La Consulta dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 83 c.p.p.: vediamo come

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 83)

     Indice

  1. Il fatto
  2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  3. Le argomentazioni sostenute dall’Avvocatura generale dello Stato
  4. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
  5. Conclusioni

1. Il fatto

In un processo penale pendente presso il Tribunale di Roma, investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 590, secondo comma, in relazione all’art. 583, primo comma, del codice penale, per aver causato colposamente lesioni gravi ad altra persona esplodendo un colpo con la propria carabina nel corso di una battuta di caccia al cinghiale,  la persona offesa si era costituita parte civile per ottenere il risarcimento dei danni patiti e l’imputato aveva chiesto di chiamare in causa i propri assicuratori.

Orbene, a fronte di tale richiesta, il giudice aveva autorizzato la chiamata a seguito della quale si erano costituite due delle tre compagnie di assicurazione citate le quali, a loro volta, avevano tuttavia chiesto di essere escluse dal processo ai sensi dell’art. 86 cod. proc. pen..

Mutato il giudice, si rendeva dunque necessario decidere in ordine alla richiesta di esclusione.

Il “nuovo” giudice riteneva come siffatta richiesta potesse essere accolta posto che se, ai sensi dell’art. 83 cod. proc. pen., il responsabile civile può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile – oltre che del pubblico ministero, nel caso previsto dall’art. 77, comma 4, cod. proc. pen. – nonché, a seguito della sentenza n. 112 del 1998 della Consulta, a richiesta dell’imputato unicamente quando si tratti di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti) e, di conseguenza, nel caso in cui – come nella specie – l’imputato chiede la chiamata in causa del proprio assicuratore quale terzo responsabile in virtù dell’assicurazione obbligatoria prevista dall’art. 12 della legge n. 157 del 1992, la chiamata stessa dovrebbe essere considerata inammissibile, pur tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dal precedente giudice nel disporre la citazione dei terzi, ad avviso di quello che era subentrato, non sarebbe possibile applicare in via analogica a tale fattispecie il principio espresso dalla citata sentenza n. 112 del 1998 in quanto vi osterebbero, da un lato, il carattere eccezionale della disposizione introdotta da tale sentenza, a fronte della previsione generale per cui il responsabile civile può essere citato a richiesta della sola parte civile, da un altro lato, la lettera della norma non suscettibile di interpretazione estensiva, da un altro lato ancora, e soprattutto, il principio per cui gli effetti delle pronunce dichiarative dell’illegittimità costituzionale non possono essere estesi, sulla base degli argomenti esposti nella loro motivazione, a ipotesi diverse da quelle indicate nel dispositivo, e ciò tanto più in una materia, come quella in esame, nella quale – alla luce delle indicazioni della Corte costituzionale (sentenza n. 34 del 2018), richiedendosi particolare rigore nel valutare l’ingresso nel processo penale di parti diverse da quelle necessarie.

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

A fronte di tale situazione, il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, sollevava questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24 della Costituzione, dell’art. 83 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nel caso di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), l’assicuratore possa essere citato nel processo penale a richiesta dell’imputato.

In particolare, il rimettente ritenevano come le questioni prospettate sarebbero state rilevanti nel giudizio a quo, incidendo sulla decisione che era chiamato ad assumere nel senso che, se non fossero accolte, l’eventuale condanna dell’imputato al risarcimento del danno causato alla parte civile determinerebbe conseguenze economiche negative a carico dell’imputato stesso – ancora più evidenti nel caso di concessione di una provvisionale provvisoriamente esecutiva – sebbene egli fosse obbligatoriamente assicurato per l’esercizio dell’attività venatoria, costringendolo a promuovere un successivo giudizio civile al fine di vedersi manlevato dal proprio assicuratore.

Ciò posto, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo reputava che la norma censurata si ponga in contrasto, anzitutto, con l’art. 3, primo comma, Cost., sotto il medesimo profilo che ha portato il giudice delle leggi a dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 83 cod. proc. pen. con la sentenza n. 112 del 1998: vale a dire, l’irragionevole disparità di trattamento dell’imputato assoggettato all’azione di risarcimento del danno nel processo penale rispetto al convenuto con la stessa azione in sede civile, al quale è riconosciuto il diritto di chiamare in garanzia il proprio assicuratore.

Da un lato, infatti, il comma 8 dell’art. 12 della legge n. 157 del 1992 impone a chi esercita l’attività venatoria la conclusione di un contratto di assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi, similmente a quanto stabilisce, con riguardo alla circolazione dei veicoli a motore, l’art. 1 della legge n. 990 del 1969, e ora l’art. 122 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), dall’altro lato, il comma 10 dello stesso art. 12 della legge n. 157 del 1992 consente al danneggiato di agire in via diretta contro l’assicuratore del soggetto che ha causato il danno, allo stesso modo dell’art. 18 della legge n. 990 del 1969, e ora dell’art. 144, comma 1, del d.lgs. n. 209 del 2005.

L’unica differenza tra le due normative starebbe quindi nel fatto che nella legge n. 157 del 1992 non figura una disposizione analoga a quella dell’art. 23 della legge n. 990 del 1969 – e ora dell’art. 144, comma 3, del d.lgs. n. 209 del 2005 –, che stabilisce il litisconsorzio necessario di assicuratore e responsabile del danno nel caso di azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore.

A prescindere, peraltro, dalla considerazione che la giurisprudenza civile di legittimità – con indirizzo qualificabile, secondo il rimettente, come diritto vivente – parrebbe riconoscere la sussistenza di tale litisconsorzio anche in relazione all’assicurazione obbligatoria prevista dalla legge sulla caccia, verrebbe soprattutto in rilievo, al fine di far risaltare la denunciata disparità di trattamento – oltre alla possibilità dell’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore, terzo responsabile ex lege –, il rapporto di garanzia tra assicurato e assicuratore, che consente all’assicurato, ove convenuto in giudizio, di chiamare in causa il proprio assicuratore ai sensi dell’art. 1917 del codice civile atteso che la sentenza n. 34 del 2018 della Consulta, nel precisare l’esatta portata dei principi affermati dalla sentenza n. 112 del 1998, ha posto in evidenza la «“funzione plurima” del rapporto di garanzia» derivante dall’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica «in quanto destinato a salvaguardare direttamente sia la vittima, sia il danneggiante», potendo la prima agire in via diretta contro l’assicuratore e potendo il secondo chiamare in giudizio il proprio assicuratore al fine di essere manlevato.

In particolare, a tale duplice funzione del rapporto di garanzia si è ritenuto che «dovesse necessariamente corrispondere l’allineamento, anche in sede penale, dei poteri processuali di “chiamata” riconosciuti in sede civile, onde evitare che l’effettività della predetta funzione venga pregiudicata dalla scelta del danneggiato di far valere la sua pretesa risarcitoria mediante costituzione di parte civile nel processo penale, anziché nella sede naturale».

Analogo allineamento si imporrebbe, pertanto, per il giudice rimettente, anche nel caso di sinistro derivante dall’esercizio dell’attività venatoria.

Oltre a ciò, il giudice a quo stimava inoltre come la norma censurata violerebbe, inoltre, l’art. 24 Cost. poiché l’imputato, nei cui confronti era stata proposta nel processo penale una domanda per il risarcimento dei danni provocati da un incidente di caccia, verrebbe privato del diritto di difendersi con gli stessi strumenti e con le medesime garanzie accordati al convenuto in sede civile con identica azione.

3. Le argomentazioni sostenute dall’Avvocatura generale dello Stato

Interveniva nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate manifestamente infondate.

Nel dettaglio, l’interveniente rilevava come la Consulta abbia già dichiarato non fondate, con la sentenza n. 34 del 2018, analoghe questioni di legittimità costituzionale, sollevate con riferimento all’assicurazione obbligatoria dei notai per i rischi derivanti dall’attività professionale, essendosi nell’occasione posto in evidenza come l’esatta portata dei principi affermati dalla sentenza n. 112 del 1998 sia stata precisata con successive pronunce – la sentenza n. 75 del 2001 e l’ordinanza n. 300 del 2004 – concernenti questioni di legittimità costituzionale intese, come le odierne, ad estendere la decisione a fattispecie reputate omologhe: pronunce nelle quali si è sottolineato il particolare rigore con cui, nel sistema delineato dal codice di procedura penale del 1988, «devono essere misurate le disposizioni che regolano l’ingresso, in sede penale, di parti diverse da quelle necessarie».

Quanto alla fattispecie in esame, per l’Avvocatura generale, se è vero che, nel caso della responsabilità civile derivante dall’attività venatoria, il danneggiato ha azione diretta contro l’assicuratore, è anche vero che la legge n. 157 del 1992, diversamente dalla normativa sull’assicurazione della responsabilità civile automobilistica, non prevede il litisconsorzio necessario di danneggiato e compagnia assicurativa.

Pertanto, anche nel caso in esame – secondo quanto rilevato dalla sentenza n. 75 del 2001 – la pronuncia additiva invocata dal rimettente, sempre ad avviso di questa parte, riguarderebbe una «ipotesi eccentrica» rispetto alla fattispecie esaminata dalla sentenza n. 112 del 1998, risolvendosi addirittura «in una prospettiva profondamente innovativa e riservata alla scelta discrezionale del legislatore» giacché volta a consentire l’inserimento di una nuova figura processuale nel procedimento penale.


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4. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Per la Consulta, prodromica all’esame delle questioni proposte dal Tribunale di Roma, era la ricostruzione del panorama normativo e giurisprudenziale in cui esse si collocano, il che veniva fatto nei seguenti termini: “La figura del responsabile civile è delineata dall’art. 185, secondo comma, del codice penale, in forza del quale ogni reato, che abbia cagionato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento non solo «il colpevole», ma anche «le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui». Responsabile civile è, dunque, il soggetto (persona fisica o giuridica, ovvero ente collettivo non personificato) che, pur non avendo commesso il fatto, è obbligato, in base a una disposizione di legge, a risarcire i danni derivanti dal reato in solido con l’imputato. Ai sensi dell’art. 83 cod. proc. pen., oggi censurato, il responsabile civile può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile o, eccezionalmente, del pubblico ministero, nel caso previsto dall’art. 77, comma 4, cod. proc. pen. (quando, cioè, quest’ultimo, ricorrendo una situazione di «assoluta urgenza», abbia esercitato l’azione civile nell’interesse del danneggiato incapace per infermità di mente o età minore). Sulla scia di una lunghissima tradizione storica – risalente al codice di procedura penale del 1865 (art. 549) e perpetuata dai successivi codici del 1913 (art. 66) e del 1930 (art. 110) – analoga facoltà non era invece riconosciuta in alcun caso all’imputato dal testo originario della norma. Ciò, sebbene anche l’imputato possa avere interesse, una volta sottoposto all’azione risarcitoria della parte civile, a veder affermata nell’ambito dello stesso processo penale la corresponsabilità per i danni da reato di altri soggetti – verso i quali potrebbe avere un diritto alla manleva o di regresso – senza dover instaurare un autonomo giudizio civile “a valle” della propria condanna. La preclusione viene usualmente giustificata col rilievo che la presenza del responsabile civile nel processo penale – quale parte eventuale che si aggiunge a quelle necessarie, in connessione a tematiche estranee alle finalità tipiche di quel processo – è configurata dal sistema come uno strumento di tutela, non dell’imputato, ma della vittima del reato, inteso a facilitare il soddisfacimento delle sue pretese risarcitorie. A questa idea si è sostanzialmente ispirata la sentenza n. 38 del 1982, con cui questa Corte (ossia la Consulta ndr.) escluse, in termini generali, che la preclusione – risultante all’epoca dagli artt. 107 e 110 cod. proc. pen. del 1930 – violasse il principio di eguaglianza e ledesse il diritto di difesa. (…) Entrato in vigore il codice di rito del 1988, il problema tornò ad essere sottoposto all’esame di questa Corte (vale a dire la Corte costituzionale ndr.). Non più, però, in termini generali, ma con riguardo a una specifica ipotesi: quella, cioè, dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti (d’ora in avanti: responsabilità civile automobilistica) prevista dalla legge n. 990 del 1969. L’esito fu stavolta di segno opposto. Con la sentenza n. 112 del 1998, questa Corte (cioè la Consulta ndr.) ritenne, infatti, l’art. 83 cod. proc. pen. costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non consentiva all’imputato di chiamare nel processo penale l’assicuratore nell’ipotesi considerata. Questa Corte (ovverossia sempre la Consulta ndr.) ravvisò in ciò una violazione del principio di eguaglianza, sotto un profilo diverso da quello scrutinato dalla sentenza n. 38 del 1982: non, cioè, raffrontando la posizione dell’imputato con quella della parte civile, ma in relazione alla disparità di trattamento dell’imputato assoggettato ad azione risarcitoria nell’ambito del processo penale rispetto al convenuto con la stessa azione in sede civile, al quale è pacificamente riconosciuto il diritto di chiamare in garanzia il proprio assicuratore (artt. 1917, ultimo comma, del codice civile e 106 del codice di procedura civile). Sperequazione che venne reputata ingiustificata, stante la piena identità delle due situazioni messe a confronto. (…) La pronuncia diede adito a nuovi incidenti di legittimità costituzionale, intesi a dilatare il varco così aperto, sul presupposto che il relativo supporto argomentativo potesse essere esteso a un’ampia platea di ulteriori ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui. Con due decisioni della prima metà degli anni 2000 – la sentenza n. 75 del 2001 e l’ordinanza n. 300 del 2004 – questa Corte (costituzionale ndr.) smentì, tuttavia, una simile lettura, precisando l’esatta portata delle proprie precedenti affermazioni. Al riguardo, si rilevò come il vigente codice di rito – in ossequio alla direttiva della «massima semplificazione nello svolgimento del processo» (art. 2, comma 1, numero 1, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»), consona al modello accusatorio prescelto – avesse inteso «circoscrivere nei limiti della essenzialità tutte le forme di cumulo processuale, stante la maturata consapevolezza che l’incremento delle regiudicande – specie se, come quelle civili, estranee alle finalità tipiche del processo penale – non possa che aggravarne l’iter, con conseguente perdita di snellezza e celerità nelle cadenze e nei tempi di definizione» (sentenza n. 75 del 2001): valori, questi, attualmente oggetto di espressa garanzia costituzionale ad opera dell’art. 111, secondo comma, Cost. (sentenza n. 75 del 2001 e ordinanza n. 300 del 2004). Da ciò, dunque, «il particolare rigore con il quale devono essere misurate le disposizioni che regolano l’ingresso, in sede penale, di parti diverse da quelle necessarie» e, di riflesso, l’«accentuazione in senso accessorio ed eventuale» della posizione e del ruolo del responsabile civile (ancora, sentenza n. 75 del 2001). In questa prospettiva, le affermazioni della sentenza n. 112 del 1998, lungi dall’assumere una valenza “universale”, dovevano ritenersi intimamente saldate alle «specifiche caratteristiche che rendono del tutto peculiare la posizione dell’assicuratore chiamato a rispondere, ai sensi della legge n. 990 del 1969, dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e dei natanti»: caratteristiche che implicano «una correlazione tra le posizioni coinvolte di spessore tale da rendere necessariamente omologabile il […] regime ad esse riservato, tanto in sede civile che nella ipotesi di esercizio della domanda risarcitoria in sede penale» (sentenza n. 75 del 2001 e ordinanza n. 300 del 2004). La sentenza n. 112 del 1998 aveva posto, in effetti, in risalto due aspetti. In primo luogo, la circostanza che gli artt. 18 e 23 della legge n. 990 del 1969 – successivamente trasfusi nell’art. 144, commi 1 e 3, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private) – prevedevano, rispettivamente, che il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di veicoli a motore e dei natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione, avesse azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’assicuratore, nei limiti delle somme per le quali è stata stipulata l’assicurazione; e che nel giudizio promosso dal danneggiato contro l’assicuratore dovesse essere chiamato anche il responsabile del danno, configurando così un litisconsorzio necessario fra tali soggetti. Il che era sufficiente per inquadrare l’ipotesi in questione tra i casi di responsabilità civile ex lege delineata dal secondo comma dell’art. 185 cod. pen., la quale si raccorda all’assunzione di una posizione di garanzia per il fatto altrui. In secondo luogo, poi, la pronuncia del 1998 aveva sottolineato che la possibilità di chiamare in causa l’assicuratore – offerta al danneggiante convenuto in sede civile – risultava connessa «al diritto dell’assicurato di vedersi manlevato dalle pretese risarcitorie, con correlativo potere di regresso, al contrario escluso per l’assicuratore» (sentenza n. 75 del 2001). A tale «funzione plurima» del rapporto di garanzia – in quanto destinato a salvaguardare direttamente, sia la vittima, sia il danneggiante – si era ritenuto dovesse necessariamente corrispondere l’allineamento, anche in sede penale, dei poteri processuali di «chiamata» riconosciuti in sede civile, onde evitare che l’effettività della predetta funzione venisse pregiudicata dalla scelta del danneggiato di far valere la sua pretesa risarcitoria mediante costituzione di parte civile nel processo penale, anziché nella sede naturale. Queste peculiarità non si riscontravano nelle altre ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui successivamente sottoposte al vaglio di questa Corte (costituzionale ndr.). In alcune di esse – quali, in specie, la responsabilità dell’esercente l’aeromobile per i danni provocati da un sinistro (sentenza n. 75 del 2001), la responsabilità civile dello Stato e degli enti pubblici per i fatti dei dipendenti, e la responsabilità civile derivante dalla normativa in materia di infortuni sul lavoro e di previdenza sociale (ordinanza n. 300 del 2004) – il danneggiato poteva agire direttamente contro il terzo, ma mancava il rapporto interno di garanzia tra imputato-danneggiante e terzo responsabile: era infatti il terzo, ove avesse risarcito il danno, ad avere diritto di regresso verso l’imputato, e non già il contrario. La responsabilità civile del terzo assumeva, dunque, una funzione di tutela del solo danneggiato, e non anche del danneggiante. In altri casi, per converso, se pure era ravvisabile il rapporto interno di garanzia tra imputato-danneggiante e terzo, mancava una tutela diretta del danneggiato. Era questo il caso dell’assicurazione facoltativa della responsabilità civile, la quale – oltre a non dar luogo a un’ipotesi di obbligo risarcitorio ex lege – non attribuisce al danneggiato alcun diritto azionabile nei confronti dell’assicuratore. Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, in materia di assicurazione della responsabilità civile, il danneggiato – fuori dalle eccezionali ipotesi in cui la legge prevede diversamente – non ha azione diretta contro l’assicuratore del responsabile del danno, non essendo l’assicuratore obbligato nei suoi confronti, né per vincolo contrattuale – in base all’art. 1917 cod. civ., egli è obbligato solo verso l’assicurato, che deve tenere indenne da quanto debba pagare ad altri –, né a titolo di responsabilità aquiliana (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5259; Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 5 novembre 2011, n. 26019; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 14 aprile 2010, n. 8885). Nel caso considerato, mancavano, pertanto, sia il presupposto oggettivo-sostanziale (obbligo del risarcimento ex lege), sia il presupposto soggettivo-processuale (destinatario del diritto all’indennizzo), affinché il danneggiato potesse esercitare l’azione civile nel processo penale contro l’assicuratore: il che escludeva che quest’ultimo potesse essere inquadrato nella figura del responsabile civile, quale delineata dall’art. 185, secondo comma, cod. pen. (sentenza n. 75 del 2001). Di conseguenza, la richiesta di riconoscere all’imputato la facoltà di chiamare in giudizio il soggetto in questione si risolveva «in una prospettiva profondamente innovativa e riservata alla scelta discrezionale del legislatore, mirando tale richiesta a consentire l’inserimento eventuale di una nuova figura processuale nel procedimento penale, in evidente contrasto con i ben diversi assetti sistematici di cui innanzi si è detto» (ancora, sentenza n. 75 del 2001). (…) Tali ultime considerazioni hanno portato, in tempi più recenti, a respingere anche i dubbi di legittimità costituzionale prospettati con riguardo all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dall’esercizio di attività professionale: nella specie, l’assicurazione imposta ai notai dagli artt. 19 e 20 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituiti, rispettivamente, dagli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 4 maggio 2006, n. 182 (Norme in materia di assicurazione per la responsabilità civile derivante dall’esercizio dell’attività notarile ed istituzione di un Fondo di garanzia in attuazione dell’articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246). Con la sentenza n. 34 del 2018, questa Corte (costituzionale ndr.) ha rilevato che l’assicurazione ora indicata è destinata innegabilmente a svolgere una «funzione plurima»: giacché, «se per un verso garantisce, come ogni altra, l’assicurato, per altro verso è destinata – negli intenti del legislatore – a tutelare anche l’interesse del terzo danneggiato dall’attività notarile alla certezza del ristoro del pregiudizio patito, in ciò proprio risiedendo la precipua ragione del regime di obbligatorietà». Pur tuttavia, il legislatore non si era spinto, nell’occasione, sino a prevedere la possibilità di un’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, analoga a quella accordata al danneggiato da sinistro stradale: elemento che restava, dunque, «dirimente al fine, per un verso, di escludere che la posizione dell’assicuratore possa essere inquadrata nel paradigma del responsabile civile ex lege, quale delineato dall’art. 185, secondo comma, cod. pen., e, per altro verso, di attribuire correlativamente anche alla pronuncia additiva […] richiesta la valenza di innovazione sistematica, riservata alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 34 del 2018)”.

Terminato questo excursus normativo e giurisprudenziale, il giudice delle leggi rilevava però come il Tribunale di Roma, con tale questione di legittimità costituzionale, avesse riproposto il problema in relazione a un’ipotesi di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile che abilita il danneggiato ad agire in via diretta contro l’assicuratore del danneggiante: segnatamente, quella prescritta dall’art. 12, comma 8, della legge n. 157 del 1992 ai fini dell’esercizio dell’attività venatoria.

Orbene, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, riguardo a tale fattispecie, la questione sollevata in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost. era fondata.

Si evidenziava a tal proposito innanzitutto che, alla luce del fatto che l’art. 12, comma 8, della legge n. 157 del 1992 stabilisce che «[l]’attività venatoria può essere esercitata da chi abbia compiuto il diciottesimo anno di età e sia munito della licenza di porto di fucile per uso di caccia, di polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall’uso delle armi o degli arnesi utili all’attività venatoria […], nonché di polizza assicurativa per infortuni correlata all’esercizio dell’attività venatoria», con i massimali ivi indicati (periodicamente aggiornati nei modi prefigurati dal successivo comma 9), è normativamente previsto l’obbligo, per chi eserciti l’attività venatoria (quale definita dai commi 2 e 3 dello stesso art. 12), di essere coperto da assicurazione della responsabilità civile verso i terzi (oltre che da assicurazione contro gli infortuni): obbligo la cui inosservanza è punita con sanzione amministrativa pecuniaria dall’art. 31, comma 1, lettera b), della legge n. 157 del 1992.

Per la Corte costituzionale, quindi, è indubitabile come l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da attività venatoria assolva a quella «funzione plurima» di garanzia cui ha fatto riferimento la sentenza n. 112 del 1998, come precisata dalle successive pronunce emesse sempre dalla Consulta.

Come ogni forma di assicurazione, in effetti, essa tutela l’assicurato che ha diritto di vedersi manlevato dalle pretese risarcitorie del danneggiato, con correlato diritto di regresso verso l’assicuratore qualora le abbia soddisfatte; ma tutela pure le vittime degli incidenti di caccia, garantendo loro, entro i limiti del massimale assicurativo, il ristoro dei danni subiti visto che, per generale riconoscimento, la ratio del regime di obbligatorietà dell’assicurazione in discorso è proprio quella di proteggere in maniera effettiva, per ragioni di sicurezza sociale, i terzi danneggiati, stante l’elevata pericolosità dell’attività venatoria, esercitata mediante armi da fuoco (tra le altre, Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 23 febbraio 1996, n. 1439), fermo restando che tale conclusione è puntualmente avvalorata dalla previsione del comma 10 dello stesso art. 12, secondo la quale «[i]n caso di sinistro colui che ha subito il danno può procedere ad azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione presso la quale colui che ha causato il danno ha contratto la relativa polizza», similmente a quanto avviene per l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica.

Ebbene, a fronte di ciò, per la Consulta, il solo elemento differenziale di rilievo tra le due forme di assicurazione è costituito dalla circostanza che la legge sulla caccia non prevede che nel giudizio promosso dal danneggiato contro l’impresa assicuratrice debba essere chiamato il responsabile del danno, come invece dispone la normativa sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica (art. 23 della legge n. 990 del 1969, ora trasfuso nell’art. 144, comma 3, del d.lgs. n. 209 del 2005), ed è pertanto su questo dato – la mancata previsione del litisconsorzio necessario di assicuratore e responsabile del danno (litisconsorzio valorizzato nella motivazione della sentenza n. 112 del 1998) – che fa leva in via esclusiva la difesa della Presidenza del Consiglio dei ministri per sostenere che, pure nel caso in esame, difetterebbe l’eadem ratio per una replica della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata nel 1998.

Oltre a ciò, i giudici di legittimità costituzionale facevano presente come il rimettente avesse, peraltro, contestato che alla discrepanza del dato normativo sul punto corrisponda una differenza sostanziale, assumendo che, malgrado il silenzio della legge, la sussistenza del litisconsorzio necessario sarebbe stata riconosciuta dalla giurisprudenza civile, con indirizzo qualificabile come diritto vivente, anche in relazione all’azione diretta contro l’assicuratore proposta dal danneggiato a seguito di incidente di caccia, evidenziandosi al contempo come la Corte di Cassazione abbia ripetutamente affermato, in verità, che il litisconsorzio necessario previsto dalla legge sull’assicurazione della responsabilità civile automobilistica rappresenta un’eccezione al principio della facoltatività del litisconsorzio nelle obbligazioni solidali (ex plurimis, Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 maggio 2006, n. 11039; Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza del 29 novembre 2005, n. 26041): eccezione giustificata dall’intento di facilitare l’assicuratore nell’esercizio dell’eventuale azione di rivalsa contro l’assicurato (tra le altre, Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 25 settembre 1998, n. 9592; Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 6 novembre 1996, n. 9647), fermo restando che tale ipotesi può verificarsi in quanto, per espresso disposto normativo, l’assicuratore della responsabilità civile automobilistica non può opporre al danneggiato, che agisca direttamente nei suoi confronti, eccezioni derivanti dal contratto di assicurazione, salvo a rivalersi sull’assicurato, quando avrebbe avuto contrattualmente il diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione (art. 18, secondo comma, della legge n. 990 del 1969, ora trasfuso nell’art. 144, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005).

In questa prospettiva, quindi, secondo la Consulta, si dovrebbe escludere che il litisconsorzio necessario sia configurabile in rapporto all’assicurazione prescritta dalla legge sulla caccia, e ciò perché, da un lato, manca una previsione espressa, da ritenere indispensabile, trattandosi di eccezione a un principio generale, dall’altro, difetterebbe la stessa ragione giustificatrice dell’eccezione, posto che la legge sulla caccia non riproduce la norma sull’inopponibilità al danneggiato delle eccezioni fondate sul contratto, ma, nel 2006, tuttavia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno espresso un diverso indirizzo (Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 5 maggio 2006, n. 10311), ripreso dalla giurisprudenza di legittimità successiva (tra le altre, Corte di Cassazione, sezione terza civile, ordinanza 14 ottobre 2019, n. 25770; Corte di Cassazione, sezione terza civile, 13 febbraio 2013, n. 3567), anche se in modo non uniforme secondo cui, nell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica, il litisconsorzio è necessario, non solo perché previsto dalla legge, ma anche perché imposto dallo stesso oggetto del giudizio dato che, per accogliere la domanda proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, occorre accertare non solo l’esistenza di un danno e la responsabilità dell’assicurato, ma anche l’esistenza di un contratto di assicurazione tra l’assicuratore convenuto e il soggetto indicato come responsabile del danno: accertamento, quest’ultimo, che, secondo le Sezioni Unite, «non può che essere unico e uniforme per tutti e tre i soggetti» coinvolti.

In quest’ordine d’idee, di conseguenza, per il giudice delle leggi, la mancata previsione espressa del litisconsorzio necessario non sarebbe d’ostacolo a ravvisarne la sussistenza, anche con riguardo all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile del cacciatore, dal momento che, nelle sporadiche occasioni in cui si è specificamente occupata del problema, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, nonostante il silenzio normativo, il cacciatore assicurato debba essere necessariamente citato nel giudizio proposto dalla vittima contro l’assicuratore, proprio in ragione dell’esigenza di accertamento del rapporto assicurativo (Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 7 novembre 2013, n. 25058).

Pur non potendosi parlare di un «diritto vivente» in tale direzione, come opina il rimettente, la sua tesi, riguardo alla configurabilità del litisconsorzio necessario, anche in assenza di previsione espressa, si palesa, dunque, per la Consulta, non implausibile.

Ma, ove pure si ritenesse che nel caso in esame il litisconsorzio necessario non sussista, ciò non impedirebbe, comunque sia, ad avviso della Corte costituzionale, di ravvisare il vulnus costituzionale denunciato dal giudice a quo.

Difatti, è ben vero che nella sentenza n. 112 del 1998 la Consulta ha evocato, tanto l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore, quanto il litisconsorzio necessario di assicuratore e responsabile del danno nel giudizio promosso contro il primo come elementi che caratterizzano la posizione dell’assicuratore della responsabilità civile automobilistica; il che consente, in particolare, di inquadrarla nella figura del responsabile civile, quale delineata dall’art. 185, secondo comma, cod. pen..

Di là, peraltro, da tale passaggio argomentativo, è giocoforza riconoscere, per la Corte, che il solo elemento realmente indispensabile affinché l’assicuratore del danneggiante possa essere qualificato come responsabile civile è la previsione normativa – nella specie riscontrabile – dell’azione diretta del danneggiato: previsione a fronte della quale, nel caso in cui il fatto illecito dell’assicurato integri un’ipotesi di reato, l’assicuratore deve considerarsi obbligato verso la vittima, in virtù di una disposizione della legge civile, a risarcire i danni causati dal reato in solido con l’imputato, conformemente allo schema delineato dal codice penale, il che, d’altronde, è già desumibile, a contrario, dalla sentenza n. 34 del 2018 della Consulta che ha ritenuto «dirimente» proprio (e soltanto) la mancata previsione dell’azione diretta al fine di escludere che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile del notaio possa essere inquadrata nel paradigma dell’art. 185, secondo comma, cod. pen..

Oltre a ciò, i giudici di legittimità costituzionale reputavano necessario altresì considerare che la regola generale, in tema di cause relative a obbligazioni solidali tra privati, è quella della facoltatività del litisconsorzio

Di conseguenza, in plurime ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui, pacificamente riconducibili allo schema dell’art. 185, secondo comma, cod. pen. – ad esempio, responsabilità del proprietario del veicolo per i danni prodotti dal conducente (art. 2054, terzo comma, cod. civ.); responsabilità dell’armatore della nave o dell’esercente l’aeromobile per i danni provocati dall’equipaggio (artt. 274, primo comma, e 878, primo comma, del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327, recante «codice della navigazione») – non è, dunque, necessario, per la Corte costituzionale, chiamare il danneggiante nel giudizio risarcitorio promosso contro il terzo responsabile.

Del resto, nelle ipotesi ora indicate, l’elemento che, in base alla giurisprudenza della Consulta, esclude l’esigenza costituzionale di riconoscere all’imputato-danneggiante la facoltà di chiamare nel processo penale il terzo responsabile è, per quanto visto, di diverso ordine.

Esso, invero, si lega alla circostanza che, nei casi considerati, manca un rapporto interno di garanzia tra terzo responsabile e imputato-danneggiante, in quanto è il terzo responsabile ad avere diritto di regresso verso quest’ultimo, qualora abbia risarcito il danno, e non viceversa; rapporto interno di garanzia che invece ricorre nel caso dell’assicurazione obbligatoria, tanto della responsabilità civile automobilistica, quanto della responsabilità civile da attività venatoria.

Ciò posto, sotto diverso profilo, si stimava come potesse ulteriormente osservarsi che il litisconsorzio necessario previsto dalla normativa sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica sia “unilaterale” nel senso che esso sussiste, cioè, nell’ipotesi in cui il danneggiato agisca direttamente contro l’assicuratore, ma non quando il danneggiato agisca esclusivamente nei confronti del responsabile del danno ai sensi dell’art. 2054 cod. civ..

In questo secondo caso, l’assicuratore può divenire parte del giudizio solo a seguito di chiamata da parte del convenuto ai sensi degli artt. 1917, ultimo comma, cod. civ. e 106 cod. proc. civ. (Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 3 ottobre 2008, n. 26421; Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 14 giugno 2007, n. 13955).

Ebbene, per il giudice delle leggi, l’ipotesi che veniva in rilievo nel caso di specie era riconducibile a questa seconda evenienza, discutendosi, infatti, del caso in cui il danneggiato si costituisca parte civile nel processo penale nei confronti dell’imputato-danneggiante senza chiedere la citazione dell’assicuratore, e l’incidente di costituzionalità mira proprio a consentire all’imputato di esercitare, anche in sede penale, il potere di chiamata dell’assicuratore che gli sarebbe stato riconosciuto ove fosse stato convenuto in sede civile con la medesima azione.

L’esistenza o non del litisconsorzio necessario di assicuratore e responsabile del danno nel diverso caso in cui il danneggiato agisca contro l’assicuratore resta, in quest’ottica, per la Corte costituzionale, una variabile indifferente ai fini della risoluzione dello scrutinio in questione.

Quanto precede comportava, in conclusione, per la Consulta che, nella fattispecie in esame, debba ravvisarsi la medesima ingiustificata disparità di trattamento tra imputato assoggettato ad azione risarcitoria nel processo penale e convenuto con la stessa azione in sede civile, già riscontrata dalla sentenza n. 112 del 1998: disparità di trattamento a fronte della quale l’effettività della duplice funzione di garanzia del rapporto assicurativo, instaurato ai sensi dell’art. 12, comma 8, della legge n. 157 della 1992, rischia di rimanere compromessa, secondo la scelta del danneggiato riguardo alla sede processuale in cui far valere le proprie pretese.

I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiaravano l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nel caso di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria prevista dall’art. 12, comma 8, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), l’assicuratore possa essere citato nel processo penale a richiesta dell’imputato. 

5. Conclusioni 

La decisione in esame è assai interessante in quanto con essa la Consulta interviene sull’art. 83 c.p.p. dichiarandolo costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, nel caso di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria prevista dall’art. 12, comma 8, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), l’assicuratore possa essere citato nel processo penale a richiesta dell’imputato.

Pertanto, per effetto di questa pronuncia, è adesso possibile che l’imputato possa citare l’assicuratore in relazione a questa peculiare forma di assicurazione obbligatoria.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, se non altro per il fatto che amplia il novero dei diritti riconosciuti all’imputato essendo ora conferito a costui, in tale ipotesi, il potere di chiamata dell’assicuratore che gli sarebbe stato riconosciuto ove fosse stato convenuto in sede civile con la medesima azione, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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