];
- Se dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, debba sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento erogata al minore dall’Inps[27].
Con riguardo al primo quesito, i giudici, dopo aver ripercorso in buona parte i passaggi motivazionali della soluzione offerta dalla Terza Sezione (percorso naturalmente obbligato anche per le altre due sentenze), effettuano alcune precisazioni. Pur aderendo ad una lettura estensiva della causalità, il collegio ritiene che, al fine di computare i vantaggi nella quantificazione del danno, non si possa giungere al punto da considerare incidente “qualsiasi” beneficio indiretto o mediato, onde evitare una eccessiva dilatazione dei presupposti applicativi dell’istituto. Conseguentemente non assumeranno rilievo i vantaggi che discendono da un volontario autonomo e consapevole comportamento del danneggiato (che, ad esempio, si pone attivamente alla ricerca di un’altra posizione lavorativa)[28] nonché i vantaggi discendenti, esemplificativamente, dall’acquisto dell’eredità da parte degli eredi della vittima. Ciò in quanto occorre pur sempre guardare alla funzione del beneficio, che di fatto, deve servire a rimuovere gli effetti dell’illecito, onde evitare di trasformare l’applicabilità dell’istituto in un calcolo aritmetico privo di intrinseca ratio[29].
Rapportando tali considerazioni al caso di specie, si può considerare che la rendita Inail costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario che trova ragion d’essere nell’esigenza di coprire il pregiudizio “causato” dall’infortunio sul posto di lavoro. Pertanto, la predetta prestazione si pone a copertura della medesima perdita che il risarcimento del danno civile ha la funzione di ristorare.
Ne discende che il lavoratore avrà, di fatto, diritto, nell’ambito del primo rapporto giuridico bilaterale che lega il danneggiato/creditore al danneggiante/debitore, alla corresponsione della “parte di risarcimento” non coperta dell’indennizzo che il soggetto erogatore è chiamato a corrispondere, nell’ambito del diverso rapporto giuridico che lega il predetto soggetto erogatore al danneggiato.
Con riguardo, invece, all’ipotetico (e già prospettato nell’ambito dell’analisi delle argomentazioni del Consiglio di Stato n.1/2018), terzo rapporto giuridico tra soggetto erogatore dell’indennizzo – danneggiante/debitore, il primo potrà eventualmente agire nei confronti del secondo per il recupero delle spese.
Su tali basi, è stato ritenuto che: <<l’importo della rendita per inabilità permanente corrisposta dall’Inail per l’infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito>>.
Passando al secondo quesito, il caso di specie richiede di considerare che al danneggiato da un sinistro spettano, riesumando la tesi dell’esistenza del duplice rapporto bilaterale, da un lato, l’indennizzo da parte dell’assicuratore, dall’altro il risarcimento che l’autore della condotta illecita dovrà corrispondere. Adottando il medesimo percorso argomentativo prospettato per la soluzione del primo quesito, evidenzia come la preferenza per la tesi del non-cumulo nell’ipotesi in cui si verta in tema di indennizzo discendente da contratto di assicurazione, emerga, in realtà, dalle stesse norme del codice.
Infatti, nel caso in cui il locatore è assicurato avverso il rischio di incendio, il conduttore, ai sensi dell’art. 1589 comma primo, è responsabile nei confronti del locatore <<nei limiti [della] differenza tra indennizzo corrisposto dall’assicuratore ed il danno effettivo>>. Pertanto, anche in tale contesto, è apparso opportuno ritenere che <<il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto>>.
Passando al terzo quesito, il caso pone, ancora una volta, all’attenzione di chi legge un duplice rapporto bilaterale: familiari che soffrono (un danno patrimoniale) per la perdita del congiunto – autore dell’illecito/evento morte, da un lato, familiari che soffrono – ente (ex lege) erogatore della pensione di reversibilità, funzionale ad assicurare un trattamento economico alla morte del titolare della posizione previdenziale, dall’altro.
Ricordando le argomentazioni poste a sostegno del primo quesito (riprese anche per la soluzione del secondo), inerenti la necessità, ai fini dello “scomputo”, che il beneficio, anche se mediato, sia pur sempre funzionale a rimuovere gli effetti pregiudizievoli dell’illecito, occorre porre l’accento sulla circostanza secondo la quale la pensione di reversibilità non è connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito.
La pensione de qua viene erogata in ragione di un pregresso rapporto di lavoro e trova ragion d’essere nei contributi versati dalla persona che, poi, è deceduta. La pensione ha come presupposto la circostanza che vi siano stati i necessari versamenti e si ricollega all’evento morte in quanto tale. Non rileva che una condotta x abbia causato la morte della vittima, in quanto la stessa pensione sarebbe stata corrisposta nei medesimi termini anche in caso di morte naturale[30].
Pertanto, si è ritenuto che <<dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata all’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto>>.
Concludendo con il quarto quesito, il caso riguarda un neonato, sano nel periodo di gestazione, che subisce una grave forma di ipossia cerebrale a causa della ritardata esecuzione del parto cesareo. In questo contesto viene in rilievo un duplice rapporto bilaterale, rappresentato, da un lato, dal titolo di responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per la colpa di questo connessa all’atteggiamento negligente durante il parto, da cui discende l’obbligo di risarcire il danno subito dal minore. Dall’altro ci si riferisce alla relazione discendente dalla legislazione statale di assistenza sociale, la quale, attraverso l’indennità di accompagnamento erogata dall’Inps, assicura al minore <<una forma di sostegno e di sussidio anche quando l’invalidità dipenda dalla responsabilità dei terzi>>.
La Corte, con tali premesse, chiarisce che la percezione del beneficio dell’indennità di accompagnamento, essendo rivolta alla medesima copertura degli oneri di assistenza provocati dal fatto illecito del terzo, assume <<valenza di anticipo>> della somma che potrà essere ottenuta dal terzo a titolo di risarcimento del danno. La stessa previsione dell’azione L. n. 183 del 2010, ex art. 41, diretta a consentire all’istituto pubblico erogatore di recuperare dal terzo responsabile quanto corrisposto al proprio assistito, impedisce il cumulo, per lo stesso danno, della somma già riscossa a titolo di beneficio assistenziale con l’intero importo del risarcimento.
Su tali basi, la Suprema Corte ha stabilito che : <<dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, è consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrasi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’Inps in conseguenza di quel fatto>>.
Conclusioni
Alla luce dell’esame delle recenti pronunce, si può ritenere abbastanza pacifico che:
- Nell’ambito del rapporto giuridico esistente tra danneggiato e stesso soggetto chiamato a corrispondere sia indennizzo sia risarcimento, il cumulo non può trovare applicazione poiché si rischierebbe da un lato, di condannare lo stesso individuo al ristoro di un quid pluris rispetto al “mero” danno conseguenza. Dall’altro e conseguentemente, di snaturare la funzione che è propria del sistema civilistico di responsabilità, attribuendo (il)legittimamente al danneggiato un risarcimento “affetto da duplicazione” ;
- Parimenti il cumulo dovrebbe essere evitato ogniqualvolta, mediante i principi della regolarità causale, si possa sostenere che un determinato vantaggio sia normale conseguenza (secondo l’id quod plerumque accidit) della condotta illecita, o, comunque, in assenza di essa non avrebbe avuto ragion d’essere.
- L’utilizzo della attenuazione della regolarità causale e, conseguentemente, l’adesione alla tesi che preferisce una lettura simmetrica dell’art.1223 cc sia nel momento della quantificazione del danno in contesti privi di vantaggio, sia nella quantificazione del vantaggio da valutare in sede di quantificazione del danno, non deve comunque in alcun caso condurre a soppesare “qualunque” vantaggio indiretto, ma deve trovare un argine nella funzione primaria del predetto vantaggio. Occorre, dunque, che il beneficio abbia pur sempre funzione di copertura esattamente del pregiudizio subito.
NOTE
[1] Paolo Cendon, Commentario al codice civile, artt. 1173- 1320, Giuffrè, pp. 798 e ss.: <<la Cassazione ha ribadito che il principio desumibile dall’art. 1221 cc … si fonda su una inferenza di tipo ipotetico/differenziale tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente realizzatasi …>>.
[2] Ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 15534 del 2017 in www.cortedicassazione.it.
[3] La predetta teoria, tuttavia, si è esposta ad alcune considerazioni critiche. Infatti, l’assenza di una regola generale rischierebbe di lasciare eccessivo margine di discrezionalità applicativa, dal momento che, una volta prospettata al giudice la possibile esistenza di vantaggi riconducibili ad un illecito, l’organo giudicante si troverebbe privato di una guida alla quale aggrapparsi per dirimere la questione.
[4] Occorre precisare che, in verità, le ordinanze di rimessione sono state quattro, con identici passaggi motivazionali e, ad esse, hanno fatto seguito quattro distinte pronunce delle Sezioni Unite. Il quesito posto è, tuttavia, a conti fatti, di carattere generale. Pertanto si è ritenuto opportuno soffermare l’attenzione esclusivamente sulla prima ordinanza. Nel § 3 verranno invece esaminate le soluzioni offerte dalle SSUU nn. 12564, 12565, 12566 ed 12567 del 22 maggio 2018.
[5] Così Mariangela Ferrari, I nuovi confini della “compensatio lucri cum damno”, il diritto degli affari.it, 26 luglio 2014.
[6] L’art. 1243 cc, al comma primo, recita infatti che <<la compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili>>.Sul punto si veda Julian Daniel, La compensatio lucri cum damno, scritto del 30.12.2012.
[7] Caso Vajont, sentenza Corte di cass., n. 5650 del 1996. Il caso è riportato da Mariangela Ferrari, op. cit.
[8] Corte di cassazione, SSUU, n. 584 del 2008.
[9] In tale peculiare ipotesi il danno venne richiesto iure hereditatis e non iure proprio.
[10] Il principio è stato considerato come criterio assodato dalle sentenze gemelle del 2018, nn. 12564, 12565, 12566 del 2018, in www.cortedicassazione.it.
[11] Corte di cassazione n. 13537 del 2014, in www.italgiure.giustizia.it . La Corte, tuttavia, in questa pronuncia concludeva, sia pure con un particolare percorso argomentativo, per la necessità di tener conto del vantaggio della pensione nella quantificazione del danno, diversamente, come si vedrà nel §3, rispetto a quanto indicato nella Sezioni Unite del 2018, la quale si è nuovamente espressa sul tema pervenendo a diversa soluzione.
[12] Si veda sul punto anche §1.
[13] Sul tema, si veda anche, Corte di cass., Sez. III, n. 12103 del 2000.
[14] Corte di cass. n. 13537 del 2014, cit. Il passaggio motivazionale è anche ricordato da Elena Guerri, Percezione di emolumenti assicurativi/previdenziali e liquidazione del danno: è applicabile l’istituto della cd. compensatio lucri cum damno? La soluzione adottata dalla sentenza della Corte di Cassazione n°13537/2014, in Diritto&Diritti- ISSN. 1127-8579, 26/03/2015.
[15]Cassazione, Sezione III, 4 Luglio 2006, n. 15274, in Codice Civile e leggi complementari, diretto da Guido Alpa-Roberto Garofoli, 2016, nel diritto editore. Nelle sentenze precedenti si leggeva che : “il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo” (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 16163 del 2001).
[16] Al riguardo, infatti, si è evidenziato come si debba ammettere il concorso di altro fattore umano o giuridico che, assieme all’illecito, genera perdita e guadagno. <<Pertanto, allorquando il fatto di danno sia anche coelemento di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza indennitaria a favore del danneggiato, pure siffatta provvidenza…rappresenta effetto giuridico immediato e diretto della condotta che quel danno ha provocato…secondo un processo di regolarità causale>>. Così, Cass., SSUU, n. 12565 del 2018, in www.cortedicassazione.it.
[17] Ci si riferisce, in questo caso, alla già, a più riprese, citata sent. n. 13537 del 2014.
[18] Consiglio di Stato, sez. Appello, 23 febbraio 2018, n.1. Sul tema, sia pure incidentalmente si è espresso anche il Consiglio di Stato, sez. III, del 24 maggio 2018, n. 3132.
[19] La ratio della non detraibilità veniva dal ricorrente individuata nella circostanza secondo la quale l’equo indennizzo avrebbe natura previdenziale mentre, per contro, il risarcimento sarebbe dovuto al fine di garantire il ripristino del danno subito.
[20] Tale rapporto postula sempre e comunque che sussista coincidenza tra uno dei soggetti obbligati e l’autore dell’illecito (salvo considerare situazioni di incapacità che implicherebbero l’individuazione di forme di responsabilità speciali, volendo considerare esclusivamente il terreno extracontrattuale).
[21] Si ricorda, sul punto, il § 2.1.
[22] Dovendosi inquadrare l’illecito in questione nell’ambito contrattuale, che non preclude, alla presenza delle condizioni stabilite dalle storiche Sezioni Unite del 2008 n. 26972, la configurabilità di danni non patrimoniali aventi fonte contrattuale.
[23] Tale affermazione, tuttavia, omette di considerare che, per sua stessa ammissione il Consiglio di Stato si è espresso chiaramente in termini di non- autonomia della compensatio solamente in relazione al primo ed al secondo tipo di rapporto di giuridici (volendo mantenere la sopra evidenziata tripartizione di ipotesi di rapporti giuridici. Non si è, dunque, espresso in relazione al nucleo di casi in cui si può ravvisare duplicità di rapporti giuridici bilaterali, riguardo ai quali, invece, sono state chiamate a pronunciarsi le sentenze gemelle.
[24] Corte di Cass, SSUU, n. 12566 del 2018, Rel. Giusti, in www.cortedicassazione.it.
[25] Corte di Cass., SSUU, n. 12565 del 2018, Rel. Giusti, in www.cortedicassazione.it.
[26] Corte di cass., SSUU, n. 12564 del 2018, rel. Giusti, in www.cortedicassazione.it.
[27] Corte di cass., SSUU, n. 12567 del 2018, rel. Giusti.
[28] Il tema, in parte, può dirsi richiamare, sia pure con premesse diverse, le questioni penalistiche inerenti l’incidenza causale della volontaria esposizione al rischio della vittima.
[29] Ed, in questo caso, ritorna il requisito della omogeneità delle poste compensative, letto, questa volta, non come identità civilistica (implicante, quasi sempre, identità di titolo) ma come omogeneità del pregiudizio da ristorare.
[30] Sul tema, si rammenta che la sentenza n. 13537 del 2014 aveva espresso diverse considerazioni. In un passaggio motivazionale delle predetta sentenza, si leggeva infatti che : <<se la pensione di reversibilità ha lo scopo di sollevare i familiari dallo stato di bisogno causato dalla scomparsa della persona che all’interno del nucleo familiare produceva un reddito destinato alla famiglia, deve concludersi che il percettore della suddetta pensione non patisce alcun danno patrimoniale per effetto della morte del congiunto, fino all’ammontare del valore capitale della pensione stessa. Il danno patrimoniale consiste infatti nella differenza tra le utilità godute dal danneggiato prima dell’evento dannoso e quelle godute dopo. Sicché, ove nel caso di specie non si tenesse conto, nella liquidazione del danno patrimoniale, delle utilità già percepite dalla danneggiata e finalizzate ad attenuare le conseguenze patrimoniali del decesso, si perverrebbe alla assurda conseguenza che il patrimonio complessivo del nucleo familiare della vittima sarebbe paradossalmente accresciuto in conseguenza del decesso>>.
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