Uno dei temi più controversi dell’intero diritto commerciale riguarda i contratti di trasferimento e di cessione dell’azienda, nel senso che sulla natura giuridica dell’azienda, sull’estensione del concetto di azienda, come pure sulla natura dei contratti di trasferimento o di concessione in godimento dell’azienda sono sorte e perdurano tuttora controversie assai rilevanti tra i nostri studiosi.
Prima di affrontare tali questioni è opportuno fare un breve richiamo ai suoi fondamenti: per impresa si intende l’attività, cioè il complesso di atti coordinati, per imprenditore il soggetto che svolge l’attività e per azienda si intende il complesso dei beni utilizzati dall’imprenditore per l’esercizio della sua impresa.
Come già annunciato, sulla natura giuridica di questo complesso e sull’individuazione dei beni che vi appartengono non vi è nella nostra dottrina una posizione unanime, ma neppure una posizione dominante.
L’art. 2555 c.c. che ci dà la nozione di azienda ha risolto un primo problema che può sembrare assolutamente scontato, ma che non lo era affatto prima dell’entrata in vigore del codice civile, cioè l’azienda come complesso di beni appartiene alla categoria degli oggetti di diritto. Quest’affermazione che può suonare assolutamente lapalissiana, rappresenta invece il risultato di un dibattito emerso nella dottrina, non solo italiana, ma anche di altri paesi europei, nel secolo scorso e nella prima metà di questo secolo.
In particolare, in Germania (e non mi consta nessuna adesione nella nostra dottrina) l’azienda era stata ricondotta da taluni autori alla categoria dei soggetti di diritto.
In Italia, prima dell’entrata in vigore del codice, l’azienda era stata qualificata, facendo leva sulla rete di rapporti giuridici, ossia sui rapporti che intercorrono tra i diversi collaboratori dell’azienda e l’imprenditore, tra quest’ultimo e i finanziatori, come negozio giuridico.
Dopo l’entrata in vigore del codice poi, altri autori hanno definito l’azienda come una situazione possessoria.
Sono tesi queste su cui è bene non soffermarsi, perché alcune sono ormai assolutamente abbandonate, altre come quest’ultima, dell’azienda quale situazione possessoria specifica (così qualificata dal Ravà), sono tesi isolate ed è invece preferibile dedicarci all’analisi degli orientamenti prevalenti nella nostra dottrina e giurisprudenza al giorno d’oggi.
L’azienda, che, ripeto, appartiene alla categoria degli oggetti di diritto, è stata dai nostri interpreti ricondotta a tutte le sottocategorie di beni: è stata qualificata ad esempio come cosa composta (tesi del Barbero), come bene mobile registrato, come bene mobile non registrato, come universalità di fatto, come universalità di diritto, come bene immateriale e infine come somma di beni non riducibile ad unità. L’unica tesi non emersa è dunque quella che considera l’azienda come un bene immobile.
Date tutte queste interpretazioni, risulta piuttosto difficile orientarsi. Lasciamo da parte la teoria dell’azienda come cosa composta e soffermiamoci invece sulle altre tesi che sono in qualche modo riconducibili a due filoni contrapposti: quello che va sotto il nome delle teorie unitarie e quello della teoria atomistica dell’azienda.
Secondo la teoria unitaria, l’azienda costituirebbe un bene unitario, distinto dai singoli beni che la compongono e su cui l’imprenditore, il titolare dell’azienda, vanterebbe un diritto, normalmente qualificato come proprietà, distinto dai diritti che lo stesso vanta sui singoli beni dell’azienda.
Secondo la teoria atomistica, l’azienda non sarebbe riducibile ad unità, ma sarebbe descrivibile e definibile esclusivamente come complesso di beni, il titolare dell’azienda dunque non vanterebbe nient’altro se non i singoli diritti sui singoli beni dell’azienda.
La tesi che qualifica l’azienda come bene immateriale, quella che la qualifica come bene mobile registrato o non registrato, parzialmente quella che la qualifica come una universitas fanno parte del filone delle teorie unitarie.
Secondo la teoria sostenuta da Ferrara nella sua monografia – Teoria giuridica dell’azienda -, che costituisce uno degli studi più importanti in materia di azienda, e condivisa anche dal Valeri, l’azienda consisterebbe in un bene immateriale che sarebbe rappresentato dall’organizzazione. Questa tesi fa emergere dal complesso dei beni quello che ne è l’elemento coagulante, l’organizzazione appunto, e ritiene di poterla configurare quale oggetto di un diritto assoluto spettante al titolare dell’azienda, diritto distinto che si affiancherebbe al diritto sui singoli beni che compongono l’azienda.
Questa tesi è stata criticata dalla dottrina dominante sulla base di una serie di argomentazioni delle quali le più importanti sono le seguenti:
l’organizzazione non ha esistenza autonoma rispetto ai beni che la compongono e dunque non può costituire oggetto di diritti distintamente, separatamente dai beni stessi. Così come le varie parti che compongono un’automobile perdono la loro natura di cose per divenire esclusivamente elementi della cosa composta ed il proprietario dell’automobile non vanta un diritto di proprietà sulla stessa più un diritto di proprietà su ciascuna delle parti che la compongono, ma solo un diritto di proprietà sull’auto, così l’organizzazione non ha vita autonoma e distinta rispetto a quella dei singoli beni che compongono l’azienda e l’imprenditore, il titolare della stessa, avrà un diritto sul complesso dei beni che compongono l’azienda. Si potrà semmai discutere se questo diritto abbia ad oggetto i singoli beni separatamente o il complesso assurto ad unità.
Al titolare di questo bene immateriale non verrebbe data la medesima tutela che viene assicurata invece al titolare degli altri beni immateriali, cioè quel diritto all’esclusivo uso del bene; in altri termini chiunque potrebbe riprodurre le modalità organizzative con cui è strutturato il complesso aziendale, salva l’ipotesi che questo costituisca un atto di concorrenza sleale.
All’interno di questi due filoni contrapposti (teoria unitaria – teoria atomistica) vi sono peraltro delle spiccate diversità. In particolare all’interno del filone delle teorie che configurano l’azienda come universitas, l’azienda viene qualificata da taluni come universalità di fatto, e questa è la tesi prevalente, da altri, come universalità di diritto. Questa differenza non è meramente terminologica, ma investe ulteriori problemi: chi qualifica l’azienda come universalità di diritto tende a ricomprendere nel concetto di azienda tutti i rapporti giuridici che fanno capo all’attività di impresa, ad esempio crediti e debiti; chi parla invece dell’azienda come universalità di fatto tende a ricomprendere nell’azienda esclusivamente le cose, i beni in senso stretto. La giurisprudenza è a volte generica nel senso che qualifica l’azienda semplicemente come universalità, senza scendere nel dettaglio, a volte è invece più precisa, ma non concorde, si segnala al proposito la sentenza della Cassazione n. 4274 del 1992 che qualifica l’azienda come universitas rerum e la sentenza della Cassazione n. 8219 del 1990 che invece la qualifica come universitas iuris.
Su questo problema della qualificazione dell’azienda si innesta l’altro problema, ossia se esista o meno un diritto unitario sull’azienda.
Chi qualifica l’azienda come bene immateriale ritiene che esista un diritto assoluto sull’azienda stessa; chi qualifica l’azienda come cosa composta ritiene sussista un diritto di proprietà sull’azienda, distinto dai diritti sui singoli beni; chi qualifica l’azienda come universalità tende a riconoscere l’esistenza di un diritto di proprietà sull’azienda. E’ controverso però se l’universalità costituisca oggetto di diritti in sé oppure no. Tra coloro che parlano dell’azienda come universalità infatti, alcuni la considerano oggetto di un diritto di proprietà distinto dai diritti sui singoli beni, altri ritengono che essa non attribuisca al suo titolare un diritto di proprietà distinto dai diritti sui singoli beni.
I due problemi sono strettamente collegati, ma non si sovrappongono perfettamente fra di loro dando luogo ad una serie di varianti teoriche sostanzialmente infinita.
A mio avviso l’azienda non può essere considerata un bene unitario e non si può parlare di diritto di proprietà o diritto assoluto sui generis sull’azienda stessa.
In altri termini, il titolare dell’azienda è titolare di una serie di posizioni giuridiche che gli attribuiscono il godimento dei singoli beni che compongono il complesso, le quali ineriscono ai diritti sugli stessi beni, nessun’altra posizione di potere o di facoltà sembra invece spettare al titolare dell’azienda che non sia riconducibile a tali diritti, non vi è dunque contenuto per questo preteso diritto unitario sull’azienda.
Quest’argomentazione viene fatta valere anche da coloro che negano che in generale l’universitas costituisca bene unico e distinto dai singoli componenti dell’universalità. Tali autori, infatti, ritengono che parlare, ad esempio, di un diritto di proprietà su una biblioteca nel suo complesso, distinto dai diritti di proprietà sui singoli libri, rappresenterebbe null’altro che una superfetazione, perché questo diritto di proprietà sul complesso non avrebbe contenuto autonomo, in quanto tutte le posizioni di potere e di facoltà che spettano al proprietario della biblioteca sono riconducibili ai diritti di proprietà sui singoli volumi. Il contenuto del diritto di proprietà sul complesso è pertanto assolutamente vacuo.
Cartina di tornasole, per giungere a questa conclusione, mi sembra possa essere il problema dell’usucapibilità dell’azienda nel senso che, chi qualifica l’azienda come bene unitario ritiene che essa sia usucapibile; chi qualifica l’azienda come bene mobile non registrato immagina l’applicazione dell’art. 1153; chi qualifica l’azienda come bene mobile registrato applica la relativa disciplina; chi parla dell’azienda come universalità ritiene che essa possa essere usucapita con le regole dell’usucapione delle universalità di beni mobili disciplinato dal codice civile.
Ebbene tutti questi autori che ritengono usucapibile l’azienda in quanto tale riconoscono che l’usucapione dei singoli beni segue le regole relative al singolo bene da usucapire. Anche chi (si tratta del Mengoni, che successivamente muta posizione) aveva ritenuto applicabile l’art. 1153 c.c., aveva sì affermato che il diritto di proprietà sull’azienda come tale fosse acquisibile istantaneamente, ma aveva precisato che l’usucapione dei singoli beni componenti l’azienda doveva seguire le rispettive regole.
Ne emerge l’assoluta inesistenza di questo preteso diritto di proprietà sull’azienda, con la conseguenza che, in caso contrario, ci si troverebbe nella situazione in cui un soggetto ha usucapito l’azienda come tale, ma non ha usucapito alcuno dei beni del complesso aziendale ed è quindi soggetto per ciascuno di essi a rivendicazione da parte del legittimo proprietario. Una volta privato di ciascuno dei beni del complesso aziendale, rivendicati dai legittimi proprietari ancora tali, quel che rimane al soggetto è l’azienda, cioè “niente”.
Si può dunque affermare che l’azienda si risolve nel complesso dei beni e che la titolarità, la proprietà dell’azienda, di cui parla il nostro legislatore negli artt. 2555 c.c. e seguenti, non è altro che la titolarità delle diverse situazioni giuridiche che spettano al titolare dell’azienda su ciascuno dei beni. Il titolare dell’azienda è dunque il titolare di una pluralità di situazioni giuridiche, ciascuna avente ad oggetto uno dei beni aziendali, e non è invece titolare di un diritto assoluto sul complesso che a queste situazioni giuridiche si affianca.
Ciò posto, possiamo procedere oltre e passare al secondo problema che consiste nell’individuazione degli elementi che compongono l’azienda, cioè cosa si debba intendere per beni del complesso aziendale. Secondo una tesi, che può essere definita omnicomprensiva, all’azienda appartengono tutti i beni, materiali e immateriali, e tutti i rapporti giuridici inerenti all’attività d’impresa.
Questa teoria che, in buona sostanza, fa rientrare nel concetto di azienda anche i contratti, crediti e debiti della cui disciplina si occupano gli artt. 2558 c.c. e seguenti, è stata sostenuta dal Messineo e talvolta anche in giurisprudenza, si segnalano in proposito due sentenze della Cassazione n. 8219 del 1990 – già citata – e n. 360 del 1987.
Prevalente è invece l’orientamento più restrittivo, secondo cui non appartengono al concetto di azienda i rapporti obbligatori in generale, cioè i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa. Peraltro, all’interno di questo orientamento dobbiamo distinguere tra coloro che ritengono appartenere all’azienda tanto i beni quanto i cosiddetti servizi, cioè le prestazioni dei collaboratori, dall’orientamento ancor più restrittivo, che ritiene appartenere all’azienda esclusivamente i beni materiali e immateriali che compongono il complesso.
Questo problema dell’estensione del concetto di azienda è di rilevanza teorica, ma ha ripercussioni pratiche, perché, ad esempio, chi muove dalle teorie omnicomprensive dovrà ritenere, per coerenza, che all’acquirente si trasferiscano tutti i rapporti giuridici inerenti all’esercizio dell’impresa e quindi ad esempio anche i debiti.
L’art. 2560 dispone che l’acquirente dell’azienda risponde in solido con l’alienante di determinati debiti. E’ controverso se questa norma disponga esclusivamente la responsabilità dell’acquirente nei confronti dei debitori o se sancisca anche un trasferimento del debito nei rapporti interni.
Ritornando al problema iniziale, ci si chiede: quando si ha azienda? L’azienda richiede che i beni siano organizzati e che consentano l’esercizio di un’impresa. L’esistenza di un’azienda non esige però che il complesso sia in attività, può quindi qualificarsi come azienda anche un complesso temporaneamente inattivo o il complesso che non abbia mai iniziato l’attività, quel che è necessario è che il complesso sia idoneo a servire per l’esercizio di un’impresa. Il complesso perde la qualità di azienda soltanto quando perde quest’idoneità a servire per l’esercizio di un’impresa, quando viene disgregato in modo tale da non essere più utilizzabile a tal fine.
Si ritiene inoltre che possa essere considerato azienda anche il complesso mancante di alcuni beni. Sotto questo profilo, sia in dottrina che in giurisprudenza, si è detto che è possibile parlare di azienda anche se la formazione del complesso non è ancora completata purché il programma formativo risulti già delineato (tesi del Martorano). Non si avrebbe invece azienda se le scelte ancora da compiere fossero tali da poter incidere sulla struttura organizzativa aziendale.
Elemento fondamentale per la qualificazione di azienda è che il complesso costituisca uno strumento che consente di esercitare un’attività d’impresa delineata nel suo ambito di operatività. Questo punto è rilevante per la qualificazione dei negozi traslativi di un complesso di beni, in quanto la possibilità di qualificare l’oggetto del contratto come azienda renderebbe applicabile la disciplina degli artt. 2556 c.c. e seguenti, l’impossibilità invece di riscontrare nel caso concreto un’azienda renderebbe questa disciplina inapplicabile.
Il concetto di azienda viene ritenuto applicabile tanto alle imprese commerciali, quanto alle imprese agricole ed alle piccole imprese.
La giurisprudenza ha ritenuto non qualificabile come azienda il complesso dei beni organizzati dal professionista per l’esercizio della propria professione intellettuale, si segnala in merito la sentenza della Cassazione n. 899 del 1979.
Un ultimo punto riguardo al concetto di azienda inerisce al concetto di avviamento, che da taluni viene definito quale attitudine dell’azienda a creare nuova ricchezza, da altri come attitudine a produrre un reddito. Secondo la Cassazione (sentenza n. 8470 del 1995) l’avviamento è quell’attitudine che consente al complesso di conseguire risultati economici diversi e maggiori rispetto a quelli ottenibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli elementi che lo compongono.
Secondo l’opinione assolutamente dominante, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, l’avviamento non è un bene, ma una qualità dell’azienda. In tal senso Martorano e Galgano tra i tanti in dottrina e due sentenze della Cassazione n. 12575 del 1995 e n. 3775 del 1994.
Alcuni si sono domandati se la semplice redazione di un business-plan possa essere già considerata attività sufficiente ad individuare un’azienda.
Certo è che l’azienda richiede l’esistenza di un complesso di beni che consentano l’esercizio di un’attività in un determinato ambito concreto di clientela, fornitori ecc. Si deve avere un complesso di beni che siano sufficienti a raggiungere tal scopo, alcuni beni possono anche mancare purché ci sia un minimo tale da far pensare che l’apporto dei beni mancanti costituisce integrazione del complesso e non creazione ex novo del medesimo.
Sicuramente, in fase di formazione la questione è più complessa e né in dottrina né in giurisprudenza sono emersi elementi che consentano di dare a tale quesito una risposta esaustiva.
Per quanto riguarda i contratti di trasferimento di azienda e dei contratti di concessione in godimento dell’azienda è opportuno compiere innanzitutto una premessa, per chi ritiene che l’azienda costituisca un bene unitario, trasferire la stessa vorrà dire trasferire il diritto su di essa e i diritti sui singoli beni aziendali; per chi, come a me sembra preferibile, ritiene che l’azienda non costituisca un bene unitario, trasferimento della stessa significa trasferimento delle posizioni giuridiche che l’alienante vanta sui singoli beni aziendali.
Per inciso, è evidente che non necessariamente il titolare dell’azienda deve essere proprietario di tutti i beni che compongono l’azienda, può essere proprietario di alcuni beni e vantare su altri un diritto di godimento in forza di un contratto di locazione o ancora può avere un diritto reale di usufrutto. Se si considera la tesi secondo cui all’azienda appartengono oltre ai beni anche i servizi, cioè le prestazioni collaborative, è chiaro che il titolare dell’azienda non avrà alcun diritto di proprietà, né diritto personale o reale di godimento su di essi, ma avrà un diritto di credito al ricevimento della prestazione collaborativa.
Trasferimento dell’azienda significa trasferimento di queste posizioni giuridiche e quindi trasferimento dei beni, nella situazione giuridica in cui ciascuno di essi si trova, in capo all’alienante.
Il punto delicato riguarda la qualificazione dei negozi di trasferimento di azienda e dei contratti di concessione in godimento di azienda perché vi sono due orientamenti dottrinali ed un ambiguo orientamento giurisprudenziale.
La dottrina prevalentemente ritiene, che ai fini della qualificazione di un contratto come contratto di trasferimento di azienda, con conseguente operatività della disciplina degli artt. 2556 c.c. e seguenti, occorre fare riferimento ad un criterio assolutamente oggettivo, cioè occorre avere riguardo all’oggettiva consistenza dei beni. Se i beni costituiscono oggettivamente un’azienda siamo in presenza di un contratto traslativo della stessa, se i beni non costituiscono un’azienda siamo al di fuori di questa figura contrattuale.
Altri autori, ma si tratta di un’opinione minoritaria, peraltro condivisibile, fanno invece riferimento ad un criterio soggettivo nel senso che accentuano, al fine della qualificazione, il profilo della considerazione fatta dai contraenti in relazione ai beni trasferiti come complesso funzionale in vista della prosecuzione dell’attività da parte dell’acquirente.
La giurisprudenza adotta, soprattutto con riguardo al problema della distinzione tra il contratto di affitto d’azienda e il contratto di locazione d’immobile con pertinenze, un criterio molto ambiguo, affermando che la qualificazione del contratto deve avere riguardo da un lato alla comune intenzione delle parti, dall’altro all’effettiva consistenza dei beni oggetto del contratto.
La dottrina dominante, che afferma la rilevanza del criterio della consistenza oggettiva dei beni, critica l’opinione minoritaria sostenendo che, se si avesse riguardo all’intenzione delle parti, si arriverebbe a subordinare alla volontà delle stesse l’applicazione di norme quali l’articolo 2112 c.c. e 2560 c.c. che sono posti a tutela dei terzi.
Peraltro, anche la dottrina prevalente dà in parte rilievo all’intenzione delle parti nel senso che, qualora esse avessero fatto oggetto del loro contratto un complesso di beni obiettivamente costituenti un’azienda, ma non considerato tale dalle stesse, sarebbero applicabili le norme poste a tutela dei terzi, mentre non verrebbero applicate le norme poste a tutela esclusivamente dei contraenti quale ad esempio l’art. 2557 c.c. che riguarda il divieto di concorrenza a carico dell’alienante.
L’intera disciplina del trasferimento d’azienda (il divieto di concorrenza, la sorte dei contratti dell’impresa ecc.) lascia emergere una valutazione legislativa di questa figura contrattuale come fattispecie posta in essere per l’immissione dell’acquirente nell’ambito di attività a cui è strumentale l’azienda trasferita. Se si esclude la qualificabilità quale fattispecie traslativa dell’azienda di un negozio che trasferisce un complesso obiettivamente costituente un’azienda, ma che è stato voluto dalle parti per scopi diversi da questo (immissione dell’acquirente nell’ambito di attività a cui è strumentale l’azienda trasferita) si finirebbe con il mettere nelle mani delle parti l’applicazione di norme poste a tutela dei terzi. Se, ad esempio, l’azienda costituisce l’elemento più rilevante del patrimonio dell’alienante, è giusto non far perdere al creditore la garanzia che sul complesso aziendale, prima del trasferimento, egli poteva vantare per il soddisfacimento del suo credito.
A questa tesi, a me sembra si possa replicare nel modo seguente: normalmente a fronte della dismissione del complesso aziendale l’alienante riceve una somma di denaro di corrispondente valore, inoltre il creditore trae dal trasferimento dell’azienda un grosso vantaggio, in quanto si ritrova ad avere due debitori e una garanzia generica moltiplicata. Non pare dunque che la norma sia posta a tutela del creditore, inoltre sembra strano che il nostro legislatore si sia preoccupato di tutelare il creditore in caso di dismissione del complesso aziendale e non in caso di disgregazione del complesso e alienazione delle varie parti del complesso a diversi acquirenti.
E’ invece probabile che la norma abbia un’altra ragion d’essere, perché il trasferimento dell’azienda è seguito normalmente dall’esercizio della stessa da parte dell’acquirente.
Considerando l’art. 2560 c.c. in connessione con gli artt. 2557, 2558 e 2559 c.c. è chiaro che il legislatore ha voluto che l’acquirente proseguisse l’attività dell’alienante e quindi che il contratto di trasferimento d’azienda sia quel contratto stipulato dalle parti per immettere l’acquirente nell’ambito dell’attività a cui si riferisce l’azienda. Secondo quest’opinione non potrebbe essere considerato contratto di trasferimento d’azienda, ad esempio, quello a cui accedesse un patto in virtù del quale l’acquirente si impegna a non esercitare l’azienda. Secondo l’opinione dottrinale dominante invece, avendo ad oggetto un complesso obiettivamente costituente azienda, il contratto a cui accedesse tale clausola sarebbe qualificabile come contratto di trasferimento di azienda.
Con questa considerazione si può anche risolvere un altro problema che è emerso in giurisprudenza: possono essere esclusi dal trasferimento alcuni beni appartenenti al complesso? Il problema non è se sia valida o invalida una clausola che escluda dal trasferimento determinati beni, il problema è se questa operazione traslativa di un complesso a cui mancano dei beni sia qualificabile come trasferimento dell’azienda. Come già detto, si ritiene che sia qualificabile come trasferimento di azienda quel trasferimento del complesso a cui siano stati sottratti determinati beni, purché si tratti di beni non indispensabili all’esercizio dell’azienda e l’essenzialità venga valutata con riferimento a ciò che rimane, che deve essere un complesso che consente all’acquirente, sia pure con qualche integrazione, di essere immesso nell’ambito di attività a cui l’azienda si riferisce e di proseguire l’attività di impresa eventualmente iniziata dall’alienante.
In quest’ottica, è stato ritenuto giustamente non costituire trasferimento d’azienda l’acquisto in blocco dei beni mobili e delle merci di un negozio situato in un caseggiato destinato ad essere demolito e utilizzabili per aprire un altro negozio a molta distanza da quello precedente. Perché il trasferimento di questo complesso non può essere qualificato come trasferimento d’azienda? Perché nella fattispecie, essendo il caseggiato da demolire ed essendo i beni utilizzabili solo in un locale posto a molta distanza, l’acquirente non può essere immesso nell’ambito di attività a cui si riferiva l’azienda prima del trasferimento di questo complesso, intendendo appunto come ambito di attività non il settore merceologico, ma il settore di mercato concreto individuato dalla clientela, dai fornitori, ecc. È questa la tesi del Casanova il quale ritiene che l’essenzialità del caseggiato non trasferito va valutata non tanto in sé, nel fatto che il valore del caseggiato rispetto agli altri beni è superiore, ma va valutata considerando che il non trasferimento del caseggiato impedisce all’acquirente di immettersi nell’ambito di attività a cui l’azienda si riferiva. Probabilmente se ci trovassimo in presenza di un trasferimento dei beni mobili e delle merci di un negozio che l’acquirente può aprire in un caseggiato di fianco, saremmo in presenza di un trasferimento di azienda, pur se al complesso aziendale venisse sottratto il locale in cui l’azienda precedentemente veniva esercitata, perché vi sarebbe sì un’integrazione del complesso, ma permarrebbe la possibilità per l’acquirente di essere immesso nell’ambito di attività a cui l’azienda stessa si riferiva e a cui si può tuttora riferire. Ci si potrebbe domandare se sarebbe possibile nel caso di azienda considerata come bene immateriale.
Il principale argomento addotto per contestare la tesi del Ferrara, dell’azienda come bene immateriale è che l’azienda quale organizzazione non ha vita autonoma rispetto ai singoli beni che compongono il complesso aziendale, non può costituire oggetto di diritti distintamente, separatamente da essi, pertanto il trasferimento dell’azienda non è semplicemente trasferimento dell’idea organizzativa, ma è trasferimento di essa e dei singoli beni.
Per ciò che concerne la forma del negozio traslativo dell’azienda, dall’art. 2556 c.c. si desume che i negozi aventi ad oggetto l’azienda sono a forma libera, salvo che una determinata forma sia richiesta da una particolare natura dei beni trasferiti o dal tipo di contratto, ad esempio qualora l’azienda fosse oggetto di donazione ovviamente occorrerebbe rispettare le forme richieste per questo tipo contrattuale, parimenti se all’azienda appartenesse un bene immobile di proprietà dell’alienante, per il trasferimento dell’azienda, concretizzandosi questo anche nel trasferimento della proprietà sull’immobile, occorrerebbe rispettare la forma scritta.
Può sorgere il dubbio tuttavia, se il requisito della forma scritta debba essere rispettato esclusivamente per quella parte di negozio relativo all’immobile oppure se l’intero negozio debba essere stipulato per iscritto e si pone l’ulteriore problema delle conseguenze dell’eventuale mancato rispetto della forma. In relazione al primo problema si può rispondere nel senso dell’improduttività da parte del negozio dell’effetto traslativo sul bene per il cui trasferimento era richiesta la forma che non è stata rispettata. Per ciò che attiene invece al problema delle conseguenze, il fatto che la restante parte del contratto rimanga valida o meno va risolto sulla base dei principi stabiliti in caso di nullità parziale del contratto.
L’art. 2556 c.c. richiede la forma scritta ad probationem per i contratti che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento di un’azienda relativa ad impresa soggetta a registrazione. Si è ritenuto che, anche dopo l’entrata in vigore della disciplina sul registro delle imprese, soggette a registrazione siano esclusivamente le imprese che dovevano essere registrate secondo il disegno originario del codice, quindi la forma scritta ad probationem deve essere rispettata soltanto per il trasferimento di aziende relative ad imprese commerciali medio grandi.
Il requisito di forma riguarda soltanto le parti e non i terzi, in questo senso ad esempio Cassazione n. 2518 del 1984.
Prima dell’attuazione del registro, ci si chiedeva cosa si dovesse intendere per impresa soggetta a registrazione, oggi abbiamo la risposta. Innanzitutto vanno iscritti nel registro delle imprese i trasferimenti di qualsiasi azienda essendo oggi imprese soggette a registrazione anche le imprese agricole e le piccole imprese. Va iscritto il trasferimento d’azienda inoltre anche se soltanto uno dei due contraenti è soggetto ad iscrizione nel registro delle imprese, così ad esempio, se viene trasferita un’azienda da un imprenditore ad un soggetto che imprenditore non è, il trasferimento va comunque iscritto nel registro delle imprese.
L’art. 11 comma X del regolamento n. 581 del 1995 disciplinante il registro delle imprese prevede che l’iscrizione avvenga nel registro dell’alienante, l’iscrizione sarà effettuata nel registro in cui è iscritto l’acquirente invece soltanto nel caso in cui solo quest’ultimo sia titolare di impresa soggetta a registrazione. Con l’indicazione peraltro nell’uno e nell’altro caso dei dati identificativi dell’altra parte.
Non si dovrà invece procedere ad iscrizione del trasferimento d’azienda nel registro delle imprese qualora nessuno dei due contraenti sia titolare di impresa soggetta a registrazione, in questo senso la dottrina dominante salva l’opinione sostenuta da Lacenni.
Problemi si pongono in relazione all’efficacia di questa iscrizione e all’opponibilità del trasferimento. Nell’ipotesi che tanto l’alienante quanto l’acquirente siano iscritti nella sezione ordinaria del registro, l’iscrizione avviene nel registro dell’alienante, ma entrambi i soggetti, quindi anche l’acquirente, possono avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2193, cioè potranno opporre al terzo il trasferimento una volta iscritto.
Se l’alienante è iscritto nella sezione ordinaria e l’acquirente è iscritto nella sezione speciale, sarà soltanto l’alienante a potersi giovare dell’iscrizione per opporre il trasferimento ai terzi, perché l’acquirente non appartiene a quella categoria di soggetti che possono avvalersi della efficacia dichiarativa dell’iscrizione.
Il problema più delicato sorge quando l’alienante è iscritto nella sezione speciale e l’acquirente nella sezione ordinaria poiché ex art. 11 comma X del regolamento citato l’iscrizione avviene nella sezione speciale in cui è iscritto l’alienante. In questo caso potrà l’acquirente giovarsi dell’iscrizione avvenuta nella sezione speciale per opporre il trasferimento al terzo? A tale quesito la dottrina risponde correggendo la dizione dell’art. 11 comma X, nel senso che, considerata l’impossibilità di giovarsi di un’iscrizione avvenuta nella sezione speciale, e d’altra parte riconosciuto il diritto dell’acquirente di giovarsi dell’efficacia dichiarativa delle iscrizioni dei fatti che lo riguardano, si afferma che in questo caso all’unica domanda di iscrizione del trasferimento dovrebbero seguire due iscrizioni: una nella sezione speciale in cui è iscritto l’alienante e una nella sezione ordinaria in cui è iscritto l’acquirente.
Nel caso in cui entrambi i soggetti siano iscritti nelle sezioni speciali, nessuno dei due potrà avvalersi degli effetti dell’art. 2193, cioè nessuno potrà opporre al terzo il trasferimento una volta iscritto, salvo il fatto che, dal maggio dello scorso anno, anche l’iscrizione nella sezione speciale dedicata all’imprenditore agricolo produce gli effetti di pubblicità dichiarativa previsti dall’art. 2193, quindi la sezione speciale dell’imprenditore agricolo si trova ad avere un ruolo, dal punto di vista degli effetti, uguale a quello dell’iscrizione nella sezione ordinaria.
La disciplina del codice, oltre che ai requisiti di forma ed al problema dell’iscrizione nel registro delle imprese, si occupa di alcuni effetti specifici del negozio di trasferimento dell’azienda, effetti naturali del contratto che possiamo raggruppare in due gruppi: uno riguarda il divieto di concorrenza a carico dell’alienante sancito dall’art. 2557 c.c., l’altro riguarda il trasferimento del cosiddetto patrimonio aziendale all’acquirente.
Per quanto riguarda il primo effetto, la ratio di questo divieto viene normalmente rinvenuta nella pericolosità della concorrenza che può essere esercitata dall’alienante rispetto alla concorrenza genericamente esercitabile da un qualsiasi terzo, in quanto l’alienante conosce l’azienda che ha trasferito, la sua struttura organizzativa, le modalità di funzionamento dell’esercizio dell’attività, la clientela e può avere capacità di attrazione della stessa.
Su questo punto la norma è ritenuta derogabile dalle parti senza alcun limite. Quest’opinione non sembra però del tutto condivisibile nel senso che, ammessa in linea di principio la derogabilità del divieto di concorrenza in capo all’alienante, trattandosi di tutelare l’interesse dell’acquirente, se la deroga si spingesse fino al punto di consentire all’alienante di iniziare un’attività di impresa immediatamente dopo aver trasferito l’azienda (che dunque verrebbe vista dai terzi come la prosecuzione dell’attività precedentemente esercitata, mentre l’attività dell’acquirente verrebbe ritenuta nuova attività) impedirebbe all’acquirente di immettersi nell’ambito di attività dell’azienda trasferita.
La presenza nel contratto di una clausola di deroga di questo tenore e di quest’ampiezza porterebbe ad escludere la qualificazione del negozio come trasferimento d’azienda.
Una clausola di questo tenore potrebbe venire in rilievo quando insieme all’azienda non fosse trasferita la ditta.
Diverso sarebbe se si consentisse all’alienante una qualche attività capace di sviare la clientela, ma non tanto da pregiudicare l’immissione dell’acquirente nell’ambito di attività a cui si riferiva l’azienda.
Sul punto del divieto di concorrenza va rilevato che, è opinione diffusa che, esso non si applichi alle attività dell’alienante preesistenti al trasferimento, né si applichi ad atti concorrenziali isolati e occasionali. Il problema del divieto è stato esaminato soprattutto con riferimento ad una serie di ipotesi in qualche modo vicine a quelle del trasferimento d’azienda e in relazione alle quali ci si è chiesti se operi o meno il divieto. Si è affermato ad esempio che la violazione del divieto si può avere tanto con l’inizio di una nuova impresa individuale da parte dell’alienante, quanto con l’assunzione della qualità di socio in una società concorrente, o l’assunzione della gestione dell’impresa altrui concorrente o ancora con l’inizio dell’attività di impresa per mezzo di un prestanome. Naturalmente non solo società di persone ma anche di capitali; se infatti si potrebbe obiettare in questa ipotesi che colui che esercita l’attività in concorrenza è diverso dall’alienante, è però emersa nella nostra dottrina una linea interpretativa che tende a non ancorarsi esclusivamente al dato formale dell’esistenza della società, persona giuridica, ma a guardare alla sostanza del fenomeno, quindi se ad esempio l’alienante costituisse una società di capitali con un collega, il quale sottoscrive una quota pari a 0,01% del capitale, si potrebbe superare la personalità giuridica della società e scatterebbero a carico dell’alienante le sanzioni previste dall’art. 2557 c.c..
Ci si è chiesti se l’art. 2557 c.c. abbia carattere di norma eccezionale o meno limitando la libertà di iniziativa economica dell’alienante. Nella giurisprudenza più recente prevale la tesi che nega il carattere di norma eccezionale a quest’articolo e ritiene dunque che tale norma sia applicabile in caso di cessione di quota sociale, come nell’esempio sopra fatto non è però sufficiente una qualunque cessione di quota di partecipazione perché scatti il divieto di concorrenza, occorre che si tratti di cessione di quote che realizza nella sostanza un passaggio di azienda. In questo senso due sentenze della Cassazione n. 9682 del 2000 e n. 1643 del 1998. Quest’orientamento non è tuttavia incontrastato, si segnala una sentenza della Cassazione n. 2669 del 1980 di tenore contrario.
La dottrina (Colombo) ritiene che la stessa conclusione sia valida quando viene ceduto il pacchetto azionario di controllo qualora questa cessione rappresenti nella sostanza trasmissione dell’azienda. Il nostro legislatore si occupa degli effetti del contratto di trasferimento di azienda sotto un secondo profilo riguardante la sorte del cosiddetto patrimonio aziendale, termine questo che fa riferimento al complesso dei rapporti giuridici inerenti all’esercizio dell’impresa.
Tralasciando l’art. 2112 c.c. che riguarda la sorte dei rapporti di lavoro, gli artt. 2558, 2559 e 2560 c.c. distinguono tra contratti, crediti e debiti.
L’art. 2558 c.c. disciplina la sorte dei contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite da alcuna delle due parti, mentre gli art. 2559 e 2560 c.c. disciplinano rispettivamente la sorte dei crediti e debiti puri, cioè quei crediti e debiti che sono di fonte extracontrattuale o che sono di fonte contrattuale, ma nascono da contratto con prestazione a carico di uno solo dei contraenti o da contratto originariamente a prestazioni corrispettive in relazione al quale uno dei due contraenti abbia già interamente eseguito la propria prestazione al momento del trasferimento dell’azienda.
L’art. 2558 c.c. prevede il trasferimento automatico di tali rapporti contrattuali all’acquirente, il trasferimento cioè non è subordinato né alla conoscenza o conoscibilità da parte dell’acquirente di tali contratti, né al consenso del terzo, in deroga a quanto previsto dall’art. 1406 del codice civile. Si tratta di una successione ex lege nei rapporti contrattuali, prevista appunto quale effetto naturale del trasferimento dell’azienda.
Essendo il trasferimento di azienda negozio tipicamente finalizzato a consentire all’acquirente l’immissione nell’ambito di attività cui si riferisce l’azienda, il legislatore vuole che l’acquirente venga immesso in questo ambito di attività e quindi anche nel fascio dei rapporti giuridici eventualmente nati dall’esercizio di questa attività da parte dell’alienante.
Il trasferimento ha luogo per tutti i contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite da alcuna delle due parti, salvo quelli a carattere personale e purché non vi sia pattuizione diversa nel contratto di trasferimento dell’azienda. Le parti cioè possono escludere dal trasferimento taluni contratti senza che questo ponga problemi né di validità di questa clausola né di qualificazione del contratto, a meno che l’esclusione dal trasferimento non riguardi contratti essenziali in seno all’azienda trasferita. Non sarebbe possibile cioè per le parti inserire nel regolamento contrattuale una clausola di esclusione di un contratto avente ad oggetto beni aziendali, in caso contrario si sarebbe in presenza di un negozio non qualificabile come trasferimento d’azienda. E’ questa ad esempio l’ipotesi in cui il titolare dell’azienda alienante non sia proprietario di un bene aziendale, ma abbia su di esso un diritto personale di godimento in forza di un contratto di locazione del cui trasferimento all’acquirente appunto si discute. Qualora nel contratto fosse escluso il trasferimento di questo rapporto che attribuiva all’alienante il diritto di godere del bene e qualora questo bene sia essenziale, la clausola di esclusione dal trasferimento di tale contratto porterebbe a rendere non qualificabile il negozio traslativo come negozio di trasferimento d’azienda. Opinione questa unanime in dottrina (Galgano e Martorano).
Il trasferimento è escluso anche per quei contratti che hanno carattere personale, ossia quei contratti stipulati dal terzo contraente con particolare riferimento alla persona dell’imprenditore alienante. Questa definizione è sostenuta dalla dottrina dominante, ma non è incontroversa, nel senso che secondo l’opinione autorevole sostenuta dal Galgano, sarebbero a carattere personale quei contratti cosiddetti personalissimi, cioè che dipenderebbero da scelte personali dell’imprenditore. Si rovescia dunque la prospettiva, non più quei contratti che il terzo ha stipulato in considerazione della persona dell’imprenditore, ma contratti che l’imprenditore ha stipulato in considerazione di scelte personali. Galgano fa i classici esempi del contratto con lo psicologo di fabbrica o con un particolare consulente per problemi tributari e così via. Si tratta di una tesi non ampiamente condivisa ma che tuttavia, ha trovato accoglimento in una sentenza della Corte di Cassazione del 2001 la n. 5495 (pur in una anomala prospettiva).
Per quanto riguarda la tesi dominante, che ritiene a carattere personale i contratti stipulati dal terzo con particolare riferimento alla persona dell’imprenditore, si ritiene che siano tali sia i contratti a prestazione oggettivamente infungibile, quelli cioè in cui l’imprenditore abbia promesso una prestazione ad esempio artistica, intellettuale, non quindi riproducibile da altri soggetti, sia quelli a prestazione soggettivamente infungibile, cioè quelli in cui la prestazione promessa dall’imprenditore sia stata considerata dalle parti nell’economia contrattuale infungibile, ne sono esempio i contratti in cui è inserita una clausola di incedibilità. È discusso se esistano dei contratti a prestazione tipicamente infungibile, cioè in quanto appartenenti ad un dato tipo contrattuale, con riferimento al mandato, all’agenzia, all’associazione in partecipazione. Si dice ad esempio che il contratto di associazione in partecipazione è un contratto a carattere personale e che quindi non si trasferisce in quanto sarebbe a prestazione tipicamente infungibile. Su questo punto la tesi più autorevole sostenuta da chi con più attenzione si è occupato del problema (Vanzetti e Colombo) è nel senso che non esistono contratti a prestazione tipicamente a carattere personale cioè in quanto appartenenti al tipo, e che infungibilità e carattere personale possono essere valutati solo in concreto nel caso in cui la prestazione sia oggettivamente in concreto infungibile oppure sia stata considerata infungibile dalle parti nell’economia del contratto e quindi sia soggettivamente infungibile.
Sul punto del trasferimento dei contratti c’è da dire ancora che il terzo contraente è tutelato dalla facoltà di recedere entro tre mesi per giusta causa.
Il recesso, secondo l’opinione dominante, determina risoluzione del rapporto contrattuale con effetto ex nunc.
Minoritaria è la tesi (Martorano) secondo cui il recesso determinerebbe un ritrasferimento del rapporto contrattuale in capo all’alienante, così come poco sostenuta è la tesi secondo cui il recesso determinerebbe sì lo scioglimento del contratto, ma con effetto ex tunc, cioè dal momento del trasferimento dell’azienda.
Dottrina e giurisprudenza si sono sbizzarrite nel dare la definizione di giusta causa, ma tutte le definizioni seguono un unico filo conduttore: la giusta causa consiste nel fatto che il trasferimento dell’azienda ha determinato un mutamento nella situazione oggettiva tale che, se esistente e conosciuto al momento della conclusione del contratto, avrebbe indotto il terzo a non stipularlo o a stipularlo a condizioni diverse. Questa formula è contenuta nella sentenza della Cassazione n. 5495 del 2001 che contiene una serie di principi accettabili astrattamente, ma non concretamente.
Alcuni autori, scendendo più nel concreto, hanno affermato che la giusta causa può consistere:
in carenze nelle qualità personali dell’acquirente che possono avere sia carattere oggettivo, ad esempio una comprovata incapacità dell’acquirente di svolgere quell’attività di impresa, sia carattere personale contingente, ad esempio potrebbe recedere per giusta causa il terzo avente una lite pendente per altre ragioni con l’acquirente;
nella scarsa consistenza del patrimonio extra aziendale dell’acquirente.
Secondo l’art. 2558 c.c., in caso di recesso, è fatta salva la responsabilità dell’alienante. L’opinione dottrinale dominante ritiene che si tratti di responsabilità che presuppone la colpa nella scelta dell’acquirente.
Gli articoli 2559 e 2560 c.c. riguardano i crediti ed i debiti e si applicano tanto ai crediti e debiti di fonte extracontrattuale tanto a quelli che derivano da contratti con prestazioni a carico di una sola delle parti o da contratti originariamente a prestazioni corrispettive qualora una delle due parti abbia già interamente eseguito la propria prestazione al momento del trasferimento dell’azienda.
L’art. 2559 c.c. che riguarda i crediti pone un problema: si ha trasferimento automatico dei crediti come per i contratti o per il trasferimento dei crediti occorre un’esplicita pattuizione tra alienante e acquirente? Mentre l’art. 2558 c.c. è molto esplicito nell’affermare il trasferimento del rapporto contrattuale all’acquirente, la norma dell’art. 2559 c.c. è muta su questo punto, ragion per cui la dottrina si è divisa. In proposito, la giurisprudenza tende ad affermare la successione ipso iure, automatica dell’acquirente nei crediti, in questo senso si segnalano due sentenze della Cassazione n. 577 del 1999 e n. 4873 del 1995.
L’art. 2559 c.c. detta una disciplina che riguarda l’opponibilità della cessione nei confronti dei terzi. Il punto più rilevante riguarda il fatto che la norma sancisce l’efficacia del trasferimento dell’azienda con l’iscrizione di esso nel registro delle imprese, ma fa salvo il fatto che se il debitore paga in buona fede all’alienante è comunque liberato. La norma costituisce una deroga rispetto ai principi dell’art. 2193 c.c. cioè della pubblicità dichiarativa, deroga che si spiega per il fatto che l’art. 1264 c.c., in materia di cessione di crediti in generale, richiede per la non liberatorietà del pagamento effettuato dal debitore al cedente la conoscenza da parte di costui dell’avvenuto trasferimento.
L’art. 1264 c.c. prevede che il trasferimento abbia effetto nei confronti del debitore con la notificazione o l’accettazione da parte sua e che il debitore che paga prima non è liberato, se si prova che era comunque a conoscenza del trasferimento. Tale norma subordina dunque la non liberazione del debitore alla reale conoscenza da parte di costui della cessione del credito. L’iscrizione nel registro delle imprese non determina conoscenza, ma mera conoscibilità del trasferimento da parte del debitore, ecco perché il legislatore dettando l’art. 2559 c.c. non si è accontentato della conoscibilità assicurata dall’iscrizione nel registro delle imprese ed ha tutelato il debitore che in buona fede nonostante la conoscibilità paghi all’alienante dell’azienda. Questa è la ragione della deroga rispetto ai principi della pubblicità dichiarativa. Si discute, peraltro, se la buona fede debba essere provata dal debitore che paga l’alienante dell’azienda o se sia l’acquirente che pretende il pagamento che è tenuto a provare la mala fede del debitore stesso. Su questo punto la dottrina è divisa: Colombo ad esempio ritiene che in conformità alla disciplina generale dell’art. 1264 c.c. sia il cessionario, acquirente dell’azienda, che deve provare la mala fede del debitore. Altri invece (Ibba), per non distaccarsi troppo dalla disciplina degli effetti dell’iscrizione nel registro delle imprese, ritiene che sia il debitore che deve provare la sua buona fede. Il punto è se la disciplina dell’art. 2559 c.c., che sicuramente costituisce deroga agli effetti della pubblicità dichiarativa, vada ricondotta integralmente nell’alveo dell’art. 1264 c.c. oppure se si discosti dal 2193 c.c., ma non al punto da potersi ricondurre nell’art. 1264 c.c..
L’art. 2560 c.c. si occupa dei debiti prevedendo che l’acquirente risponda in solido con l’alienante dei soli debiti risultanti dalle scritture contabili obbligatorie, a tutela del creditore che si vedrebbe altrimenti diminuita, sottratta la garanzia generica, originariamente gravante sul patrimonio aziendale. Una tesi minoritaria sostenuta da Casanova, che condividiamo, ritiene che la norma abbia tutt’altra spiegazione e cioè si inquadri nel più generale principio per cui l’acquirente viene immesso nell’ambito di attività dell’impresa e quindi viene anche immesso nella rete di rapporti giuridici relativi all’esercizio di quest’impresa. Anche accogliendo la tesi prevalente, l’acquirente risponderebbe pure con i beni che non fanno parte dell’azienda? Sì, questo è uno degli argomenti che possono essere portati a confutazione della tesi prevalente, perché, se si deve garantire al creditore la garanzia generica sui beni aziendali, non si vede perché estenderla a tutti i beni dell’acquirente. Quest’estensione si spiega invece se si intende tutta la disciplina nell’ottica dell’inserimento dell’acquirente nella rete dei rapporti giuridici inerenti all’attività esercitata. Perché l’alienante rimane comunque responsabile? Perché, se si liberasse automaticamente l’alienante, si priverebbe il creditore dell’originario debitore ed è principio generale del nostro ordinamento che la sostituzione del debitore non possa avvenire se non con il consenso del creditore.
Due sono le questioni salienti relative alla disciplina dell’art. 2560 c.c.:
l’acquirente risponde esclusivamente dei debiti risultanti dalle scritture contabili obbligatorie oppure risponde anche dei debiti comunque conosciuti o conoscibili? L’orientamento prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza ritiene che l’iscrizione del debito nei libri contabili obbligatori sia elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente; in questo senso si segnalano due sentenze della Cassazione n. 8363 del 2000 e n. 1429 del 1999.
L’art. 2560 c.c. esplicitamente prende in considerazione solo la responsabilità dell’acquirente nei confronti dell’alienante e dei terzi, nei rapporti interni cosa accade? È l’alienante costretto a pagare che ha diritto di regresso nei confronti dell’acquirente o viceversa? Si ha trasferimento nei rapporti interni dei debiti dall’alienante all’acquirente? La dottrina prevalente dà una risposta negativa, perché la norma è posta esclusivamente a tutela dei terzi e quindi non tocca questo problema. La dottrina minoritaria (Casanova), che invece inquadra questa norma in una prospettiva più ampia, cioè nel quadro di un principio generale di inserimento dell’acquirente nella rete dei rapporti giuridici inerenti all’esercizio dell’impresa, afferma invece che si ha vero e proprio trasferimento dei debiti anche nei rapporti interni.
La norma dell’art. 2560 c.c. è ritenuta inderogabile dalle parti, esse cioè non potrebbero escludere la responsabilità dell’acquirente nei confronti dei terzi, ma possono liberamente regolare la sorte dei debiti nei loro rapporti interni. Per chi dice che non si ha trasferimento nei rapporti interni è pacifico che le parti possano stabilire che nei rapporti interni invece si abbia trasferimento; per chi, come il Casanova, ritiene invece che si abbia automatico trasferimento nei rapporti interni è pacifico che le parti possano pattuire invece che nei rapporti interni i debiti rimangano in capo all’alienante.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento