La configurazione del reato di tortura

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E l’interessante sentenza del gup di taranto in data 20 ottobre 2020

Sommario: 1. Il contestato reato di tortura nella dottrina e nella giurisprudenza. 2. La decisione del GUP di Taranto in data 29.05.2020 .3. Conclusioni.

 

 

Il contestato reato di tortura nella dottrina e nella giurisprudenza

Dopo un lungo periodo di “gestazione” in data 14 luglio 2017 è stata emanata la legge 110 che all’art. 1 ha introdotto nel codice penale, tra i delitti che ledono la libertà morale dell’individuo, l’art. 613-bis che punisce il reato di “tortura”.[1]

Nell’ordinamento internazionale, il ripudio della tortura ha carattere assoluto e inderogabile.[2]

L’art. 2, comma 2, della convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti del 1984, recepita in Italia nel 1989, sancisce che “Nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura”. Analogamente, l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.[3] La Corte di Strasburgo riconosce che il divieto menzionato, che consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche, non consente eccezioni, né limitazioni, né bilanciamenti di alcun genere, né soffre alcuna possibilità di deroga.[4] Si tratta, dunque, di una norma cardine per la tutela psico-fisica dell’individuo.[5]

Anche l’art. 13, comma 4, della nostra Costituzione afferma testualmente “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà”. La violenza commessa su soggetti privati della libertà personale non soltanto lede gravemente la dignità, l’integrità psico-fisica e la libertà morale della persona, ma viola la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, comma 3, della stessa Costituzione.

Nel rapporto 2012 di Amnesty International, l’Italia è stata annoverata tra i paesi ove i casi di tortura sono stati denunciati e accertati.[6] E neppure sono mancate le condanne, a carico dell’Italia, da parte della Corte di Strasburgo per la violazione del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. E’ stato anche dimostrato, che sussiste una significativa relazione tra suicidi in carcere e sovraffollamento, fenomeno ancora tristemente presente anche ai giorni nostri.

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La fattispecie delineata dal citato art. 613-bis c.p. è stata inserita nel del Titolo XII del codice penale, relativo ai delitti contro la persona e, più precisamente, nel Capo III, che disciplina i reati contro la libertà individuale e accoglie una nozione di tortura che potrebbe definirsi a “disvalore progressivo”[7]: il legislatore ingloba nel nuovo reato sia il fenomeno della tortura comune, commessa da chiunque, sia quello della cosiddetta “tortura di Stato”, in cui il soggetto attivo è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

Il primo comma, ove è racchiuso “il nucleo essenziale delle scelte di politica criminale effettuate”[8] punisce con la reclusione da quattro a dieci anni chiunque, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che comunque si trovi in condizioni di minorata difesa, ma soltanto se il fatto è commesso con più condotte o se lo stesso può definirsi trattamento inumano e degradante. L’elemento oggettivo è dunque concentrato su un comportamento che cagioni due eventi alternativi, ossia acute sofferenze fisiche oppure un verificabile trauma psichico nella vittima: i due eventi permettono di introdurre nell’alveo della punibilità soltanto azioni particolarmente violente e odiose. Tuttavia il solo bene giuridico della libertà morale non può tuttavia considerarsi esaustivo: la tortura è un reato plurioffensivo, che lede anche l’incolumità individuale, intesa come integrità fisica e psichica della persona.[9] Per tale ragione, parte della dottrina sosteneva che fosse più opportuno inserire la fattispecie criminosa tra i delitti previsti nel Capo I del titolo XII del secondo libro, subito dopo gli articoli relativi alle lesioni personali dolose.[10]

Il secondo comma è deputato a punire la tortura commessa da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti la funzione o il servizio. Il comma predetto “porta verso l’alto l’asse sanzionatorio”[11], in considerazione della specificità del soggetto agente e del comportamento da costui perpetrato: esso dispone che, sei fatti di cui al comma 1 sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti la funzione o il servizio, si applica la pena della reclusione da cinque a dodici anni.

Il legislatore nazionale, discostandosi parzialmente dall’obbligo sovranazionale sancito dall’art. 1 della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984 (CAT), nel tentativo di trovare una soluzione di compromesso, ha conferito al capoverso dell’art. 613-bis c.p. “una natura di non agevole classificazione dogmatica”.[12] Il rinvio espresso per la descrizione della condotta delineata dal comma precedente potrebbe far propendere per l’introduzione di un’aggravante speciale di natura indipendente, correlata alla presenza della qualifica soggettiva.[13]

Si ritiene, invece, che la qualificazione della tortura commessa da un soggetto qualificato di cui all’art. 613-bis c.p. sia da considerarsi come fattispecie delittuosa autonoma. La condotta perpetrata dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio acquista “la dimensione di fattispecie criminosa autonoma nella misura in cui descrive una speciale condotta, oggettivamente qualificata dall’abuso de poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.[14]

Il comma 3 dell’art. 613-bis c.p. dispone che il comma 2 “non si applica nel caso sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. La ratio della disposizione è evidente: il legislatore vuole limitare l’ambito di punibilità del nuovo reato di tortura. L’art. 1 CAT prevede una disposizione analoga, laddove sancisce che la definizione di tortura ivi offerta non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.

Tale disposizione è oggetto di valutazioni contrastanti. In presenza di scriminanti codificate, idonee ad escludere l’antigiuridicità della condotta del pubblico ufficiale in occasione dell’esecuzione dei propri doveri istituzionali, come ad esempio, l’adempimento di un dovere ex art 51 c.p., occorre chiedersi se la norma fosse davvero necessaria. Laddove si ritenga che comunque la predetta disposizione possa assumere un significato rilevante, anche alla luce  di quanto disposto dall’art. 1 CAT, è necessario sottolineare la discrasia tra il generico concetto di “sofferenze” ivi indicate e le nozioni di “acute sofferenze fisiche” ivi previste e le nozioni di “verificabile trauma psichico” quali eventi alternativi prefigurati dall’art. 613-bis, comma 1: le prime costituiscono “un quid minus rispetto ai secondi, necessariamente caratterizzati da un livello superiore di intensità”.[15] Se vi è una semplice sofferenza, dunque, il delitto di tortura non può dirsi integrato in tutti i suoi elementi costitutivi.

Volendo attribuire un qualche significato al comma 3, si potrebbe interpretarlo come elemento sintomatico in favore della ricostruzione dei fatti commessi dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio in chiave di fattispecie autonoma di reato[16]: l’esclusione dell’operatività del comma 2 non potrebbe operare su una circostanza aggravante, poiché il fatto tipico base dovrebbe comunque sussistere, ipotesi non configurabile in considerazione dell’avverbio unicamente di cui al comma 3. Torna dunque “il leitmotiv di principio” [17]secondo il quale “la legittimità della pena è il suo crisma di identità e al contempo traduzione dell’assolutezza del divieto di tortura, che di fatto è collocato al di là della pena legale”.[18]

Il comma 4 sancisce che, se dai fatti di cui al comma 1, deriva una lesione personale le pene sono aumentate di un terzo e, se ne deriva una lesione personale gravissima, sono aumentate della metà. Mentre il comma 5 dispone che, se dai fatti di cui al primo comma, deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta; se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo. Questa norma sembra di dubbia legittimità costituzionale[19]: la criticità appare evidente nel caso di morte quale conseguenza non voluta dalla condotta, che sembra prefigurare un tipico caso di responsabilità oggettiva basata sul nesso causale tra condotta ed evento. La previsione dell’ergastolo, in ogni caso, appare censurabile, in considerazione del fatto che si tratta di una “sanzione non conforme al senso di umanità”[20] e che quel tipo di condotta sarebbe da qualificarsi come omicidio volontario ex art. 575 c.p., eventualmente aggravato dall’art. 61, n. 4, c.p.[21].Inoltre, tale norma contrasta con il principio della gradualità di pena, sancito dalla Corte Costituzionale.[22]

La fattispecie di cui all’art. 613-ter punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo un altro pubblico ufficiale o un altro incaricato di pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta, ma il delitto non è commesso. Con questa dizione, l’art. 613-ter c.p. “scrive la sua carta d’identità”[23] e si dichiara delitto speciale rispetto alla figura di quasi.-reato prevista dall’art. 115 c.p.[24]

La fattispecie di cui all’art. 613-ter si configura come un’eccezione alla regola generale fissata dall’art. 115 c.p. che sancisce la non punibilità della mera istigazione e configura un reato di pericolo concreto: l’esaltazione di un fatto di reato non è di per se punibile se per le sue modalità essa non integri un comportamento idoneo a provocare la commissione del delitto. La nuova fattispecie trascura però l’ipotesi di istigazione nei confronti di un soggetto privato a commettere il delitto di tortura e lascia così scoperta un’area di impunità incompatibile con l’intento di apprestare rimedi sanzionatori effettivi, in ottemperanza agli obblighi internazionali. Sarebbe, pertanto, auspicabile che non residuassero vuoti di tutela: un soggetto provvisto della qualifica soggettiva ben potrebbe istigare un altro individuo, privo della predetta qualifica.[25]

Si rileva che, con tre decisioni la suprema Corte di Cassazione si è confrontata, sia pure in fase cautelare, con la fattispecie di tortura introdotta dall’art. 613-bis c.p. dalla legge n. 110/2017.

Nella prima pronuncia[26] viene esaminata la fattispecie di due giovani indagati che, dopo che la persona offesa era salita a bordo della propria autovettura, l’avevano minacciata con una pistola e costretta a rimanere nell’auto percuotendola con un bastone, spezzandole le dita delle mani, rompendole i denti, immergendola nell’acqua e umiliandola lasciandola nuda a pulire il suo stesso sangue.

Il collegio aveva anzitutto rilevato che, oltre a porre in essere una condotta correttamente qualificata come crudele, gli indagati avevano altresì perpetrato violenze e minacce gravi. Ai sensi dell’art. 613-bis c.p, la condizione di minorata difesa della vittima è condizione alternativa allo stato di privazione della libertà personale. Nel caso specifico, infatti, la privazione della libertà personale della vittima doveva ritenersi certamente sussistente, considerato che il provvedimento del Tribunale del Riesame aveva ritenuto assorbito in quello di tortura il reato di sequestro di persona originariamente contestato.

Una parte motivazionale discutibile concerne il presunto assorbimento nel delitto di tortura di quello di sequestro di persona. Alla luce della diversa oggettività giuridica dei due reati e del fatto che la privazione della libertà personale della vittima costituisce, ove esistente, un mero presupposto della condotta punita dall’art. 613-bis c.p., non sembra di poter ravvisare tra quest’ultima e quelle di cui agli artt. 605, 630, 289-bis c.p. un rapporto inquadrabile alla luce dei principi di sussidiarietà o di consunzione.

La seconda pronuncia[27] è senz’altro la più significativa, anche perché concerne proprio la fattispecie in argomento.

Nel rigettare i ricorsi, la Corte ha anzitutto rilevato come le doglianze relative alla riconducibilità dei fatti contestati allo schema legale della fattispecie delittuosa di cui all’art. 613-bis c.p. fossero in buona parte giustificate “dalla recente introduzione, nell’ordinamento, del delitto di tortura, e dal dibattito dottrinario che ne è seguito, nell’ambito del quale sono stati segnalati dai primi commentatori nodi interpretativi ancora non affrontati dalla giurisprudenza di legittimità”. La suddetta sentenza sottolinea che il bene giuridico tutelato dal reato di cui al 613-bis c.p. deve individuarsi nella c.d. “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche”.

La Corte ha, poi, adottato, in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una definizione ampia di tortura consistente “nell’atto di cagionare scientemente a un soggetto indifeso intense sofferenze di natura fisica o psichica, a prescindere dalla qualità soggettiva dell’autore della condotta”.

Esaminando gli elementi della fattispecie, secondo la citata sentenza della Corte di Cassazione, si ricavano i seguenti principi:

  • l’aggettivo “gravi” deve intendersi riferito tanto alle minacce quanto alle violenze;
  • occorre “che le violenze siano realizzate reiteratamente, in più riprese o, comunque, con modalità tali che si possa parlare di più condotte, perchè realizzate in un arco temporale abbastanza lungo, o perché, per le modalità di esecuzione, possano distinguersi plurime manifestazioni di violenza fisica o morale”, come avvenuto nel caso di specie, nel quale appare evidente, secondo la ricostruzione dei giudici di merito “che si sia trattato di vere e proprie spedizioni punitive ai danni di un soggetto affetto da patologia psichica, oltre che da un profondo disagio esistenziale e sociale, di carattere schivo, auto emarginato socialmente, quanto debole, inoffensivo e incapace di difendersi”;
  • la crudeltà “integra un requisito di natura prettamente valutativa e intrinsecamente dotato di forte carica valoriale”, per il quale non è richiesta la reiterazione;
  • “il trattamento inumano e degradante” è elemento alternativo alla pluralità delle azioni;
  • il trauma psichico delineato dalla norma può essere interpretato come “un evento che, per le sue caratteristiche, risulta non integrabile nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentare la coesione mentale;
  • che l’aggettivo “verificabile” rimanda ad un trauma psichico riscontrabile oggettivamente, attraverso l’accertamento probatorio, che può contemplare anche un trauma temporaneo e non inquadrabile in una categoria predefinita.

Anche la terza pronuncia[28] è stata resa dalla quinta sezione nell’ambito della medesima vicenda, a seguito del ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Taranto che aveva confermato l’ordinanza applicativa della custodia in carcere nei confronti dei due soggetti maggiorenni che avevano agito in concorso dei minori.

La decisione richiama le pronunce della Corte CEDU del 22 giugno 2017 che, esaminando le violenze perpetrate all’interno della scuola Diaz, aveva stigmatizzato la mancanza nel nostro ordinamento di una disposizione sulla tortura.

E’a questo punto che si inserisce l’affermazione più problematica della sentenza, secondo cui “La norma di nuovo conio prevede un reato comune contemplando l’eventualità che esso sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio come circostanza aggravante o di evento, caratterizzato da dolo generico e dalla descrizione delle modalità della condotta (“con violenza e minacce gravi ovvero agendo con crudeltà”). Il reato si configura se la vittima è un soggetto privato della libertà o affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del fatto ovvero se la persona offesa si trovi in condizioni di minorata difesa e la condotta è integrata se è commessa mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Con questa decisione la suprema Corte sposa la qualificazione della fattispecie come mera circostanza aggravante.

La Corte si è poi soffermata sul concetto di crudeltà, evidenziando come il ricorrente avesse trascurato “il quid pluris costituito dalla ricerca, da parte degli indagati, delle sofferenze della vittima come di un risultato foriero di generare un soddisfacimento di un istinto sadico che merita la connotazione di cui si discute”.

Ancora, lo stesso Collegio ha affermato la non coincidenza tra le “acute sofferenze fisiche” richieste dall’art. 613-bis, comma 1, e le lesioni, evidenziando che “se la condizione per la punizione del reato di tortura fosse quella dell’evidenza delle conseguenze fisiche sul corpo della vittima, resterebbero fuori dalla tutela penale tutte quelle condotte foriere di sofferenze fisiche acute, ma che non lasciano segni sul corpo di chi le subisce”.

Allo stesso modo è stato ritenuto privo di pregio il tentativo dei ricorrenti di escludere la condizione di minorata difesa della vittima sottolineando la circostanza che la stessa avesse, sin dal 2012, sporto denuncia per fatti analoghi.

Il Tribunale del riesame, in linea con la giurisprudenza di legittimità, aveva correttamente evidenziato le condizioni personali in cui versava la persona offesa, che, oltre a soffrire di una grave psicologia psichiatrica, abitava da sola, in uno stato di degrado, nonché le circostanze ambientali del tempo di notte e dell’isolamento in cui l’abitazione stessa era ubicata.

La Corte ha, peraltro, sottolineato che l’esistenza delle condizioni di minorata difesa va valutata non già rispetto a reazioni successive (quali la decisione di rivolgersi alle forze dell’ordine per sporgere denunzia), ma esclusivamente con riguardo “alle oggettive possibilità di contrasto della zona terreno nel momento in cui essa viene perpetrata”.

Il concetto di “trattamento inumano o degradante” quale condizione ulteriore per la punibilità del reato in alternativa alle “più condotte”, si riferirebbe a comportamenti che (determinano al posto di comportano), alla vittima, sofferenze di minore intensità di quelle legate al concetto di tortura. E che pertanto, “se l’ordinanza impugnata resiste alle critiche del ricorrente che attaccano la più grave caratterizzazione della condotta come tortura, è evidente che queste ultime non potrebbero avere alcuna incidenza sulla tenuta dell’ordinanza avversata laddove si riferiscono al concetto in esame, che attiene a condotte caratterizzate da una più moderata carica etero offensiva”. Correttamente, comunque, il Tribunale del riesame aveva valorizzato il fatto che la vittima fosse braccata in casa dai suoi assalitori, percossa, insultata, dileggiata e che il tutto “ad accrescere nel grado di afflittività la dignità della persona, fosse poi oggetto di ripresa video e di diffusione sul web”.

 

La decisione del GUP di Taranto in data 20 ottobre 2020

In data 29 maggio 2020[29] si è concluso il processo ai tre membri maggiorenni di una baby gang, per i quali il GUP di Taranto, Dott.ssa Vilma Gilli, ha condannato a dieci anni di carcere due degli imputati e a otto anni e otto mesi di reclusione il terzo,[30] depositando le motivazioni in data 20 ottobre 2020.

Pur venendo riconosciuto il “reato di tortura ai danni della vittima, non è stata confermata l’aggravante delle lesioni personali e della morte (rispettivamente commi 4 e 5 dell’art. 613-bis, c.p.) come conseguenza delle torture subite.

Il giudice preliminarmente ricostruisce le vicende processuali che hanno portato alla decisione in argomento. Infatti, con decreto di giudizio immediato emesso dal G.i.p. in data 18.7.2019, Lamusta Gregorio, Spadavecchia Antonio e Mazza Vincenzo venivano chiamati a rispondere dei reati loro ascritti e i difensori degli imputati Lamusta e Spadavecchia avanzavano richiesta di definizione del processo con le forme del rito abbreviato condizionato, mentre il difensore dell’imputato Mazza avanzava richiesta di rito abbreviato cd. secco.

Il giudizio abbreviato è un procedimento penale speciale previsto dagli articoli 438 e seguenti del codice di procedura penale che si caratterizza per l’omissione del dibattimento: il giudice decide esclusivamente sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, eventualmente contenente anche gli atti compiuti dal difensore nell’esercizio di investigazioni difensive e, salva, in ogni caso, la possibilità per l’imputato di chiedere e ottenere un’integrazione probatoria (giudizio abbreviato condizionato). Si instaura solo su espressa richiesta dell’imputato, personalmente o per mezzo del difensore munito di procura speciale, oralmente o per iscritto; nel caso che lo scritto provenga dall’imputato la sottoscrizione deve essere autenticata.[31] La presenza dell’imputato silente in aula vale come sanatoria della richiesta del difensore non munito di procura speciale all’uopo.[32] La scelta del rito può essere effettuata sino all’ultimo momento utile per le conclusioni di parte in udienza preliminare.[33] Laddove manchi l’udienza preliminare (procedimento con citazione diretta), la scelta può avvenire fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.[34]

Diverso è il caso in cui la richiesta di rito abbreviato sia condizionata ad un’integrazione probatoria. Il giudice in tale situazione ammetterà il rito qualora l’integrazione richiesta sia necessaria ai fini della decisione (in quanto non sostitutiva), oltrechè di indispensabile supporto logico-valutativo per un qualche aspetto della regiudicanda,[35] ma anche compatibile con le finalità di economia processuale del procedimento sulla scorta degli atti acquisiti ed utilizzabili.

Il materiale sulla base del quale il giudice è chiamato a decidere il rito, è rappresentato dagli atti raccolti nelle indagini preliminari, dal materiale di indagine eventuale ai sensi dell’art. 419, comma 3, c.p.p., oltrechè dagli atti conseguenti a varie forme di integrazione probatoria a seguito di iniziativa: dell’imputato (art. 438, comma 5 c.p.p.); del pubblico ministero a prova contraria di integrazione probatoria ottenuta dall’imputato (art. 438, comma 5, c.p.p.); dallo stesso giudice quando ritenga di non poter decidere allo stato degli atti (art. 441, comma 5, c.p.p.) e in aggiunta al materiale conseguente all’eventuale integrazione probatoria ai sensi dell’art. 422 c.p.p.

Con la scelta del rito abbreviato c.d. secco si ha il divieto di ulteriori acquisizioni probatorie, orali o documentali, tanto che anche le indagini difensive debbono essere presentate immediatamente prima della richiesta di rito, come ricavabile dal comma 4, secondo periodo, dell’art. 438 c.p.p., salvo il mero potere di sollecitazione ex art. 441, comma 5, c.p.p.[36], o il consenso di entrambe le parti per le sole acquisizioni documentali

In caso di condanna, la pena è ridotta di un terzo secco per i delitti e della metà per le contravvenzioni; in caso di ergastolo senza isolamento diurno, si applica la riduzione ad anni trenta di reclusione. Il legislatore con legge n. 33 del 12 aprile 2019 ha attuato una riforma del rito abbreviato, escludendo il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo; la ratio della novella è quella di eliminare la possibilità per tali casi di beneficiare della funzione premiale del giudizio abbreviato e assicurare una risposta sanzionatoria più severa per i delitti di particolare pericolosità sociale.

La riduzione premiale del rito deve essere calcolata dopo il bilanciamento delle circostanze e seguendo le norme sul concorso di reati e di pene di cui agli artt. 71 e ss. c.p., in particolare rispettando i limiti massimi per le pene detentive ivi indicati.[37]

Nel caso in esame, all’udienza di trattazione in data 16 ottobre 2019, si costituivano le parti civili; la richiesta di esclusione da parte dei difensori, veniva rigettata apparendo sussistenti i requisiti di legge per l’esercizio dell’azione civile nel processo, salva nel merito la valutazione della sussistenza del diritto al risarcimento del danno.

Le difese reiteravano le richieste di definizione del rito abbreviato ed il P.M., a prova contraria, chiedeva l’audizione del proprio consulente. Il Giudice, ritenute le richieste tempestivamente formulate e l’integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ammetteva il rito come richiesto.

Il processo in questione, come osservato dallo steso giudice, è stato preceduto da una articolata fase cautelare. In particolare, il 29 aprile 2019 il pubblico ministero emetteva decreto di fermo nei confronti di Lamusta Gregorio e Spadavecchia Antonio ed il G.i.p., a seguito di udienza di convalida e relativo interrogatorio, non convalidava il fermo, ma applicava misura custodiale massima con ordinanza del 2 maggio 2019.

Il Tribunale per la Libertà, adito dalle difese ex art. 309 c.p.p., rigettava l’impugnazione, confermando integralmente la detta ordinanza custodiale, con decisione del 14 maggio 2019; come visto, anche la Corte di Cassazione cui veniva proposto ricorso, rigettava le istanze difensive con sentenza dell’11 ottobre 2019.

Nell’ambito dello stesso procedimento, sulla scorta di nuove risultanze investigative, il pubblico ministero avanzava due distinte richieste di misura cautelare nei confronti del Lamusta e di Spadavecchia, accolte dal G.i.p. con ordinanza applicativa della misura massima, emessa il 26 giugno 2019, per le lesioni aggravate in danno del sig. Stano Fiorello Antonio.

Lo stesso Tribunale per la Libertà, con decisione del 9 luglio 2019, accoglieva parzialmente l’impugnazione, confermando integralmente il quadro indiziario, ma valutando adeguata ai fini cautelari la misura degli arresti domiciliari per entrambi gli imputati.

Il G.i.p., a seguito di istanze ex art. 299 c.p.p. per i fatti contestati in danno del sig. Antonio Stano, sostituiva la misura cautelare carceraria a carico di Spadavecchia Antonio e Lamusta Gregorio con quella degli arresti domiciliari, con ordinanze rispettivamente del 18 e 20 luglio 2019. Attualmente è vigente tale misura a carico dei predetti.

Con riferimento all’altro imputato maggiorenne Mazza Vincenzo, a seguito di richiesta del pubblico ministero, il G.i.p. emetteva ordinanza applicativa di misura cautelare custodiale in data 25 giugno 2019, ritenendo sussistente un grave quadro indiziario.

Il summenzionato Tribunale per la Libertà, accoglieva parzialmente l’impugnazione, confermando integralmente il quadro indiziario, ma valutando adeguata ai fini cautelari la misura degli arresti domiciliari, giusta ordinanza del 9 luglio 2019, attualmente in esecuzione.

Il P.M., infine, in sede di richiesta di giudizio immediato, contestava agli odierni imputati la circostanza aggravante di cui all’art. 613-bis, comma 5, c.p., accolta dal G.i.p. con decreto di giudizio immediato emesso in data 18 luglio 2019.

I difensori degli imputati Lamusta e Spadavecchia avanzavano richiesta di definizione del processo con le forme del rito abbreviato, condizionato alla produzione documentale di una propria consulenza medico-legale, mentre il difensore dell’imputato Mazza avanzava richiesta di rito abbreviato cd. secco.

Una volta fissata con decreto l’udienza di trattazione in data 16 ottobre 2019, si costituivano anche le parti civili.

Alla udienza del 15 maggio le difese procedevano alla discussione e, a seguito di fissazione di udienza per eventuali repliche delle parti, in data 29 maggio 2020 il giudice si ritirava in camera di consiglio pronunciando infine sentenza di condanna.

La illustre decisione si sofferma sulla disciplina del delitto di tortura di cui alla citata legge 14 luglio 2017, n. 110, rubricato, come visto, all’art. 613-bis c.p. tra i delitti contro la libertà personale dell’individuo e sottolinea, preliminarmente, che la condotta richiede violenze o minacce gravi o, alternativamente, che il soggetto attivo agisca con crudeltà. 

Il giudice prende atto che i concetti di violenza e minaccia sono tradizionalmente presenti nel nostro ordinamento quali elementi costitutivi delle fattispecie che tutelano la libertà morale, costituendo mezzi tipici di coartazione della volontà altrui. L’elaborazione giurisprudenziale, dunque, è piuttosto consolidata: “…violenza non è solo quella fisica (violenza “in senso proprio”), che si esplica direttamente sulla vittima, ma anche quella “impropria”, che si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui al fine di costringere l’offeso a fare, tollerare od omettere qualcosa[38]; minaccia è un qualsiasi comportamento deciso, perentorio e univoco dell’agente che sia astrattamente idoneo a produrre l’effetto di turbare o diminuire la libertà psichica e morale del soggetto passivo.

Giustamente il giudice rimarca che tanto le violenze che le minacce devono essere “gravi”, posto che, pur se l’aggettivo sembra riferirsi alle sole minacce, una corretta interpretazione non può non tener conto che l’evento (trauma psichico verificabile o acute sofferenze fisiche) non è plausibilmente collegabile a violenze non gravi. Tali sono quelle che elidono in modo pressocchè assoluto la libertà dell’individuo, anche per le modalità con cui vengono commesse; quanto alle minacce, si deve guardare al grado di turbamento psichico sul soggetto passivo, senza che sia necessaria una formula circostanziata.

In alternativa, l’azione deve connotarsi per la sua crudeltà, concetto il cui significato può rivenire dall’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 61, n. 4 c.p., inteso “quale espressione di un atteggiamento interiore specialmente riprovevole”[39] ovvero “l’inflizione di un male aggiuntivo, che denota la spietatezza della volontà illecita manifestata dall’agente…”[40] o ancora “lo scopo di infierire sulla vittima per infliggerle particolari sofferenze o tormenti”[41].

Sulla base di tali presupposti giurisprudenziali il GUP giunge alla conclusione che nel caso di specie, tutti gli imputati abbiano agito con violenza aggravata.

Infatti, la sera del 14 marzo 2019, Spadavecchia e Lamusta (con alcuni minori) si introducevano, dopo aver sfondato la porta a calci, nell’abitazione del sig. Stano, sorprendendolo rifugiato in un angolo della stanza; lo accerchiavano e con dei bastoni iniziavano a percuoterlo tutti insieme, colpendo anche oggetti presenti nell’appartamento, sghignazzando e gridando. La stessa vittima riferisce informalmente alla Polizia intervenuta quella sera e, formalmente il 5 aprile successivo, di essere stata picchiato. Una testimone, la sig.ra Malorgio, riferiva alla p.g. che lo Stano le aveva confidato di essere stato picchiato selvaggiamente in quella occasione.

L’11 marzo precedente, Spadavecchia e Mazza Vincenzo partecipavano all’irruzione presso l’abitazione di Stano, costretto a comparire sull’uscio perché gli avevano sfondato la porta e, quindi, picchiato dall’altro imputato Raho con una mazza sferrata più volte sulle gambe.

Lamusta partecipava a più incursioni violente in cui Stano veniva nuovamente preso a calci; mentre in altra occasione gli veniva sferrato uno schiaffo violentissimo da Raho.

Il 5 marzo, sempre di sera, l’abitazione di Stano veniva invasa da una decina di ragazzi, tra cui Mazza, mascherati, uno dei quali minacciava di colpire la vittima con un bastone; da quel momento il filmato agli atti si oscura, ma si continuavano ad udire le urla dello Stano.

E’ evidente, allora, secondo il giudice, che ricorre il requisito delle violenze gravi, sia in senso fisico, avendo lo Stano ricevuto sul corpo plurimi colpi di bastone, schiaffi, calci; sia morale, quale coartazione della libertà di autodeterminazione, essendosi dovuto rifugiare nella sua abitazione per sfuggire ai suoi aggressori ed avendo subito, impotente ed implorante aiuto, la furia distruttiva e la malvagità degli autori delle incursioni. Infine, la violenza in alcune occasioni è stata anche aggravata dall’uso di arma, così potendosi qualificare i bastoni, le mazze e le canaline in plastica usati durante le incursioni, quali oggetti atti ad offendere.

Il GUP rileva, anche, che gli episodi si sono caratterizzati, comunque, per la crudeltà dell’agire: alle percosse con bastoni o a mani nude si sono affiancate le urla di scherno, le parolacce, gli sputi, le offese, la derisione, i rumori provocati per frastornare l’uomo, tanto violenti da attirare l’attenzione dei vicini. Aggressioni immotivate, contegni sguaiati, vessatori e prevaricatori che andavano oltre l’inflizione della sofferenza fisica avendo, invece, come scopo interiore quello ultroneo di terrorizzare la vittima, di porla in una condizione di soggezione, di stranirla per alimentare il proprio divertimento, giungendo a riprendere quelle imprese malvagie con i telefoni cellulari per poi rinnovare quella perversa soddisfazione facendo circolare i video, commentandoli compiaciuti. Non dunque, condotte semplicemente minacciose, violente o ingiuriose, ma piuttosto comportamenti che cagionavano alla vittima patimenti gratuiti, costantemente volti a infliggerle un male aggiuntivo – la paura, la mortificazione, l’umiliazione – da cui trarre un malevolo godimento che alimentavano, appunto, anche nella condivisione dei video. Dunque, l’espressione di una indole malvagia e insensibile ad ogni richiamo umanitario, tanto più ove si pensi che tutti gli imputati sapevano che la vittima era disabile e inerme.

Poiché rispetto alle “violenze o minacce” vi è già implicita una pluralità di condotte, il nodo interpretativo attiene al concetto di pluralità ossia se imponga la reiterazione, anche in tempi diversi.

L’interpretazione prevalente qualifica il reato in esame come solo eventualmente abituale nel senso che la pluralità delle condotte può collocarsi sia nel medesimo ambito spazio-temporale – sempre che possano distinguersi plurime manifestazioni di violenza o di minaccia – che in un arco temporale abbastanza lungo.

L’alternativa – che quindi richiede l’abitualità o almeno la reiterazione – non ha convinto sin dalle prime applicazioni la prevalente dottrina, poiché eliderebbe rilevanza penale a quelle forme di tortura più moderne che vengono consumate in un unico contesto spazio-temporale. Viene richiamata in sentenza sul punto, precedenti della Corte EDU quali il caso Gafgen c. Germania in cui la condotta – esternata con più azioni ma in un unico contesto spazio-temporale – era consistita nella grave minaccia, anche di abusi sessuali, rivolta da due agenti di polizia ad un omicida per indurlo a confessare il crimine. E soprattutto, il caso Diaz[42] in cui la Corte concludeva per la “violazione dell’articolo 3 della Convenzione a causa dei maltrattamenti subiti dal ricorrente che devono essere qualificati «tortura» ai sensi di questa disposizione”. Ebbene, nella specie, le violenze e le minacce erano state poste in essere dalle forze dell’ordine a seguito dell’irruzione nella scuola Diaz-Pertini in un unico contesto spaziale e temporale senza soluzione di continuità (“gli agenti…cominciarono a colpire gli occupanti con pugni, calci e manganelli, gridando e minacciando le vittime. Alcuni gruppi di agenti si accanirono anche su degli occupanti che erano seduti o allungati per terra. Alcuni degli occupanti, svegliati dal rumore dell’assalto, furono colpiti mentre si trovavano ancora nei loro sacchi a pelo; altri lo furono mentre tenevano le braccia in alto in segno di resa o mostravano le loro carte d’identità”)[43]

Ulteriore argomento a sostegno della pluralità quantitativa, ma non spazio-temporale della condotta, deriva dal confronto con l’art. 612-bis c.p., collocato nella medesima sezione dei delitti contro la libertà individuale, che espressamente richiede che la minaccia o molestia di taluno discenda da condotte reiterate (e non da una pluralità di condotte, come richiesto dall’art. 613-bis c.p.). La giurisprudenza ha costantemente affermato che il delitto di atti persecutori, in quanto reato necessariamente abituale, non è configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia e presenta l’ulteriore caratteristica della necessità, ai fini della configurabilità stessa del reato, della reiterazione delle condotte sicchè le stesse devono essere almeno due e ripetute nel tempo.[44]

Dal confronto delle due disposizioni, dunque, si nota come in un caso (art. 613-bis c.p.) il legislatore abbia richiesto solo la pluralità delle condotte, mentre nell’altro (art. 612-bis c.p.) abbia introdotto il concetto di reiterazione, ovvero della ripetizione di più condotte nel tempo e nello spazio. L’interpretazione letterale e sistematica delle due norme, dunque, esclude che si tratti di locuzioni analoghe o che vi sia stata una svista legislativa avendo il legislatore optato per una distinzione concettuale evidente.

In alternativa alla pluralità di condotte (violente, minacciose o crudeli) la condotta unica potrà assurgere a “tortura” se comporti un trattamento inumano e degradante per la vittima (e sempre che ricorrano gli altri requisiti oggettivi e soggettivi della fattispecie). L’interpretazione di tale formula non è chiara poiché la giurisprudenza della Corte EDU formatasi sull’art. 3 CEDU – ove gli aggettivi degradante e inumano sono alternativi – sembra prevedere una scala crescente di rimproverabilità che va dai trattamenti degradanti a quelli inumani sino alla tortura quale espressione di massima violazione dei diritti inalienabili della vittima. Per recuperare organicità interpretativa, afferma il giudice, appare corretto ritenere che vi sia anche continenza tra i concetti suindicati avendo il legislatore nazionale voluto offrire una risposta punitiva anche nel caso vi sia stata una sola condotta che abbia comportato per la vittima un trattamento privo di sentimento umano relegando la persona in una condizione di svilimento, di umiliazione della propria dignità.

Interpretando i fatti alla luce delle suddette considerazioni, il GUP ritiene che nel caso di specie sia ravvisabile la pluralità delle condotte da parte degli imputati, sia in ciascun episodio che anche oltre il medesimo contesto spazio-temporale.

Il tema, invero, ha già interessato il Tribunale per il riesame e la Corte di Cassazione in occasione dei ricorsi avanzati nell’interesse di Spadavecchia Antonio poiché la difesa riteneva che costui avesse partecipato ad un solo episodio – quello del 14 marzo – trattenendosi nell’abitazione per circa 22 secondi ed agendo per soli 13 secondi, simulando di colpire Stano: una singola occasione e per un tempo insufficiente per ipotizzare, comunque, un trattamento degradante ed inumano.

Ebbene, il Tribunale per il riesame aveva sviluppato in quella sede un argomento di ordine logico-deduttivo secondo cui era verosimile concludere che quella non fosse stata l’unica irruzione consumata da Spadavecchia, argomento che ha trovato riscontro nelle successive attività investigative.

Come evidenziato, infatti, Spadavecchia in data 11 marzo 2019 partecipava ad una irruzione serale presso l’abitazione di Stano, il successivo 14 marzo, era proprio Spadavecchia ad usare un bastone per colpire Stano, prima al volto e poi, al ventre approfittando che la zona fosse rimasta priva di protezione. Dunque, si sono verificate più condotte violente, armate, in ciascuno dei due contesti spazio-temporali.

Aggiunge il giudice che anche l’imputato Mazza Vincenzo partecipava a due raid: oltre quello dell’11 marzo in concorso con Spadavecchia, era infatti presente il 5 marzo alla brutale irruzione consumata da un folto gruppo di soggetti mascherati durante la quale, ancora una volta, Stano veniva picchiato, deriso, dileggiato.

Quanto a Lamusta, sono stati accertati ben sei episodi cui egli ha dichiarato di aver partecipato, con almeno tre episodi in cui vi è stata violenza fisica grave, di cui due incursioni all’interno dell’abitazione – quella del 14 marzo – e quella ove, sfondata la porta, lancia bottiglie di vetro sul pavimento del corridoio – espressione di reiterate condotte violente.

Infine, il GUP ritiene, senza alcun dubbio, che vi sia concorso di persone nel reato, anche con i minorenni indicati nel capo di imputazione, essendo evidente che vi sia stato un contributo materiale ai fatti (almeno sei episodi per Lamusta e due per Mazza e Spadavecchia).

E’ noto che ai fini della configurabilità della fattispecie di concorso ex art. 110 c.p., che è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, abbia aumentato la possibilità di produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti.

Quanto a LAMUSTA Gregorio, per sua stessa ammissione, oltre che secondo quanto emerso dalle risultanze d’indagine sopra compendiate, vi è prova della partecipazione a sei incursioni violente presso l’abitazione dello Stano e accompagnava in macchina i suoi complici che, diversamente, avrebbero avuto difficoltà se non impossibilità a recarsi presso l’abitazione della vittima in quanto minorenni, privi di patente di guida e di auto. Ancora, forniva il proprio telefono cellulare al gruppo per filmare le orrende scene di sopraffazione e violenza in danno della vittima nonché per inviare agli altri imputati minori Pisano e al Raho i filmati registrati sul suo telefono e consentire agli stessi di farli girare nella chat di cui era partecipante (c.d.Comitiva di Orfanelli), oltre che in altre chat.

E’ stato, comunque, presente a quelle aggressioni ridendo, assecondandole, non ostacolandole: sicchè non aveva alcun valore che egli, come gli altri imputati rispetto agli episodi loro contestati, avesse o meno materialmente colpito la vittima poiché la sua presenza, la messa a disposizione di auto e cellulare, il suo fare ingresso arbitrario e violento nell’abitazione dell’uomo, il suo solo ridere di quanto eventualmente altri facevano (materialmente)  è un contributo che rafforzava nei correi la determinazione criminosa.

Stessa valutazione può essere estesa agli altri due imputati. Spadavecchia era presente all’aggressione avvenuta in casa della vittima con i bastoni di cui si è detto (14 marzo). Il report di Pisano in chat indica che l’imputato aveva colpito al volto l’uomo e le immagini lo confermano. Lo Spadavecchia, infatti, è stato ripreso all’interno della stanza mentre colpiva insieme agli altri Stano ed è impossibile quindi che non si sia reso conto dell’azione degli altri. Ma anche la sua presenza all’incursione dell’11 marzo attesta un contributo almeno di rafforzamento del proposito criminoso altrui in quanto Spadavecchia, più grande di 4/5 anni rispetto ai minorenni, con loro si associa, condivide l’idea di compiere un raid sopraggiungendo quando Raho è già armato di mazza presso l’abitazione di Stano, assiste alle implorazioni dell’uomo e ai colpi sferzati da Raho agevolandone la scorribanda di gruppo.

Anche l’altro imputato Mazza Vincenzo, del pari, ha contribuito sicuramente all’esecuzione dei raid del 5 marzo: organizzava con gli altri l’incontro serale, si offriva di portare una propria maschera di carnevale a chi ne avesse bisogno, si presentava a casa di Stano che veniva picchiato e dileggiato dal gruppo, immortalato nella foto che lo stesso Mazza, qualche ora dopo, reclamava dal gruppo. L’11 marzo, comunque, sopraggiungeva con il suo gruppo perché convocato presso l’abitazione di stano e aderiva a quanto si stava compiendo con la presenza incondizionata.

Come prima evidenziato, l’evento del delitto di tortura consiste in acute sofferenze fisiche o, alternativamente, un verificabile trauma psichico.

Il primo evento implica un dolore di intensità notevole, maggiore rispetto a quanto può discendere, per esempio, dalle percosse, ma che non provoca lesioni personali che costituiscono circostanza aggravante dell’art. 613 c.p. La previsione si giustifica per la necessità di perseguire anche quelle forme di tortura che non lasciano segni sul corpo della vittima e non danno origine a vere e proprie patologie psichiatriche (per es. la privazione prolungata del sonno).

Per trauma psichico verificabile – evento alternativo – si intende un evento che, per le sue caratteristiche, risulta “non integrabile” nel sistema psichico pregresso della persona e, perciò, minaccia di frammentarne la coesione mentale.

Il giudice illustra in modo analitico i sintomi che si possono presentare in seguito ad un’esperienza traumatica. Essi variano a seconda della gravità del trauma psicologico, ma, soprattutto, dipendono dalla risposta soggettiva di chi lo ha subito.

Il disturbo tipico è quello d’ansia caratterizzato da vari sintomi tra cui compaiono:

  • paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore;
  • rivivere costantemente l’evento traumatico con immagini, pensieri o percezioni ricorrenti e intrusive, sogni;
  • evitare pensieri, attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma, incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma;
  • stato di incuranza e abbandono, disinteresse.

Il trauma psichico, inoltre, deve essere verificabile: traslando il concetto dalla giurisprudenza formatisi in relazione all’art. 612-bis, c.p., non è richiesto né un riscontro nosografico né peritale, bastando un accertamento probatorio fondato sul rinvenimento di indici rivelatori dell’esperienza traumatica, come indicato dalla Suprema Corte, secondo cui “gli indici rivelatori sono ricavabili dalle dichiarazioni della vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta dell’agente e da quest’ultima, considerando la sua astratta idoneità a causare tale effetto destabilizzante in una persona comune, quanto il profilo concreto in relazione alle effettive condizioni di tempo e luogo in cui è stata consumata.[45]  

Conclude il giudice che certamente il sig. Stano ha subìto un trauma psichico dalle condotte in esame che si è manifestato con un profondo stato di timore, prostrazione e dissociazione

In sostanza, sono state accertate scorribande notturne in danno di un uomo che era divenuto il bersaglio di un branco di piccoli criminali che ne danneggiava le cose, l’aggrediva immotivatamente nella persona, ne violava il domicilio, ne violentava la dignità, umiliandolo, denigrandolo, dileggiandolo, nella assoluta incapacità di reazione di lui.

E’ evidente che il pover’uomo stesse manifestando un disagio profondo che lo aveva condotto a sottrarsi a qualsiasi contatto con l’esterno, a non riuscire a ricordare neppure i volti degli aggressori, a lasciarsi andare ad una apatia generale: trattasi, allora, di quella situazione che dalla psicologia clinica viene descritta come “trauma da evitamento”, inteso come “modalità di pensiero persistente e invalidante che non consente all’individuo di affrontare una situazione temuta”.

La vittima, poi, deve trovarsi in condizioni di minorata difesa (o essere stata privata della libertà o essere soggetta alla potestà, latu sensu, dell’autore).

La valutazione della minorata difesa, secondo la giurisprudenza, “va operata dal giudice valorizzando situazioni che, nel singolo caso, abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato,,[46]

Ad avviso del giudice è indubitabile che il sig. Stano fosse vittima vulnerabile.

Con riferimento alle condizioni fisiche e psichiche gli investigatori acquisivano documentazione presso la Marina Militare Direzione di Taranto, datore di lavoro, segnatamente una certificazione del 7 aprile 2006 nella quale si attesta, la sussistenza di assoluta inabilità a . svolgere qualsiasi attività lavorativa, riconoscendo “disturbo cronico dell’umore a significativa incidenza funzionale”: tali affezioni psichiche si erano già manifestate nell’anno 2004.

A tali affezioni psichiche si aggiunga che lo stesso viveva da solo, non aveva familiari e parenti che gli facessero visita neppure durante le festività; non aveva una vita sociale che non fosse fare la spesa e salutare i vicini restando sull’uscio; non aveva neppure un telefono, con cui contattare qualcuno nel caso di bisogno.

Tale stato di minorata difesa era noto agli imputati: Spadavecchia e Lamusta hanno ammesso che la vittima era nota in paese con l’appellativo “il pazzo”. Mazza era a conoscenza della chat “Comitiva degli Orfanelli”, sicchè ne conosceva le imprese.

Il giudice ha anche evidenziato che i raid, poi, avvenivano a sera tarda e di notte quando la zona circostante all’abitazione di Stano era deserta, non vi erano telecamere esterne (come ben sapevano gli imputati) e la possibilità di interventi di terzi in soccorso era di difficile verificazione: secondo la Corte di Cassazione, è stato sostenuto che la commissione del fatto criminoso in ora notturna integri di per sé gli estremi dell’aggravante di minorata difesa.

Inoltre, il giudice sottolinea, correttamente, che il dolo è generico e, secondo la prevalente interpretazione, non compatibile con il dolo eventuale; per la sua integrazione è sufficiente la coscienza e volontà della singola condotta degradante e lesiva della libertà morale della vittima.

Nel caso di specie, il giudice ritiene che l’elemento soggettivo sussista per tutti gli imputati che hanno posto in essere comportamenti che integrano di per sé condotte rilevanti ai fini del delitto di tortura, materializzate dalla partecipazione attiva o, comunque, dal contributo agevolatore garantito ai concorrenti nel reato.

Osserva, poi, il giudice che le lesioni in esame sono quelle riscontrate dai sanitari dell’ospedale civile di Manduria sul sig. Antonio Stano all’atto del ricovero e che la Pubblica Accusa aveva  contestato la circostanza aggravante prevista al quarto comma dell’art. 613-bis, c.p., che impone un aumento di pena nel caso dai fatti di cui al primo comma derivi una lesione personale, con incremento a seconda che sia grave o gravissima.

Lo stesso giudice ritiene, che secondo l’orientamento dottrinario più accreditato, il reato circostanziato in esame è modellato sui c.d. delitti aggravati dall’evento, nel senso che non è richiesto che il fatto prodotto – le lesioni personali – sia voluto dall’agente. Tale assunto muove dal raffronto con il quinto comma: si assume che, se il legislatore ha espressamente distinto l’evento “morte” quale conseguenza non voluta da quella voluta, ha inteso rimarcare che un evento ulteriore rispetto a quello di cui al primo comma, ove voluto dall’agente, costituisce reato autonomo.

Sulla scorta di tale modello, il giudice evidenzia che l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, certamente estensivo,  secondo il quale il concetto di malattia comprende ogni alterazione di un organo e, dunque, anche semplici graffi[47]; difficoltà respiratorie e nausea[48]; “cervicalgia”[49]; “ecchimosi”[50]; “crisi ipertensiva”[51]; “contusione”[52] e, sul piano psichico, palpitazioni e stato ansioso[53], deriverebbe che l’aggravante in questione dovrebbe essere contestata in modo pressocchè costante. Infatti, nelle “acute sofferenze fisiche” e “trauma psichico” di cui al primo comma, ben possono essere ricomprese, con una prevedibile frequenza, lesioni del tipo di quelle innanzi descritte.

Ne consegue, allora, che la tenuta del sistema sanzionatorio imponga, per giustificare l’aumento di pena, che la circostanza aggravante sia integrata da un quid pluris, dato non dalla mera alterazione – che potrebbe essere assorbita nell’evento alternativo di cui al primo comma – ma dalla compromissione della funzionalità dell’organismo colpito da un processo patologico.[54]

Sulla base di tali orientamenti giurisprudenziali e dottrinari il giudice, accedendo all’interpretazione “funzionalistica” più rigorosa del concetto di lesione, quelle riscontrate dai sanitari all’atto del ricovero del sig. Stano non integrano la circostanza aggravante contestata.

Sulla scorta degli elementi accertati il perito concludeva che il sig. Stano Antonio Cosimo era deceduto a seguito delle complicanze cardiocircolatorie insorte dopo comparsa di emorragia digestiva.

E’ emerso dalla documentazione in atti (verbali di sommarie informazioni nonché dai filmati video), che il paziente era da tempo vittima di vessazioni, molestie, soprusi nonché lesioni fisiche che hanno potuto indurre uno stato d’ansia, malessere ed agitazione in un soggetto con una pre-esistente patologia psichiatrica cronica non meglio precisata, tali da esasperare, elicitare, il quadro morboso già esistente.

E’ del tutto ipotizzabile, dunque, che l’ulcera, secondo i periti, si fosse resa manifesta e, dunque sintomatica, già giorni addietro, tuttavia lo Stano preferì non sottoporsi ad alcuna valutazione clinica, ma “semplicemente” sospese la nutrizione e l’alimentazione. Tali provvedimenti peggiorarono le condizioni fisiche e psichiche già precarie fino al punto di renderle ancor più scadenti.

A fronte delle divergenti conclusioni tra il consulente dell’accusa e di quelle della difesa (che escludevano qualsiasi rilevanza allo stress), il GUP riteneva indispensabile, ai fini della decisione, procedere allo svolgimento di una perizia medica.

I periti concludevano che “Alla luce delle suddette considerazioni, tenuto conto delle caratteristiche, intensità e durata degli eventi “stressanti” a cui lo Stano fu sottoposto, riteniamo che lo stress può aver concorso a determinare la patologia ulcerosa riscontrata e/o la sua riacutizzazione”.

Tale situazione determinò, con elevata probabilità, un ritardo nel ricorso alle cure sanitarie e, conseguentemente, un ritardo nella diagnosi della complicanza dell’ulcera duodenale, con notevoli ripercussioni sulle condizioni cliniche con cui il paziente affrontò l’intervento chirurgico del 06 aprile 2019, ove si evidenziò che la perforazione risaliva ad almeno 12-24 ore prima del suo riscontro, lasso temporale ritenuto necessario a che una peritonite chimica, subisca il viraggio in peritonite purulenta”.

In considerazione delle predette risultanze medico-legali, la sentenza sostiene che nel caso di specie non sia possibile imputare causalmente il decesso del sig. Stano alle condotte degli imputati.

A tal uopo si evidenzia, in primo luogo, che le valutazioni si fondano sia sulla perizia che sulle consulenze di parte, senza privilegio specifico ad una di esse, ove lo stress, nel caso di specie, non potrebbe essere individuato come fattore di rischio per la mancata conoscenza della sussistenza degli altri fattori, sì da non consentire una ricostruzione scientificamente valida della eziologia della patologia ulcerosa.

Ciò posto, l’aggravante in esame pone l’evento morte a carico del soggetto quale causa non voluta. E’ modellata, dunque, sulla falsariga dei delitti aggravati dall’evento che richiedono un doppio percorso probatorio: la dimostrazione di una condotta che abbia inciso sulla integrità fisica della vittima e la imputabilità causale dell’evento morte a tale condotta, in termini esclusivi o concorrenti, secondo le norme di cui all’art. 41 c.p.

In giurisprudenza è stato più volte ribadito, che sono cause sopravvenute o preesistenti, da sole sufficienti a determinare l’evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta dell’imputato, sicché non possono essere considerate tali quelle che abbiano causato l’evento in sinergia con la condotta dell’imputato stesso, atteso che, venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato. Non sono dunque cause da sole sufficienti a determinare l’evento quelle che operano “in unione” con la condotta dell’imputato.

In una sentenza si analizza, per esempio, una fattispecie nella quale erano state inferte percosse, con un bastone, calci e pugni, ad un soggetto portatore di gravi affezioni al sistema cardio-circolatorio ed assuntore di sostanze stupefacenti. Il ragionamento ivi formulato prevedeva, in sintesi, che ipotizzando, in astratto, la esclusione di una delle due cause, effettuando vale a dire la cd. verifica controfattuale, si giungeva alla conclusione che i fatti sopraggiunti – siano essi rappresentati da avvenimenti naturali o da condotte umane – non possano apprezzarsi nell’ottica della loro efficienza causale come del tutto indipendenti dalla condotta del soggetto agente.

Invero, la causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, è certamente anche quella che, pur inserendosi nella serie causale dipendente dalla condotta dell’imputato, agisce per esclusiva forza propria nella determinazione dell’evento stesso, in modo che la condotta dell’imputato assume, rispetto all’evento, non il ruolo di fattore causale, ma di semplice occasione.

Esiste d’altra parte giurisprudenza consolidata che in più occasioni ha stabilito che non integrano cause sopravvenute escludenti il rapporto di causalità, tanto le eventuali omissioni e colpe dei sanitari, quanto le complicazioni operatorie e postoperatorie, ed infine, lo stesso comportamento della vittima di rifiuto di cure e terapie.

Trasfondendo questi principi nel caso di specie, l’imputazione a carico della gang individua la condotta contestata – produttiva di stress – sia quale causa della insorgenza/complicanza della patologia ulcerosa duodenale; sia quale concausa dell’aggravamento di essa in quanto determinava la vittima a un prolungato digiuno nella settimana precedente il ricovero e a non sottoporsi a cure, con conseguente ritardo nella diagnosi e sulle condizioni cliniche della vittima stessa.

Nel caso in esame, il giudice ritiene che, da quanto è potuto emergere dalla documentazione in atti, è ragionevole presumere che il quadro di ulcera duodenale di cui fu vittima il paziente abbia potuto trovare quantomeno una concausa nelle circostanze di vessazione di cui fu vittima lo Stano.

Tuttavia, la catena causale non può essere ricostruita come quella serie di eventi che, partendo dallo stress provocato dagli imputati su un soggetto disabile, determinò l’ulcera peptica e la sua complicanza, ovvero che il ritiro sociale cui la vittima si era indotta determinò la morte in tempi diversi. In primo luogo, lo stress correlato agli imputati non può essere qualificato come “cronico”, perchè la condotta contestata agli imputati, anche ravvisando il concorso ex art. 110 c.p., con quella contestata ai minori individuati nei processi innanzi al Tribunale per i Minorenni, è fortemente circoscritta nel tempo e non assurge ad un livello di somatizzazione. Soprattutto, vi è una mancanza di prova scientifica che le complicanze siano prevenibili anche in presenza di un trattamento farmacologico. Tutto ciò non consente di concludere, che l’evento morte, hic et nunc, non si sarebbe verificato con elevata probabilità.

Per quanto concerne i reati di danneggiamento e violazione di domicilio, la sentenza rammenta che nel corso delle diverse incursioni nell’appartamento del sig. Stano, vari sono stati i danni arrecati alle cose e ritiene che tutti gli imputati possono essere ritenuti responsabili dei predetti reati, valendo le regole del concorso di persone nel reato, posto che ciascuno ha contribuito certamente con la propria presenza a rafforzare il proposito criminoso altrui. Sotto il profilo della qualificazione giuridica, trattasi di un danneggiamento aggravato, in quanto, per costante orientamento giurisprudenziale “integra un’ipotesi di danneggiamento aggravato, commesso su cose esposte alla pubblica fede, la forzatura della porta di ingresso di un’abitazione affacciata sulla pubblica via, a nulla rilevando che all’interno sia presente il proprietario, giacché questi non può esercitare alcuna resistenza”.[55]

Corretta è, poi, la configurazione dell’aggravante della violenza sulle cose posto che l’azione è stata esercitata direttamente sulla res e ha determinato anche la forzatura, la rottura, il danneggiamento della stessa.[56]

Per entrambe le fattispecie, è condivisibile anche la previsione dell’aggravante c.d. teleologica in quanto la violenza sulle cose è stata usata anche per commettere un altro reato, ossia quello di tortura[57]; nonché l’aggravante di cui all’art. 112, n.1 e 4 c.p., intesa come “simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento di realizzazione della condotta violenta”.

Quanto alle lesioni personali, contestate ad altro soggetto disabile, per il giudice sussiste la responsabilità degli imputati Spadavecchia e Lamusta, in quanto l’azione violenta è stata commessa materialmente dal primo che, dopo un diverbio con la vittima, sferrava un calcio e l’afferrava dal collo, quindi la trascinava in terra e la colpiva al volto, con la divertita presenza del Lamusta e degli altri che si guardavano bene dall’intervenire a difesa del sig. Stano. Vi è solo una timida esortazione a smettere di colpire l’uomo, senza neppure troppa convinzione e, perciò, irrilevante anche ai soli fini di attenuazione della gravità del fatto per il Lamusta.

Le modalità dell’aggressione sono estremamente eloquenti del dolo del delitto contestato, essendo stati i colpi inferti con particolare brutalità e in zone anatomiche altamente vulnerabili.

Ciò posto, la certificazione medica acquisita, acclara nella vittima l’avulsione totale e parziale di quattro denti, con necessità di sottoposizione a intervento chirurgico per l’apposizione di una protesi dentaria. Si tratta, dunque, di lesioni personali gravi in quanto vi è stato un indebolimento permanente di un organo deputato alla masticazione, dunque una compromissione funzionale e perdurante dell’arcata dentale. E’ noto, infatti, che “la perdita di uno o più denti costituisce indebolimento della masticazione allorché la menomazione anatomica, si traduce in una apprezzabile menomazione della funzione masticatoria, a nulla rilevando il grado di debilitazione e la possibilità di restauro mediante protesi”.[58]

Quanto all’art. 61, n. 1,c.p., è noto che “Le circostanze aggravanti dei “motivi futili” e di quelli “abietti” possono tra loro coesistere allorchè il delitto sia, contemporaneamente, espressione di un impulso sproporzionato alla causa scatenante e tale da costituire un mero pretesto di uno sfogo violento e di una ragione spregevole, idonea a cagionare sentimenti di ripugnanza”.[59] L’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi  “…si svolge  con metodo bifasico e richiede la duplice verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, e del dato soggettivo, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale”.[60]

Evidente, allora, è che Spadavecchia abbia reagito in modo sproporzionato alla timida resistenza verbale del sig. Stano, giustamente irritato di essere stato svegliato nel cuore della notte; risulta  chiaro che si sia trattato di uno sfogo del proprio impulso criminale, dimostrativo di una presunta egemonia su un soggetto adulto, ma debole perché disabile, dal quale traeva una perversa e riprovevole soddisfazione unitamente ai compagni.

Tale aggravante, pur avendo natura soggettiva, è estensibile al concorrente Lamusta che, con il proprio volontario contributo (la presenza e la permanenza sul luogo del fatto, le risate, il mancato intervento per far cessare l’aggressione), ha dato adesione alla realizzazione dell’evento, “rappresentandosi e condividendo gli sviluppi dell’azione esecutiva posta in essere dall’autore materiale del pestaggio e, perciò, maturando e facendo propria la particolare intensità del dolo che assisteva quest’ultimo”.[61]

Secondo la dott,ssa Gilli ricorre, del pari, l’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p.. Infatti, richiamando i principi giurisprudenziali enunciati analizzando il delitto di tortura è innegabile che gli imputati abbiano approfittato delle condizioni di tempo, luogo e di persona, considerato che agivano di notte, quando la circolazione di persone era scarna, in una via non particolarmente trafficata, confidando sul fatto che difficilmente qualcuno poteva soccorrere l’uomo.

Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio il GUP osserva preliminarmente che il parametro di riferimento per commisurare la pena, ai sensi dell’art. 133 c.p., è la gravità del fatto, desunta da indici oggettivi e soggettivi analiticamente ivi indicati e ritiene che, alla luce di tali criteri, i fatti in esame sono gravissimi per tutti gli imputati.

La connotazione negativa è di estrema valenza perché si è trattato di aggressioni in branco, di sortite notturne organizzate, preordinate, comunque concordate all’unisono dai partecipi. E durante quelle incursioni, mai un momento di desistenza, di pietà umana, di compassione nonostante sapessero che la vittima era un uomo con un deficit cognitivo, incapace di reagire. Gli imputati hanno tratto divertimento e soddisfazione dal tormentare, svegliare di notte, braccare, inseguire, malmenare, dileggiare, umiliare lo Stano. Hanno tratto da questa brutalità un insano godimento, un perverso compiacimento nel porre un uomo anziano in una condizione di sudditanza, fisica e psichica. Erano così divertiti delle proprie imprese da registrarle, commentarle, far circolare i video che le immortalavano.

Ancora il giudice afferma che, se poi si guarda ai motivi che hanno offerto gli imputati a  spiegazione del loro agire, sorge lo sconcerto: il primo perché, non avendo prima di allora frequentato una comitiva e trascorrendo il tempo libero in solitudine, non voleva rischiare di essere isolato e respinto dal gruppo qualora non avesse assecondato quei comportamenti; il secondo addirittura per gioco.

Si è in presenza, quindi, di una totale mancanza di consapevolezza del disvalore delle azioni compiute; personalità negative che, nonostante la giovane età, si sono rivelate spregiudicate e prive di sensibilità verso i deboli e gli indifesi.

Tutte le citate considerazioni hanno suggerito di determinare la pena in misura prossima al massimo edittale.

Si ritiene sussistente, poi, secondo i principi generali, il vincolo di continuazione tra i fatti, con conseguente aumento di pena, trattandosi di delitti commessi in esecuzione di una unica delibazione volitiva, almeno nei tratti essenziali, finalizzata a soddisfare un’inclinazione malvagia che trovava linfa nell’azione del branco, in danno di una vittima vulnerabile.

Come detto, è stata, quindi, ritenuta equa per gli imputati Lamusta e Spatavecchia la pena di dieci anni di reclusione e per Mazza la pena di anni otto e mesi otto di reclusione.

Seguono, altresì, inflitte le pene accessorie previste per legge in relazione al quantum di pena inflitta; nonché la misura di sicurezza della libertà vigilata per tre anni, dopo l’esecuzione della pena, attesa la necessità di monitorare i soggetti la cui pericolosità sociale è stata ampiamente dimostrata dai fatti odierni.

Con riferimento alle statuizioni civili, la sentenza osserva che l’unicità dell’atto e il riferimento congiunto all’esercizio dell’azione civile iure proprio e iure hereditatis impongono alcune precisazioni.

La parte civile Lucia Stano, nella qualità di sorella ed unica erede del sig. Antonio Stano, secondo le regole in materia successoria nel caso di successione legittima di persona deceduta in assenza di coniuge e figli, ha correttamente esercitato l’azione civile sia iure hereditatis che iure proprio, per il ristoro dei danni patrimoniali e soprattutto non patrimoniali sofferti.[62]

La parte civile Bruto Vittorio Luigi, invece, non essendo erede, ha potuto solo agire iure proprio ossia per la perdita del legame di affectio familiaris quale diritto alla integrità morale statuito anche costituzionalmente come diritto inalienabile (art. 2 Costituzione).

Ebbene, il diritto degli eredi legittimi della persona offesa che agiscono iure hereditatis, comprende sia il danno patrimoniale che morale in quanto nel patrimonio del de cuius rientrano sia i diritti patrimoniali scaturenti dai danni provocati dal reato; sia i danni morali, quantificabili in somme di denaro, per le sofferenze morali patite dalla defunta parte lesa per i reati commessi in suo danno.

Nel caso di specie, dunque, la parte civile Lucia Stano, quale erede, è stata meritevole del risarcimento dei danni in luogo del de cuius sia per i diritti patrimoniali scaturiti dai danni provocati dai reati in suo danno perpetrati dagli imputati; che per i danni morali ossia per le sofferenze morali patite dalla defunta parte lesa per i reati commessi a suo carico dagli stessi imputati.

Il diritto al risarcimento del danno da reato, iure proprio, consiste, invece, nel riconoscimento a un soggetto congiunto o legato alla vittima da affectio familiaris di un ristoro per i danni patrimoniali e non che quel fatto illecito le ha prodotto direttamente. Dunque, si tratta di una valutazione economica di quanto quel reato abbia inciso negativamente sulla integrità morale della parte civile.

Mentre, ritiene la sentenza, che le parti civili suindicate non possano vantare una pretesa risarcitoria iure proprio, non essendo stata dimostrata dalle stesse, né emergendo dagli atti processuali, la sussistenza di un proprio danno patrimoniale ovvero morale quale sofferenza latu sensu derivante dai reati commessi in danno della vittima.

Quanto al danno non patrimoniale, il GUP ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale che richiede, ai fini del riconoscimento di un diritto ai danni morali subiti con conseguenza del reato, che vi sia prova di un legame affettivo con la parte offesa stabile e duraturo, ancorchè non ancorato alla convivenza o alla assiduità di frequentazione (in un caso, per esempio, è stato escluso il diritto al risarcimento dei danni morali – in una relazione zio/nipote – poiché lo scambio di messaggi telefonici e su social network non consentiva di qualificare il legame in termini di affectio familiaris)[63]

Trasfondendo questi principi al caso di specie, le risultanze processuali hanno fatto emergere l’assenza totale di un legame affettivo, in qualunque modo coltivato, tra le parti civili e il sig. Antonio Stano.

Alla luce di questi elementi, la sentenza correttamente esclude il diritto al risarcimento del danno iure proprio per entrambe le parti civili, delegando al giudice civile la liquidazione del risarcimento dei danni in favore della parte civile Stano Lucia, iure hereditatis, non essendo emersi elementi che consentano di procedervi.

Riconosce, altresì, il risarcimento del danno, patrimoniale e non, in favore della parte civile Fiorello Stano, essendovi prova della sussistenza del delitto di lesioni, degli autori di esso, del grado di intensità del dolo, dei danni prodotti (avulsione di un dente e mobilità di altri tre, con intervento specialistico odontoiatrico).

Conclusioni

Alla luce delle considerazioni svolte può ritenersi che l’introduzione degli artt. 613-bis e 613-ter c.p. può essere qualificata come un’evoluzione di carattere positivo sul terreno politico-culturale. La circostanza che oggi sia possibile accertare se specifici modus agendi possano essere configurati come una tortura è una questione rilevante nella prospettiva del consolidamento della cultura dei diritti umani e della lotta avverso l’impunità per la violazione di questi. Quindi, l’entrata in vigore della legge n. 110/2017, che ha inserito il reato di tortura all’interno del codice penale, ha segnato una “tappa epocale”.[64]

Tuttavia, si deve però osservare che il nuovo reato di tortura non ha soddisfatto pienamente le attese. Come è stato rilevato, “l’ansia di criminalizzazione ad ampio raggio”[65] che ha mosso il parlamento consegna all’interprete “una disposizione caratterizzata da forti deficit di determinatezza, destinati ad incidere negativamente sulla capacità selettiva della fattispecie”. Sarà compito della prassi applicativa, sapientemente avviata con il provvedimento in esame, definire e delineare i contenuti della norma, in particolare con riferimento alla natura di circostanza aggravante o fattispecie autonoma del comma 2, alle oggettive caratteristiche di un’azione crudele e ai presupposti per la verificazione dei due eventi alternativi previsti.

La dolorosa vicenda in argomento ci deve far riflettere sulla circostanza che i giovani in questione non sono estranei, ma sono della nostra stessa famiglia e ci appartengono. Essi sono il portato della nostra società, caratterizzata dalla negazione dei valori del rispetto della vita umana, delle persone anziane e del principio di solidarietà e dall’esaltazione dei principi della violenza, del consumismo e della superficialità.

Inoltre il caso in questione evidenzia le gravi responsabilità della famiglia, della scuola, dei vicini di casa che si erano accorti delle violenze perpetrate ai danni della vittima già da vari anni ed erano rimasti inermi, attivandosi solo pochi giorni prima che la vicenda degenerasse con il ricovero della vittima in ospedale.

La tortura è una patologia difficile da valutare. Lo scopo vero della tortura non è quello di estorcere informazioni o trarre utilità dal torturato quanto di annientare la persona, il voler mettere a tacere una voce e una storia intera.

La tortura è una pratica che invade tutta la vita. Resta per sempre, viene interiorizzata nel ricordo, nella paura e nel senso della propria debolezza.

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Note

[1]           S. Tonesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in Giurisprudenza Penale, web, 11.

[2]           C. Fioravanti, Divieto di tortura e ordinamento italiano: sempre in contrasto con gli obblighi internazionali?, in Quad. Cost., 2004, pp.555 ss.

 

[3]                P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1985.

[4]                 F. Bilancia, Anche l’Europa condanna la violenza di Stato, in Autori Vari, Tortura di Stato: le ferite della democrazia, Roma, 2004, p.166.

[5]                A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. Pen. cont., 1/2011, p.222.

[6]           Amnesty International, Rapporto 2012, Roma, 2013, pp. 478 ss.

[7]           I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. Pen. Cont, 31 luglio 2017, p.9.

[8]           I. Marchi, ibidem.

[9]              G. Lanza, Verso l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale italiano: una fatica di Sisifo. Un’analisi dei “lavori in corso” anche alla luce della pronuncia della corte CEDU sul caso Cestaro c. Italia, in Dir, pen. Cont., 28 febbraio 2016

[10]         A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de jure condendo, in Dir. Pen. Cont., 22 luglio 2014, pp. 30-31.

[11]         D. Falcinelli, Il delitto di tortura, prove di oggettivismo penale, in Arch. Pen., 3/2017, 25 settembre 2017.

[12]            I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p. cit., pag. 5.

[13]         In questi termini si è espresso il Servizio studi della Camera dei deputati, XVII Legislatura.

[14]         D. Falcinelli, Il delitto di tortura, prove di oggettivismo penale, cit. p.25; F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei deputati, in Dir. Pen. Cont., 25 settembre 2014.

[15]              I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p. cit., pag. 6.

 

[16]           In questi termini I. Marchi, ibidem.

[17]         D. Falcinelli, Il delitto di tortura, prove di oggettivismo penale, cit. p.26.

[18]         D. Falcinelli, Il delitto di tortura, prove di oggettivismo penale, ibidem.

[19]         Si vedano Corte Costituzionale sentenze del 2 aprile 1980, n. 50 e del 23 marzo 2012, n.68.

[20]         M. Passione – L. Eusebi, Giusizia: reato di tortura? Cambiatelo, o sarà inutile, passim.

[21]           I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p. cit., pag. 12.

[22]            Si veda sentenza n. 222 del 2018.

[23]         D. Falcinelli, Il delitto di tortura, prove di oggettivismo penale, cit. p.28.

[24]         Il codice penale prevede altre fattispecie delittuose ove è punita la condotta di istigazione, come l’art. 414 (istigazione a delinquere) e l’art. 415 (istigazione a disobbedire alle leggi).

[25]            S. Tonesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica cit. pag. 14.

[26]         Si veda sentenza n. 37317 resa il 15 maggio 2018.

[27]           Si veda sentenza n.47079 dell’8 luglio 2019.

[28]            Si veda la sentenza n. 50208 dell’11 ottobre 2019.

[29]         Dispositivo di sentenza n. 224/20

[30]          L. Marturano, Il contestato reato di tortura nella dottrina e nella giurisprudenza, in Diritto24 – Il Sole 24 ore, 8 giugno 2020.

[31]         Si vedano sentenze Cassazione penale, sez. V, n.7012 del 1995 e sez. IV n. 145 del 1992.

[32]         Si veda sentenza Cassazione penale, Sezioni Unite n. 9977 del 2008.

[33]            Si veda sentenza Cassazione penale, Sezioni Unite n. 20214 del 2014.

 

[34]         I. Borasi, Giudizio abbreviato, in AtalexPedia del 6 ottobre 2017.

[35]         Si veda sentenza Cassazione penale, Sezioni Unite n. 44711 del 2004.

[36]         Si veda sentenza Cassazione penale, Sezione IV, sent. n.51950 del 2016.

[37]              Si veda sentenza Cassazione penale, Sezioni Unite sent. n.45583 del 2007.

[38]         Si veda Cassazione, Sez. V, sent. del 12 dicembre 2017-2 febbraio 2018, n. 5176.

[39]         Si veda Cassazione. Sez. I, sent. del 20 dicembre 2017, n. 20185.

[40]           Si veda Cassazione Sezioni Unite, sent. del 23 giugno 2016, n. 40516.  

[41]           Si veda Cassazione. Sez. I, sent. del 14 ottobre 2014, n.2489

[42]         Si veda sent. della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7 aprile 2015 – Ricorso n. 6884/11 (Cestaro c. Italia).

[43]           Ibidem.

[44]            Si vedano Cassazione sez. V, sent. n. 20065/2014 e Cassazione sent. n. 48391/2014.

[45]            Si veda Cassazione penale n. 17795/2017.

[46]            Si veda Cassazione penale sent. del 2016 n. 28795.

[47]            Si veda Cassazione penale n.51393/2013.

[48]            Si veda Cassazione penale n. 46787/2013.

[49]            Si veda Cassazione penale n. 34387/2015.

[50]            Si veda Cassazione penale n..10986/2010;

[51]            Si veda Cassazione penale n. 54005/2017.

[52]         Si veda Cassazione penale n. 29786/16.

[53]              Si veda Cassazione penale n. 25066/2006.

[54]         Si veda Cassazione penale Sezioni Unite 2009, ric. Giuliani.

[55]              Si veda Cassazione penale sent. n. 8215 del 14 dicembre 2018.

[56]            Si veda Cassazione penale sent. n. 23579 del 19/02/2018.

[57]            Si veda Cassazione penale sent. n. 9084 del 19/01/2018.

[58]            Si veda Cassazione penale sent.  n. 989 del 28 ottobre 1985.

[59]              Si veda Cassazione penale sent.  n. 40090 del 07 giugno 2018.

[60]                   Si veda Cassazione penale sent.  n. 45138 del 27 giugno 2019.

[61]             Si veda Cassazione penale sent.  n..50405 del 10 luglio 2018.

[62]            Si veda Cassazione penale sent.  n.14251 del 05 aprile 2011.

[63]            Si veda Cassazione penale sent. n. 11428/2017.

[64]         I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p. cit p. 1.

[65]         I. Marchi ibidem.

Lorica Marturano

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