La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, del codice penale: vediamo come

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(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 586-bis)

     Indice

  1. Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione 
  2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione 
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta 
  4. Conclusioni

Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione

La Corte di Cassazione era chiamata a decidere su un ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce che aveva confermato una decisione del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Brindisi il quale, ritenuta la continuazione, aveva condannato l’imputato alla pena di un anno e dieci mesi di reclusione e sei mila euro di multa, in ordine ai reati di cui agli artt. 81, 110, 476, 482 cod. pen., e all’art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000, «per avere commercializzato, mediante consegna a numerosi soggetti praticanti l’attività del culturismo che frequentavano la palestra di cui era titolare – due dei quali partecipanti a gare pubbliche di body building –, specialità medicinali ad azione anabolizzante attraverso canali non ufficiali e ottenute mediante la predisposizione di ricette mediche falsificate».

La Corte rimettente evidenziava inoltre che, dal canto suo, l’imputato, per il tramite del difensore, aveva proposto quattro motivi di ricorso, così formulati: 1) violazione dell’art. 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 546, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. perché la Corte territoriale, a suo avviso, avrebbe erroneamente rigettato il motivo di appello concernente la carenza di un’autonoma motivazione degli elementi di prova da parte del giudice di primo grado; 2) violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen. avendo il giudice dell’appello ravvisato il reato di commercio di prodotti anabolizzanti, di cui all’art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000 mentre, alla luce del materiale probatorio raccolto, avrebbe dovuto ritenere sussistente, al più, la meno grave fattispecie di cui al comma 1 del medesimo art. 9; 3) violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 476 e 82 cod. pen.; 4) violazione dell’art. 606, comma l, lettere b) ed e), cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen. perché la Corte di appello avrebbe erroneamente negato l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.

Ciò posto, a fronte di siffatte doglianze, La Suprema Corte riferiva come il primo ed il terzo motivo di ricorso non fossero fondati e, quanto allo scrutinio del secondo e del quarto, affermava come fosse pregiudiziale la soluzione della questione di legittimità costituzionale.

In particolare, in relazione alla seconda censura, la Corte di Cassazione premetteva che i reati di cui all’art. 9, commi 1 e 7, della legge n. 376 del 2000, ferma restando l’identità dell’oggetto del reato, ossia le sostanze dopanti, si differenziavano, prima che fosse disposta la loro abrogazione, sia per la condotta – il commercio in un caso, il procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire nell’altro caso – sia per la presenza, nella sola ipotesi del comma l, del dolo specifico del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» atteso che l’art. 9 della legge n. 376 del 2000 è stato abrogato dall’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018 e, parallelamente, in applicazione del principio della «riserva di codice», introdotto nell’art. 3-bis cod. pen., l’art. 2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 21 del 2018, ha inserito le disposizioni già contenute nell’art. 9 della legge n. 376 del 2000 nel nuovo art. 586-bis cod. pen., ora rubricato, come detto, «Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

Più nel dettaglio, la Corte rimettente osservava che il settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen., pur comminando la medesima sanzione della reclusione da due a sei anni e la multa da 5.164 a 77.468 euro, incrimina la condotta di «[c]hiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge, che siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente», rilevandosi al contempo che, da un lato, quanto al primo comma dell’art. 586-bis cod. pen., la disposizione era rimasta sostanzialmente identica, essendo state inserite soltanto le parole «dalla legge», in sostituzione di quelle «all’articolo 2, comma 1», dall’altro, con riferimento alla condotta di commercio di sostanze dopanti, secondo gli Ermellini, non vi sarebbe stata una piena coincidenza tra la fattispecie di cui all’abrogato art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000 e quella oggetto di incriminazione di cui all’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., in quanto quest’ultima contempla(va) il dolo specifico del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», oltre a prevedere la condotta di commercio di sostanze idonee a modificare i risultati dei controlli antidoping, ipotesi che però, ad avviso del rimettente, non assumeva rilevanza nel giudizio a quo.

La previsione del dolo specifico rappresentava, quindi, per il Supremo Consesso, un filtro selettivo della rilevanza penale della condotta di commercio di sostanze dopanti che, ora, era punita solo ove l’agente avesse agito con il fine indicato, non essendo richiesto che quel fine sia effettivamente conseguito, come accade per i reati a dolo specifico e, pertanto, sempre a suo avviso, si sarebbe realizzata una parziale abolitio criminis perché la nuova disposizione non sanziona(va) più il commercio di sostanze dopanti qualora difetti il fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; né poteva trovare applicazione la fattispecie del comma 1, la quale pur esige(va) il medesimo dolo specifico.

Ciò posto, a sua volta il Tribunale di Busto Arsizio era chiamato a decidere nei confronti di due persone imputate dei reati di cui agli artt. 81, 110, 586-bis, settimo comma, cod. pen., e agli artt. 55 e 147 del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, recante «Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano», in relazione a condotte di importazione di farmaci e sostanze farmacologicamente o biologicamente attive, comprese nelle classi indicate dalla legge ed idonee a modificare le condizioni psico-fisiche o biologiche dell’organismo, preparati di cui facevano commercio, e analiticamente riportate nel capo di imputazione.

Nel dettaglio, questa autorità giudicante, dopo aver dato conto dettagliatamente degli esiti dell’istruttoria dibattimentale, reputava come fosse emersa la prova degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., come configurati secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, ad eccezione del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti»; a tal riguardo osservando, peraltro, che l’elemento del dolo specifico era stato introdotto nella struttura della fattispecie in un momento successivo alla conclusione delle indagini.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Alla luce delle criticità sin qui evidenziate, i giudici di piazza Cavour sollevavano questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dell’art. 586-bis del codice penale (Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti), introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», nella parte in cui – sostituendo l’art. 9 della legge 14 dicembre, 2000, n. 376 (Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping), abrogato dall’art. 7, comma l, lettera n), del medesimo d.lgs. n. 21 del 2018 – prevede, al settimo comma, il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

In particolare, in punto di rilevanza, la Corte rimettente, dopo aver evidenziato che la Corte territoriale, con motivazione (stimata) esente da illogicità manifeste, aveva ravvisato una fattispecie di commercio di sostanze dopanti, confermando la pronuncia impugnata, aveva altresì rilevato che il giudice di appello non si era avveduto della intervenuta modifica legislativa e, dunque, non aveva verificato la sussistenza, o no, del dolo specifico, introdotto dall’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen.; disposizione questa che, restringendo il perimetro della punibilità, avrebbe dovuto essere applicata retroattivamente perché norma più favorevole.

A tale specifico riguardo, la Corte rimettente evidenziava, peraltro, come dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado emergesse il difetto di tale dolo specifico talché non sarebbe stata integrata la fattispecie penale in esame, e da ciò se ne faceva discendere che, in applicazione della nuova e più favorevole fattispecie incriminatrice, l’imputato avrebbe dovuto essere assolto per difetto dell’elemento soggettivo.

Ciò precisato, in punto di rilevanza, ancora in via preliminare, la Corte rimettente osservava come, in linea di principio, fossero da ritenersi inammissibili le questioni di costituzionalità che riguardavano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione e che miravano al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata, ostandovi a ciò il principio di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante fermo restando però che, a suo avviso, tale regola non è assoluta perché subisce alcune eccezioni e, tra queste, deve includersi l’ipotesi in cui sia censurato lo scorretto esercizio del potere legislativo da parte del Governo che abbia abrogato, mediante decreto legislativo, una disposizione penale senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 189 e n. 37 del 2019).

Chiarito ciò, in punto di non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente affermava, poi, come la parziale abrogatio criminis non trovasse alcun riscontro nella delega conferita al Governo dall’art. 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario).

Sempre ad avviso del giudice a quo, del resto, il tenore della delega aveva il chiaro senso di autorizzare il Governo a trasferire, in attuazione del principio della cosiddetta “riserva di codice”, all’interno del codice penale talune figure criminose già contemplate da disposizioni di legge, tra cui quelle aventi ad oggetto la tutela della salute; ciò che era infatti avvenuto inserendo l’art. 586-bis cod. pen., tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, tenuto conto altresì del fatto che una pluralità di fattori indicherebbe, per la Corte di legittimità, che l’intenzione del legislatore delegante fosse la mera traslazione della fattispecie di commercio di sostanze dopanti all’interno del codice penale.

In particolare, non solo verrebbe in rilievo l’identità della pena comminata, ma anche il disposto dell’art. 8 del d.lgs. n. 21 del 2018, il quale stabilisce che «[d]alla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall’articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto» poiché, nella citata Tabella, il riferimento all’art. 9 della legge n. 376 del 2000 trova corrispondenza nell’art. 586-bis cod. pen., con ciò confermando l’assenza di un intento abrogativo della previgente norma incriminatrice fermo restando però come non vi sia una piena corrispondenza tra le due fattispecie di commercio illecito in quanto quella contemplata dall’art. 586-bis cod. pen., prevede il dolo specifico del fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, senza che ciò trovi legittimazione nella delega.

Tale parziale abolitio criminis risulterebbe, dunque, per la Suprema Corte, in contrasto con la ratio della legge delega perché il bene salute, oggetto di tutela da parte dell’art. 586-bis cod pen., è messo in pericolo dalla mera assunzione di sostanze «dopanti» e ciò indipendentemente dal fine di alterare le competizioni agonistiche degli atleti.

La disposizione censurata, a parere del rimettente, finirebbe quindi con rendere lecito il commercio di sostanze dopanti destinato alla cerchia degli sportivi che non gareggino in competizioni agonistiche e la cui salute verrebbe posta in pericolo, senza che tale scelta di politica criminale, gravida di conseguenze in relazione alla tutela del bene che si vuole proteggere, quale è la salute delle persone, trovi la fonte di legittimazione nei principi e criteri direttivi della norma di delega.

A sua volta anche il Tribunale di Busto Arsizio aveva parimenti sollevato, in riferimento all’art. 76 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 21 del 2018, nella parte in cui, sostituendo l’art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000, abrogato dall’art. 7, comma l, lettera n), del medesimo d.lgs. n. 21 del 2018, prevede il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

In particolare, in punto di rilevanza, questo giudice a quo riteneva come nel caso in cui la questione fosse ritenuta fondata in quanto, venendo meno il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», il reato contestato dovrebbe ritenersi pienamente integrato «con conseguente necessità di condannare gli imputati» mentre, nel caso contrario, invece, «il reato non sarebbe integrato, con conseguente possibilità di assolvere gli stessi» e da ciò l’impossibilità di definire il processo indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.

Detto questo, in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente osservava che il reato di commercio di sostanze dopanti, al momento della commissione del fatto, era previsto dall’art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000, il quale non prevedeva il dolo specifico del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» mentre, soltanto a seguito dell’abrogazione dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, da parte dell’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, l’art. 586-bis cod. pen., introdotto dall’art. 2, comma l, lettera d), del d.lgs. n. 21 del 2018, ha previsto, al settimo comma, il dolo specifico.

In particolare, il rimettente rilevava che, in attuazione del principio della «riserva di codice», enunciato dall’art. l, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017 e previsto dall’art. 3-bis cod. pen., al fine di soddisfare esigenze di maggior facilità nella conoscenza della legge penale, il legislatore delegato ha introdotto nel codice penale l’art. 586-bis cod. pen..

Dal raffronto delle disposizioni, ad avviso del rimettente, risultava pertanto che il legislatore delegato, oltre ad aggiornare il rinvio alle classi di farmaci e di sostanze farmacologicamente o biologicamente attive previste dalla legge (e non più a quelle previste dall’art. 2, comma 1) e convertire la pena pecuniaria in euro, modifiche non sostanziali della norma incriminatrice, aveva aggiunto ulteriori elementi costitutivi nell’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., non previsti nel precedente art. 9 della legge n. 376 del 2000 in quanto racchiusi nell’espressione «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze».

Ciò posto, il giudice a quo rilevava oltre tutto che con tale sostituzione – e tralasciando l’elemento dell’idoneità «a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze», perché non rilevante nel giudizio a quo – avrebbe effettuato una parziale abolitio criminis in quanto la previsione del dolo specifico avrebbe reso non punibili le condotte di commercio di sostanze dopanti non finalisticamente dirette ad alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; condotte che, invece, erano punibili ai sensi dell’art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000, che sanzionava il commercio tout court di sostanze dopanti, anche se diretto agli sportivi amatoriali.

Tale scelta, ad avviso del rimettente, non rispetterebbe quindi il criterio direttivo contenuto nella legge delega con il quale si era affidato al Governo, in attuazione del principio della «riserva di codice», il compito di inserire nel codice penale le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore, e tra queste quelle che avessero a diretto oggetto di tutela il bene della salute, e non anche il potere di modificare le previsioni incriminatrici (sotto tale profilo è richiamata la sentenza di questa Corte n. 189 del 2019).

Pertanto, in considerazione del fatto che il commercio di sostanze dopanti era sanzionato a prescindere che fosse destinato ad alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, venendo in rilievo la tutela della salute e non soltanto quella del fair play nelle manifestazioni sportive, ad avviso di questo giudice a quo, il Governo avrebbe dovuto limitarsi al mero trasferimento nel codice penale del reato di commercio, di cui all’art. 9 della legge n. 376 del 2000 visto che, qualora tale fattispecie di reato avesse avuto come unico bene giuridico tutelato quello del fair play nelle manifestazioni sportive, il legislatore delegato non avrebbe potuto trasporlo nel codice penale, non essendo tale ultimo bene giuridico menzionato nella legge delega, rilevandosi contestualmente che la tutela della salute ha orientato la scelta del legislatore delegato di inserire il reato di commercio di sostanze dopanti nel Libro II, Titolo XII, Capo I, del codice penale, dedicato alle norme incriminatrici poste a tutela della vita e dell’incolumità individuale.

Pertanto, per tale giudice rimettente, l’inserimento del dolo specifico nell’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen. sarebbe idoneo a trasformare il primario bene giuridico tutelato da quello della salute a quello del fair play nelle manifestazioni sportive, con ciò determinando l’abolitio criminis del reato con riferimento a condotte di commercializzazione di sostanze dopanti non dirette ad atleti impegnati in prestazioni agonistiche e, a tal riguardo, siffatto giudice a quo rilevava altresì che, anche dalla Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo recante disposizioni di attuazione del principio della riserva di codice, emergeva come la nuova norma incriminatrice di cui all’art. 586-bis cod. pen. sia posta a tutela della salute, bene che, invece, è sacrificato attraverso la limitazione della portata applicativa della norma ai soli contesti agonistici.

Alla luce di tali considerazioni, a parere del rimettente, sussisterebbe quindi la violazione dell’art. 76 Cost..

Per di più, cotale giudice a quo si soffermava sulla possibilità di sollevare una questione di costituzionalità che potesse produrre effetti in malam partem nei confronti degli imputati in quanto, ove accolta, si (ri)espanderebbe la portata applicativa della norma incriminatrice di cui all’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen. (erano all’uopo richiamate le sentenze di questa Corte n. 5 del 2014 e n. 189 del 2019). 

Ciò posto, a tal proposito il rimettente osservava d’altronde che i fatti di causa erano stati commessi antecedentemente alla riforma attuata dal d.lgs. n. 21 del 2018, durante la vigenza dell’art. 9, comma 7, della legge n. 376 del 2000, di talché «non si porrebbe nemmeno un problema di successione di leggi penali nel tempo»; nel caso in cui la Corte costituzionale avesse accolto la questione di legittimità costituzionale, l’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il dolo specifico, invero, «risulterebbe come mai esistito nell’ordinamento ex art. 30 co. 3 l. n. 87/1953, inidoneo a produrre effetti su fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore» con la conseguenza che si sarebbe potuto, pertanto, invocare l’art. 2, quarto comma, cod. pen. (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 394 del 2006).

Infine, il rimettente affermava che il tenore letterale dell’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., a suo avviso, non consentiva un’interpretazione costituzionalmente conforme che potesse ricondurre la norma nell’alveo del criterio direttivo della delega.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

In via preliminare, veniva disposta la riunione dei predetti giudizi atteso che le ordinanze di rimessione sollevano la stessa questione e si fondano su argomentazioni sostanzialmente comuni poiché entrambe le ordinanze censuravano l’art. 586-bis cod. pen. nella parte in cui, al settimo comma, prevedendo il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», avrebbe determinato una parziale abolitio criminis in violazione dei princìpi e criteri direttivi dettati dall’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017, secondo cui il Governo, in attuazione del principio della «riserva di codice», era delegato a trasferire all’interno del codice penale talune figure criminose già contemplate da disposizioni di legge, tra cui quelle aventi ad oggetto la tutela della salute e, non anche, a modificare le fattispecie incriminatrici.

Orbene, secondo i giudici a quibus, tale parziale abolitio criminis sarebbe stato in contrasto con l’art. 76 Cost. in ragione del mancato rispetto del criterio di delega che non autorizzava una riduzione della fattispecie di reato nella sua trasposizione nel codice penale.

Premesso ciò, prima di passare all’esame delle censure, per il Giudice delle leggi, si rendeva opportuna la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale nel cui ambito si collocano i reati di doping e, in particolare, quello di commercio illecito di sostanze dopanti che era compiuto nei seguenti termini: “La prima regolamentazione penale del fenomeno del doping risale alla legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (Tutela sanitaria delle attività sportive), i cui artt. 3 e 4, punivano, con la sanzione dell’ammenda, le condotte consistenti nell’impiego, nella somministrazione e, comunque, nel possesso di sostanze, individuate con decreto del Ministro per la sanità, che fossero nocive per la salute e che avessero il fine di modificare artificialmente le energie naturali degli atleti.

Tali condotte sono state, poi, depenalizzate dall’art. 32 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che ha sostituito la pena dell’ammenda con la sanzione amministrativa.

Soltanto a distanza di anni, a fronte del crescente sviluppo del fenomeno del doping e dei preoccupanti rischi per la salute individuale e collettiva derivanti dall’utilizzo delle sostanze dopanti, il legislatore, in esecuzione degli impegni convenzionali assunti con la ratifica della Convenzione contro il doping, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata con legge 29 novembre 1995, n. 522, ha adottato la legge n. 376 del 2000; legge che consta di varie disposizioni le quali, ad eccezione di quella di rilevanza penale di cui all’indicato art. 9, non sono state oggetto dell’abrogazione prevista dal d.lgs. n. 21 del 2018 e, pertanto, sono tuttora vigenti. La ratio complessiva sottesa alla legge in esame è enunciata dall’art. 1, comma 1, secondo cui «[l]’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei princìpi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione contro il doping, con appendice, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata ai sensi della legge 29 novembre 1995, n. 522». Il comma 2, che qui particolarmente rileva, reca la definizione di doping, stabilendo che «[c]ostituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». E, ai sensi del comma 3, costituiscono doping, in quanto ad esso equiparate, anche «la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2». Questa duplice definizione dei commi 2 e 3 dell’art. 1 trova poi una ulteriore e più specifica perimetrazione e articolazione nell’art. 2, rubricato «Classi delle sostanze dopanti», che riveste un ruolo fondamentale nella disciplina del doping perché chiarisce che «[i] farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche mediche, il cui impiego è considerato doping a norma dell’articolo 1, sono ripartiti […] in classi di farmaci, di sostanze o di pratiche mediche approvate con decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive di cui all’articolo 3». Come risulta dai successivi commi dell’art. 2, la ripartizione in classi delle sostanze dopanti è fatta sulla base delle rispettive caratteristiche chimico-farmacologiche, mentre la ripartizione in classi delle pratiche mediche è determinata sulla base dei rispettivi effetti fisiologici; si tratta di classi sottoposte a revisione periodica. La legge in esame, ai sensi dell’art. 3, assegna il compito del contrasto all’utilizzazione delle sostanze dopanti in ambito sportivo alla «Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive», la cui composizione, insieme con le procedure di designazione dei componenti e le attività ad essa assegnate, ne connotano il fondamentale ruolo in tale settore. In tale ruolo di vigilanza, la Commissione si avvale anche dell’attività dei «Laboratori» che svolgono lo specifico controllo sanitario sull’attività sportiva, secondo quanto stabilito dall’art. 4. Tralasciando l’art. 5, che assegna alle Regioni la competenza in tema di programmazione delle attività di prevenzione e tutela della salute nelle attività sportive, particolare importanza riveste pure l’art. 6, il quale consente di stabilire sanzioni disciplinari nei confronti degli atleti tesserati, anche nel caso in cui abbiano assunto o somministrato o effettuato pratiche mediche non presenti nella lista approvata con decreto ministeriale, a condizione che dette sostanze o pratiche «siano considerate dopanti nell’ambito dell’ordinamento internazionale vigente». L’esigenza di assicurare un’ampia vigilanza sul fenomeno del doping in ambito sportivo, sotto il profilo della tutela della salute, è garantita anche dall’art. 7, il quale prevede l’obbligo per i produttori, gli importatori e i distributori di farmaci vietati dal Comitato internazionale olimpico o contenuti nelle classi delle sostanze dopanti, di trasmettere al Ministero della sanità i dati relativi alle quantità prodotte, importate, distribuite e vendute; e, nella medesima direzione della salvaguardia della incolumità della persona, si muove anche la previsione dell’obbligo, per le case farmaceutiche, di indicare sul prodotto la natura dopante del farmaco. Il Ministro della sanità, ai sensi dell’art. 8, deve poi riferire annualmente al Parlamento sullo stato di attuazione della legge e sull’attività svolta dalla Commissione. (…) Passando ora alle disposizioni di natura penale, deve rilevarsi che, a completamento della organica disciplina finora descritta, l’art. 9, prima dell’abrogazione disposta dall’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, prevedeva distinte fattispecie di reato, poi oggetto di trasposizione nel codice penale. In particolare, l’art. 9, comma 1, puniva, salvo che il fatto costituisse più grave reato, con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645 «[c]hiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze». E, ai sensi del comma 2, la medesima pena si applicava, sempreché il fatto non costituisse più grave reato, a «chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero dirette a modificare i risultati dei controlli sul ricorso a tali pratiche». Nei primi due commi dell’art. 9 il legislatore aveva previsto, quindi, le meno gravi fattispecie di reato che, ricomprendendo nella descrizione dell’elemento oggettivo la definizione di doping indicata dall’art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 376 del 2000, da un lato incriminavano, «salvo che il fatto costituisca più grave reato», le condotte di “etero doping” e di “doping autogeno”, aventi ad oggetto le sostanze dopanti e le pratiche mediche idonee a modificare le condizioni psico-fisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; e, dall’altro, sanzionavano le medesime condotte aventi ad oggetto sostanze dopanti o pratiche mediche idonee a modificare i risultati dei controlli sul doping. Vi era, poi, la più grave fattispecie delittuosa del commercio di sostanze dopanti prevista dal comma 7 – e che qui viene in rilievo, in quanto oggetto delle imputazioni contestate in entrambi i giudizi a quibus – consistente nella condotta, punita con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468, di «[c]hiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati alla utilizzazione sul paziente». Si trattava, dunque, di fattispecie incriminatrici che, ad eccezione dell’oggetto della illecita attività, costituito appunto dalle sostanze dopanti, si differenziavano, in modo significativo, in relazione, sia al tipo di condotta incriminata, sia per l’elemento soggettivo. Infatti, conformemente al dato letterale, la giurisprudenza di legittimità aveva più volte affermato che la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000 si completava con la previsione del dolo specifico, costituito dal fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; mentre, per il reato di commercio di sostanze dopanti, la medesima giurisprudenza riteneva che il reato richiedesse il solo dolo generico (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 4 aprile-9 luglio 2018, n. 30889, 28 febbraio-21 aprile 2017, n. 19198, 1° febbraio-20 marzo 2002, n. 11277). Il comma 7 dell’art. 9 – quanto alla fattispecie del reato di commercio di sostanze dopanti – non ripeteva la dizione «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» per la evidente ragione che questa condotta illecita, che il legislatore ha inteso reprimere con la sanzione penale, persegue normalmente un fine di lucro piuttosto che quello di alterare l’esito delle competizioni sportive. Quanto all’elemento oggettivo di tale reato, la Corte di cassazione aveva ritenuto sufficiente che l’attività fosse svolta in via continuativa, supportata da una elementare struttura organizzativa (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 ottobre-19 novembre 2013, 46246; sezione sesta penale, sentenza 20 febbraio-11 aprile 2003, n. 17322). In definitiva il consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità, con riguardo al reato di commercio di sostanze dopanti, ne aveva affermato, da un lato, l’autonomia rispetto alle fattispecie di cui ai primi due commi dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, e dall’altro, la natura di reato di pericolo che non necessitava di dolo specifico”.

Premesso ciò, i giudici di legittimità costituzionale denotavano come la disposizione censurata dalle ordinanze di rimessione intervenisse su tale consolidato assetto normativo e giurisprudenziale.

L’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017, invero, aveva delegato il Governo all’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato» fermo restando che, in attuazione di tale criterio di delega, l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 21 del 2018, ha inserito nel codice penale l’art. 586-bis, rubricato «Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

Tale nuovo articolo, difatti, quanto al primo e secondo comma, testualmente prevede: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645 chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste dalla legge, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze fermo restando che la pena di cui al primo comma si applica, salvo che il fatto costituisca più grave reato, a chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste dalla legge non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero dirette a modificare i risultati dei controlli sul ricorso a tali pratiche».

La disposizione de qua era però censurata quanto al successivo settimo comma che testualmente recita: «Chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge, che siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468».

Parallelamente, l’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, ha abrogato l’art. 9 della legge n. 376 del 2000.

Venendo in rilievo, nelle fattispecie considerate, la tutela del bene della salute individuale e collettiva, il legislatore delegato, dal canto suo, in attuazione del principio della «riserva di codice», aveva scelto di eliminare dalla legge n. 376 del 2000 le sole disposizioni incriminatrici, contenute nell’art. 9, per trasferirle, in conformità alla norma di delega, nel Libro II, Titolo XII, Capo I, del codice penale, tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale.

Ebbene, rilevava la Corte costituzionale a questo punto della disamina, che l’inserimento della nuova disposizione nel codice penale doveva tradursi – secondo il criterio di delega – in una operazione di mera trasposizione nel codice penale delle figure criminose già esistenti dal momento che l’enucleazione delle condotte penalmente sanzionate dalla legge n. 376 del 2000 e il conseguente loro inserimento nelle previsioni di cui all’art. 586-bis cod. pen., era avvenuta, in particolare, con la trasposizione, nei suoi primi due commi, delle fattispecie di reato previste dai corrispondenti primi due commi dell’originario art. 9 della legge n. 376 del 2000, che risultavano riprodotti testualmente nella disposizione codicistica atteso che il riferimento ai farmaci e alle sostanze appartenenti alle classi previste all’art. 2, comma 1, della legge stessa era stato riformulato nell’indicazione dei farmaci e delle sostanze «ricompresi nelle classi previste dalla legge», ma la diversa dizione testuale non ne alterava l’identità concettuale: «le classi previste dalla legge» rimangono pur sempre quelle contemplate dalla normativa speciale sul doping e quindi, ancor oggi, dalla legge n. 376 del 2000.

Oltre a ciò, era altresì rilevato che sia il primo, che il secondo comma, dell’art. 586-bis cod. pen. ripetono la previsione «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» e ciò mostrava, per la Consulta, chiaramente, che il legislatore delegato, nel trasferire la disposizione nel codice penale, aveva confermato – e non poteva essere diversamente in ragione del vincolo che derivava dal richiamato criterio di delega – la necessità del dolo specifico, come ritenuto dalla giurisprudenza sopra richiamata.

Invece, e quindi veniva ravvisata la criticità di rilevanza costituzionale, la nuova disposizione codicistica al settimo comma – che pure individua i farmaci e le sostanze, oggetto di commercio, facendo riferimento a quelli «ricompresi nelle classi previste dalla legge», ossia nelle classi previste dalla stessa legge n. 376 del 2000 – aggiunge le parole, non presenti nel settimo comma dell’art. 9 citato: «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», trattandosi della stessa dizione testuale presente non solo nel primo (e nel secondo) comma dell’art. 586-bis, ma anche negli stessi primi due commi dell’art. 9, e interpretata – come già rilevato – dalla giurisprudenza come richiedente il dolo specifico al fine dell’integrazione di quelle fattispecie penali, e ciò aveva per l’appunto indotto i giudici rimettenti a ritenere che tale elemento aggiunto nella fattispecie di commercio di sostanze e farmaci dopanti, derivante dalla introduzione del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», avesse determinato una parziale abolitio criminis, restringendo l’area della rilevanza penale della condotta illecita, punibile solo qualora sia configurabile il dolo specifico e da qui la questione di costituzionalità dell’art. 586-bis cod. pen., per violazione dell’art. 76 Cost., sollevata dai giudici rimettenti.

Ciò premesso, il Giudice delle leggi riteneva, in via preliminare, come la questione fosse ammissibile, sussistendo, innanzitutto, la rilevanza della questione di costituzionalità in quanto entrambi i rimettenti avevano ambedue plausibilmente motivato in ordine alla necessità di fare applicazione delle censurate disposizioni nei giudizi a quibus (ex plurimis, sentenze n. 182 e n. 55 del 2021) posto che, se la Corte di Cassazione, in relazione al secondo motivo di ricorso, aveva rilevato che «in applicazione della nuova e più favorevole fattispecie incriminatrice l’imputato dovrebbe essere assolto per difetto dell’elemento soggettivo», con ciò dovendo dirimere l’alternativa tra considerare la fattispecie concreta come ancora integrante il reato, o piuttosto come oggetto di una parziale abolitio criminis, con evidenti ripercussioni sulla motivazione della decisione, a sua volta, anche il Giudice del Tribunale ordinario di Busto Arsizio aveva chiarito come l’istruttoria dibattimentale avesse fornito la prova dell’attività di commercio illecito, ma non anche della sussistenza del dolo specifico, con la conseguenza che l’accoglimento della questione necessariamente si sarebbe riverberata sull’esito decisorio del giudizio penale.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, in entrambe le ordinanze di rimessione, la non manifesta infondatezza della sollevata questione era stata puntualmente argomentata, così come, sebbene se nessuna eccezione sul punto fosse stata sollevata, non essendo il Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto in alcuno dei due giudizi incidentali, né essendosi costituite le parti del giudizio principale, per la Corte di legittimità costituzionale, doveva ritenersi l’ammissibilità della questione anche sotto il profilo dell’auspicato effetto estensivo della punibilità – e, quindi, in malam partem – conseguente al suo eventuale accoglimento, in riferimento al principio della riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. dato che la pronuncia di illegittimità costituzionale, richiesta dai giudici rimettenti, avrebbe, sempre ad avviso della Consulta, l’effetto di ampliare l’area della rilevanza penale della condotta di commercio di sostanze dopanti, per la cui punibilità non occorrerebbe più il dolo specifico del fine di alterare le prestazioni agonistiche.

Infatti, se è vero che in linea di principio sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 8 del 2022, n. 37 del 2019, n. 57 del 2009, n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante, Ppincipio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009), è altrettanto vero, però, per la Corte, che, come ribadito anche di recente in sede di giustizia costituzionale (sentenze n. 236 e n. 143 del 2018), «tali principi non sono senza eccezioni» (sentenza n. 37 del 2019) e, tra tali eccezioni, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, senz’altro rientra l’uso scorretto del potere legislativo da parte del Governo che abbia abrogato, anche parzialmente, mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega, rilevandosi al contempo che, a tal riguardo, gli stessi giudici di legittimità costituzionale hanno affermato che deve escludersi che il principio della riserva di legge in materia penale precluda il sindacato di legittimità costituzionale in ordine alla denunciata violazione dell’art. 76 Cost. (sentenza n. 5 del 2014), così come, più recentemente, è stato ribadito quanto segue: «è proprio il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. a rimettere “al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare”, di talché tale principio “è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa. […] L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe [dunque] in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti”» (sentenza n. 189 del 2019).

Orbene, tali principi, secondo quanto ritenuto dalla Consulta nella pronuncia qui in commento, dovevano essere confermati anche con riferimento alla questione di legittimità costituzionale in esame atteso che le ordinanze di rimessione censuravano proprio lo scorretto uso del potere legislativo da parte del Governo, che – in asserito contrasto con la norma di delega – aveva trasposto nel codice penale la disposizione incriminatrice in esame restringendo la rilevanza penale della condotta da essa originariamente prevista (commercio di sostanze dopanti), mentre la fattispecie di reato sarebbe dovuta rimanere inalterata nella sua estensione, tenuto conto altresì del fatto che, del resto, il Governo non era intervenuto in alcuno dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale e quindi non aveva svolto alcuna difesa a sostegno dell’inammissibilità – e neppure della non fondatezza – della questione.

Premesso ciò, nel merito, la questione era reputata fondata per i seguenti motivi.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che la norma di delega, di cui all’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017 – come già rilevato (punto 5) – mirava all’attuazione, sia pure tendenziale, del principio della «riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena», rilevandosi al contempo che, nella Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, in particolare, si evidenziava che il recepimento del «principio della tendenziale riserva di codice» si sostanziava in un progetto di «“riordino” della materia penale “ferme restando le scelte incriminatrici già operate dal Legislatore”, così da preservare la centralità del codice penale secondo la gerarchia di interessi che la Costituzione delinea», dovendosi «escludere che l’attività delegata possa consistere in modifiche alle fattispecie vigenti, contenute in contesti diversi dal codice penale».

L’intento del legislatore delegante, quindi, ad avviso della Corte costituzionale, tendeva a «razionalizzare e rendere, quindi, maggiormente conoscibile e comprensibile la normativa penale e di porre un freno alla caotica e non sempre facilmente intellegibile produzione legislativa di settore» per cui «non sarebbe consentita un’opera di razionalizzazione che passasse attraverso la revisione generale della parte speciale del codice penale e della legislazione complementare», tenuto conto altresì del fatto che la stessa Consulta, con riferimento alla diversa fattispecie incriminatrice di cui all’art. 570-bis cod. pen. – oggetto anch’essa di inserimento nel codice penale in attuazione della medesima norma di delega – ha già affermato che «[i]l Governo non avrebbe d’altra parte potuto, senza violare le indicazioni vincolanti della legge delega, procedere a una modifica, in senso restrittivo o estensivo, dell’area applicativa delle disposizioni trasferite all’interno del codice penale; né avrebbe potuto, in particolare, determinare – in esito all’intrapreso riordino normativo – una parziale abolitio criminis con riferimento a una classe di fatti in precedenza qualificabili come reato, come quella lamentata da tutte le odierne ordinanze di rimessione» (sentenza n. 189 del 2019).

Pertanto, secondo la Corte di legittimità costituzionale, anche con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 586-bis cod. pen., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, doveva essere ribadito che la delega di cui all’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017, nel demandare al Governo «l’inserimento nel codice penale delle fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore», assumeva l’univoco significato di precludere, al legislatore delegato, di modificare in senso, sia ampliativo, sia restrittivo, le fattispecie criminose vigenti nella legislazione speciale.

Precisato ciò, nel caso di specie, il Giudice delle leggi faceva presente come il legislatore delegato, nel compiere l’operazione di “riassetto normativo” nel settore del doping, avesse arricchito la descrizione della fattispecie del reato di commercio illecito di sostanze dopanti, idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, con l’introduzione del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti »; fine che era presente, con la stessa formulazione testuale nei primi due commi, sia del medesimo art. 586-bis cod. pen., sia dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, e che dalla giurisprudenza era stato qualificato come dolo specifico mentre, sotto l’aspetto oggettivo, la condotta di commercio aveva lo stesso ambito ed estensione di quelle del primo comma della disposizione censurata nel senso che tutte riguardano le sostanze dopanti individuate con il riferimento alle «classi indicate dalla legge» e, quindi, il perimetro definitorio di tali sostanze, per la Corte, era lo stesso posto che, nell’art. 586-bis cod. pen., la condotta incriminata di commercio – analogamente a quella di procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire comunque l’utilizzo – ha ad oggetto farmaci e sostanze farmacologicamente o biologicamente attive, le quali per un verso sono ricomprese nelle classi indicate dalla legge e, per l’altro, sono idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo. 

Il riferimento alle «classi indicate dalla legge» era quindi stato fatto, per la Consulta, in tutta evidenza, alla legge che tali classi di farmaci e sostanze dopanti prevede, ossia, allo stato attuale della legislazione, proprio alla legge n. 376 del 2000 la quale – tuttora in vigore, essendo stata abrogata limitatamente al suo art. 9, in quanto le relative fattispecie di reato sono state trasferite nel codice penale – prevede espressamente, all’art. 2, le classi di sostanze dopanti, la cui elencazione è demandata a un decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive fermo restando che tale prescrizione, a sua volta, si salda alla previsione del precedente art. 1, espressamente richiamato, che offre una definizione più generale di doping ed essa continua a rappresentare la base legislativa per l’individuazione delle sostanze che costituiscono l’oggetto materiale di tutte le condotte incriminate dall’art. 586-bis cod. pen..

In relazione a tale quadro normativo, connotato da una sostanziale continuità tra la legislazione previgente e quella attualmente in vigore, però, per la Corte costituzionale, il legislatore del 2000, però, con una precisa scelta di politica criminale, aveva operato una distinzione, sul piano soggettivo, quanto al dolo nel senso che, se per le condotte del primo comma dell’art. 9 (id est: procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire comunque l’utilizzo) – e parimenti per quelle del secondo comma – aveva previsto il dolo specifico, ossia il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» e, di conseguenza, il bene giuridico protetto coniugava la salute, individuale e collettiva, degli atleti con la regolarità delle competizioni agonistiche, per la condotta del settimo comma (id est: il commercio), invece, non era richiesto tale dolo specifico per la evidente ragione che il commercio di sostanze dopanti persegue normalmente un fine di lucro, piuttosto che quello di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti. 

La scelta del legislatore era stata dunque quella di contrastare con effettività e maggior rigore il commercio illegale di sostanze dopanti sol che sussistesse il dolo generico, senza richiedere il dolo specifico, che peraltro sarebbe stato difficile da provare per il pubblico ministero. 

Il bene giuridico protetto – in disparte la regolarità delle competizioni agonistiche che rimane sullo sfondo – era in effetti costituito soprattutto dalla salute, individuale e collettiva, delle persone, anche di quelle che, in ipotesi, assumono sostanze dopanti procuratesi fuori dal circuito legale a un fine diverso da quello di «alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» mentre il legislatore delegato, invece, aveva riprodotto nel settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen. la previsione della stessa finalità – e quindi del medesimo dolo specifico – presente nel primo comma (oltre che nel secondo).

In tal modo, per i giudici di legittimità costituzionale, la fattispecie penale del commercio di sostanze dopanti si era sensibilmente ridotta alla sola ipotesi in cui il suo autore persegua il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», al pari di chi procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di sostanze dopanti ma questa limitazione, se è conforme alla legge quanto alle condotte del primo (e del secondo) comma dell’art. 586-bis cod. pen. perché già presente nei corrispondenti primi due commi dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, si poneva invece, per la Consulta, in contrasto con il criterio di delega quanto alla condotta di commercio di sostanze dopanti di cui al settimo comma della disposizione codicistica perché non presente nel comma 7 dell’art. 9.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente come non fosse nemmeno possibile ipotizzare che il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» abbia un significato diverso all’interno della medesima disposizione dell’art. 586-bis, da una parte nei primi due commi, e, dall’altra, nel settimo comma, ipotizzando che in quest’ultimo valga invece a specificare la sostanza dopante nel suo contenuto oggettivo e non già a connotare la condotta quanto all’elemento soggettivo del reato dal momento che, se il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» costituisce dolo specifico nei primi due commi, lo è anche nel settimo comma (ex plurimis, con riferimento all’art. 9, commi 1 e 2, Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenze 4 aprile-9 luglio 2018, n. 30889, 28 febbraio-21 aprile 2017, n. 19198 e sezione seconda penale, sentenza 10 novembre 2016-19 gennaio 2017, n. 2640), la specificazione della sostanza dopante, nel suo contenuto oggettivo, è già tutta nella previsione, contenuta nel settimo comma, come nel primo comma, che richiede che essa sia ricompresa nelle «classi indicate dalla legge» e, pertanto, come siffatto rinvio recettizio del primo comma vale a individuare compiutamente il perimetro definitorio della fattispecie quanto al suo elemento oggettivo, lo stesso vale anche nel settimo comma, sicché il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» non può che attenere all’elemento soggettivo in entrambi i commi e costituisce una tipica ipotesi di dolo specifico.

Del resto, sempre ad avviso della Consulta, se è vero che, poi, il settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen. aggiunge anche, rispetto al comma 7 dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, che la condotta di commercio illecito può riguardare farmaci e sostanze farmacologicamente o biologicamente attive «idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze», ciò che parimenti non era previsto nell’originaria formulazione della norma, comunque, al di là della apparente circolarità della dizione testuale, il quid pluris in questa parte, che pure si rinviene nella norma codicistica rispetto alla formulazione originaria, è in realtà, per la Corte, meramente confermativo di quanto già previsto dall’art. 1, comma 3, della legge n. 376 del 2000, che equipara al doping la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2 atteso che il successivo art. 2 – nel definire le «classi delle sostanze dopanti» (le stesse «classi indicate dalla legge» di cui all’art. 586-bis) – richiama ciò che «è considerato doping a norma dell’articolo 1» e quindi anche ciò che dal comma 3 dell’art. 1 è equiparato al doping, rilevandosi al contempo che, nel settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen., questa equiparazione, pur già contenuta nel richiamo delle «classi indicate dalla legge», è esplicitata e ribadita con il riferimento alla idoneità a modificare i risultati dei controlli sull’uso di farmaci o sostanze dopanti e, quindi, in questa parte, il perimetro definitorio della fattispecie di commercio di sostanze dopanti non è, in realtà, modificato, fermo restando che un’analoga considerazione non può però svolgersi per il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», aggiunto nel settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen., perché la simmetria con la stessa dicitura presente nel primo comma indirizza univocamente a considerare, come richiesto per integrare la fattispecie penale, il dolo specifico per la punibilità delle condotte previste nell’uno e nell’altro comma.

In definitiva, per il Giudice delle leggi, la novella censurata alterava significativamente la struttura della fattispecie di reato che, per effetto di tale innovazione, punisce la condotta di commercio delle sostanze dopanti solo se posta in essere al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti e quindi solo se sussiste, in questi termini, il dolo specifico, così come anche il baricentro del bene giuridico protetto risultava essere deviato dalla salute, individuale e collettiva, delle persone alla correttezza delle competizioni agonistiche avendo il Governo, agendo in tal modo, operato una riduzione della fattispecie penale perché, richiedendo il dolo specifico, aveva ristretto l’area della punibilità della condotta di commercio di sostanze dopanti e ciò, per la Consulta, si poneva in contrasto con le indicazioni vincolanti della legge delega che non attribuiva il potere di modificare le fattispecie incriminatrici già vigenti, e quindi operando in violazione dell’art. 76 Cost. poiché la Corte costituzionale aveva, più volte, affermato che la delega per il riordino o per il riassetto normativo concede al legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative le quali, a loro volta, devono comunque attenersi strettamente ai princìpi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante (ex multis, sentenze n. 61 del 2020, n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n. 293 e n. 230 del 2010) sicché andava delimitato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, da intendersi in ogni caso come strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega (ex plurimis, sentenze n. 250 del 2016, n. 162 e n. 80 del 2012, n. 293 del 2010).

Di conseguenza, per la Consulta, l’innesto del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» – che nella fattispecie incriminatrice del commercio illecito assurgeva a dolo specifico – non era considerata coerente con la ratio sottesa ai criteri e principii della delega che, viceversa, non autorizzava un abbassamento del livello di contrasto delle condotte costituenti reato secondo la legislazione speciale (sentenze n. 231 del 2021, n. 142 del 2020, n. 170 del 2019 e n. 198 del 2018).

In conclusione, per i giudici di legittimità costituzionale, la scelta del legislatore delegato di inserire l’elemento soggettivo del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», nella fattispecie incriminatrice del commercio illecito delle sostanze dopanti, contrastava con l’art. 76 Cost. in quanto effettuata al di fuori della delega legislativa e, pertanto, era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 21 del 2018, limitatamente alle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

Oltre a ciò, era altresì precisato che, sebbene non potesse ignorarsi il fatto che nell’art. 586-bis cod. pen. non figura più il comma 7-bis, già introdotto dall’art. 13, comma 1, della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute), poi abrogato dall’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, il quale comminava la medesima pena, prevista per il reato di commercio di sostanze dopanti, «al farmacista che, in assenza di prescrizione medica, dispensi i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’art. 2, comma 1, per finalità diverse da quelle proprie ovvero da quelle indicate nell’autorizzazione all’immissione in commercio», tuttavia non era possibile per la Corte estendere, in questa parte, la pronuncia di illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in mancanza di un «rapporto di chiara consequenzialità con la decisione assunta» (sentenze n. 49 del 2018 e n. 266 del 2013) nel considerare le due fattispecie di reato (quelle già previste dai commi 7 e 7-bis dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000).

Infine, quanto agli effetti sui singoli imputati dei giudizi penali principali, le cui condotte erano state precedenti all’entrata in vigore della disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima, la Consulta prendeva atto come dovesse competere ai giudici rimettenti valutare le conseguenze applicative che sarebbero potuto derivare dalla pronuncia di accoglimento, tenendo conto della costante giurisprudenza della Corte costituzionle (ex plurimis, sentenza n. 394 del 2006), rilevandosi al contempo che il principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost., il quale esclude che possa essere sanzionato penalmente un fatto che non costituiva reato al momento in cui è stato commesso, comportava che rimanesse sussistente la necessità, per l’integrazione della fattispecie penale in esame, di accertare il dolo specifico per le condotte di commercio di sostanze dopanti poste in essere tra il 6 aprile 2018 (data di entrata in vigore della disposizione censurata) e la data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza di questa Corte, dichiarativa della sua illegittimità costituzionale.

La Consulta, quindi, come già accennato in precedenza, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, del codice penale, introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», limitatamente alle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

Conclusioni

Con la decisione in esame, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, del codice penale, introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», limitatamente alle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

Pertanto, per effetto di questa pronuncia, per potere essere perseguito e accertato il reato contemplato da questa norma incriminatrice che, come è noto, punisce (con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468) la condotta di chi commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente, non è più richiesto che l’autore di tale illecito penale agisca allo scopo di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, essendo adesso sufficiente il solo dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di commerciare siffatti farmaci o codeste sostanze purchè esse siano idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente.

L’elemento soggettivo, quindi, non è più quello del dolo specifico che richiedeva un grado di accertamento evidentemente di gran lunga superiore di quanto è adesso richiesto per la configurabilità di codesto illecito penale.

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare la sussistenza di cotale delitto.

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