La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni contro le immigrazioni clandestine

Indice:

Il fatto

Il Tribunale rimettente si trova a giudicare della responsabilità penale di una imputata di origini congolesi, alla quale era contestato il delitto di cui all’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione, aggravato ai sensi del comma 3, lettera d), del medesimo articolo, in concorso con il delitto di possesso di documenti di identificazione falsi di cui all’art. 497-bis del codice penale, aggravato dalla finalità di eseguire il primo delitto ai sensi dell’art. 61, numero 2), cod. pen., perché, presentatasi il 27 agosto 2019 alla frontiera aerea di Bologna in arrivo con un volo proveniente da Casablanca, esibiva un passaporto senegalese poi risultato falso e accompagnava due bambine infraquattordicenni, per le quali mostrava due passaporti anch’essi risultati falsi.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

A fronte di più estesi dubbi di illegittimità costituzionale sollevati dalla difesa dell’imputata, il rimettente riteneva rilevanti e non manifestamente infondati solamente quelli relativi all’aumento di pena previsto dall’art. 12, comma 3, lettera d), t.u. immigrazione, per le ipotesi – entrambe rilevanti nel caso all’esame – in cui il fatto sia stato commesso utilizzando «servizi internazionali di trasporto», ovvero «documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti»; ipotesi che in giurisprudenza sono qualificate come circostanze aggravanti a effetto speciale rispetto alla fattispecie base di cui al primo comma del medesimo articolo (era richiamata Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 21 giugno 2018, n. 40982).

Il rimettente osservava anzitutto che, per effetto delle circostanze denunciate, la pena detentiva prevista per la fattispecie base (reclusione da uno a cinque anni) viene quintuplicata nel minimo e triplicata nel massimo, pervenendosi così a una cornice edittale che va da cinque a quindici anni di reclusione, cui si aggiunge una pena pecuniaria di ingente entità.

Un tale irrigidimento del trattamento sanzionatorio potrebbe, ad avviso del rimettente, giustificarsi unicamente per quelle fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare caratterizzate da uno scopo di lucro (c.d. smugglers of migrants), elemento quest’ultimo assente nella disposizione» in esame e integrante, invece, un’autonoma fattispecie aggravante prevista dal successivo comma 3-ter, la cui applicazione comporta un ulteriore aumento di pena rispetto a quello già previsto dal comma 3 mentre l’irragionevolezza dell’aumento di pena previsto dalla disposizione censurata risulterebbe invece «di palmare evidenza sulla base di una valutazione per così dire interna» allo stesso comma 3. In effetti, il legislatore avrebbe equiparato sul piano sanzionatorio «le ipotesi in cui lo straniero venga esposto a pericolo per la vita o l’incolumità fisica (lett. b) o sottoposto a trattamenti inumani e degradanti (lett. c), o vi sia l’uso di esplodenti o di armi (lett. e), con quelle, la cui portata appare molto più modesta», previste dal frammento normativo censurato, riferito a «condotte che vengono attuate o avvalendosi di un mezzo di per sé lecito (l’impiego di un vettore di trasporto), oppure attraverso un’ulteriore condotta delittuosa (reato di falso), sia pure assoggettata ad altre specifiche sanzioni penali, per le quali non appare giustificabile la previsione di una sanzione così elevata rispetto alla pena base», con la conseguenza» – proseguiva il rimettente nel suo ragionamento giuridico – «che la condotta consistente nel far viaggiare lo straniero nascosto nella cella frigorifera di un camion o […] accompagnarlo attraverso impervi sentieri di montagna, in entrambi i casi con rischio per la vita o per l’incolumità del migrante, viene punita nello stesso modo di chi invece faccia viaggiare lo straniero con un volo di linea o limitandosi a procurargli un passaporto o un visto falso» visto che le altre fattispecie aggravate delineate dall’art. 12, comma 3, t.u. immigrazione tutelerebbero in effetti, «oltre ai beni giuridici dell’ordine pubblico e della sicurezza dei confini, anche le persone trasportate, che spesso versano in uno stato di bisogno» sicché il disvalore delle condotte in questione sarebbe «determinato anche dall’incidenza delle stesse sui diritti fondamentali delle persone trasportate o illegalmente introdotte nel territorio dello Stato».

A fronte di ciò, si prendeva invece atto che siffatta incidenza offensiva, viceversa, sarebbe del tutto assente nelle fattispecie oggetto di censura le quali colpiscono condotte che non offendono beni diversi rispetto a quello tutelato dal comma 1, né evidenziano rispetto ad essi un maggior disvalore, dal momento che, da un lato, l’uso di servizi internazionali di trasporto costituirebbe uno strumento di per sé lecito, rappresentando anzi «il modo ordinario per attuare uno spostamento da uno stato all’altro» e che, dall’altro, l’uso di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti costituirebbe «soltanto una modalità dell’ingresso illegittimo, che non aggiung[e] in concreto alcun disvalore alla condotta».

Ciò posto, richiamata la giurisprudenza della Consulta in materia di proporzionalità della pena, e in particolare la sentenza n. 236 del 2016, il rimettente invocava la rimozione delle due menzionate fattispecie aggravanti in quanto ciò determinerebbe la riconducibilità della condotta contestata all’imputata all’ipotesi non aggravata prevista dal comma 1, mentre le falsità documentali di cui la stessa era accusata potrebbero essere autonomamente qualificate ai sensi dell’art. 497-bis cod. pen., una volta venuto meno il reato complesso costituito dalla fattispecie aggravata prevista dal comma 3 censurato che, secondo la giurisprudenza nomofilattica, assorbe il delitto di possesso di documenti di identificazione falsi di cui al menzionato art. 497-bis cod. pen. (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 aprile 2011, n. 21596 [recte: n. 21586]).

Detto questo, in via subordinata, il rimettente prospettava peraltro un diverso «tertium comparationis» dal quale si ricaverebbe un trattamento sanzionatorio sostitutivo di quello previsto dalla disposizione censurata, rappresentato in particolare dal quadro edittale previsto dall’art. 12, comma 3, t.u. immigrazione, nel suo testo originario, che prevedeva la pena della reclusione da quattro a dodici anni oltre a una multa «sempre che anche tale ultima pena non debba ritenersi intrinsecamente sproporzionata».

Di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui menzionate, il Tribunale ordinario di Bologna sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «limitatamente alle fattispecie di impiego di servizi internazionali di trasporto o di documenti falsi o illegalmente ottenuti, nella parte in cui prevede l’aggravamento di pena rispetto all’ipotesi semplice», in riferimento al principio di uguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione e al principio di proporzionalità della sanzione penale di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..

Le argomentazioni sostenute dalle parti e degli amici curiae

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili e comunque non fondate.

In particolare, l’interveniente, dopo aver ripercorso la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di proporzionalità della pena, osservava che, mentre la fattispecie base prevista dall’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione sarebbe costruita come un reato di pericolo o a consumazione anticipata, le condotte descritte al censurato terzo comma implicherebbero l’effettivo ingresso dello straniero nello Stato (era richiamata Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 25 marzo 2014, n. 40624) e sarebbero, pertanto, connotate da un maggior disvalore, fermo restando che la disposizione censurata avrebbe comunque «lasciato ampio spazio valutativo al Giudice del caso concreto, sia prevedendo una forbice sanzionatoria molto ampia (dieci anni di reclusione), sia permettendo di determinare la pena mediante il bilanciamento delle circostanze, impedito solo per le ipotesi più gravi».

Per quanto in particolare attiene alla circostanza consistente nell’utilizzo di servizi internazionali di trasporto, la difesa erariale osservava altresì che la ratio della norma sarebbe «quella di punire più gravemente la condotta del procurato ingresso in Italia non solo da parte dei vettori professionali, ma anche da parte di chiunque utilizza un vettore di trasporto internazionale di merci o persone – i cui mezzi per evidenti esigenze di speditezza nello spostamento di più persone o di notevoli quantità di merci non possono essere soggetti a lunghi e penetranti controlli – per procurare ad altri l’ingresso non autorizzato».

Ciò posto, oltre a tale parte, si costituiva nel giudizio a quo pure l’imputata a mezzo del proprio difensore il quale chiedeva l’accoglimento delle questioni prospettate.

In particolare, siffatta parte, ricostruito il quadro normativo, osservava anzitutto come le ipotesi aggravate oggetto delle odierne censure fossero state introdotte ad opera della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati nel testo della legge delega sulla cui base è stato adottato il t.u. immigrazione, in assenza di alcun dibattito in Commissione o in Assemblea.

Rilevava inoltre che la fattispecie di cui all’art. 12, comma l, t.u. immigrazione è stata introdotta in adempimento di obblighi di incriminazione di rango sovranazionale derivanti da fonti ispirate allo scopo del contrasto dei cosiddetti “smugglers of migrants” «ossia quei soggetti che, agendo per scopo di lucro, si inseriscono a vario titolo nel network criminale internazionale da cui scaturisce il mercato nero delle migrazioni irregolari», deducendo al contempo che il tratto distintivo del fenomeno, che il legislatore avrebbe inteso colpire, consista nella «vendita di servizi di immigrazione illegale» il quale, a sua volta, sarebbe confermato, ad avviso della parte, dagli stessi obblighi di criminalizzazione alla base della disposizione censurata, e in particolare dall’art. 27 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, firmata il 19 giugno 1990, nonché dal combinato disposto degli artt. 3, lettera a), e 6 del Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria (cosiddetto Protocollo di Palermo), che impongono obblighi di sanzionare condotte di favoreggiamento dell’immigrazione illegale compiute a scopo di lucro.

A fronte di ciò, si faceva però presente che la fattispecie di cui all’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione sarebbe stata «configurata in maniera tale da attrarre nel proprio ambito di applicazione un ventaglio assai più ampio di condotte», non rientrando lo scopo di lucro tra gli elementi costitutivi dell’illecito e avendo, invece, rilievo solo quale circostanza aggravante e, conseguentemente, «l’elevato carico sanzionatorio di cui è dotata la fattispecie in esame» sarebbe ragionevolmente giustificato soltanto rispetto a quelle condotte «coerenti con la sua funzione politico-criminale» e non, invece, «rispetto alle condotte poste in essere da chiunque, agendo senza finalità di ottenere un ingiusto profitto (per i più disparati motivi: famigliari, umanitari, di soccorso ecc.), aiuti o tenti di aiutare uno straniero ad entrare irregolarmente nel territorio».

La parte in questione rilevava poi che la direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, e la parallela decisione quadro, in pari data, 2002/946/GAI del Consiglio, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, dal cui combinato disposto discende l’obbligo di incriminazione delle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non contemplano lo scopo di lucro tra gli elementi costitutivi dell’illecito ma l’obbligo di prevedere sanzioni detentive sussisterebbe, ai sensi di tali strumenti europei, soltanto rispetto alle condotte più gravi, individuate proprio «attraverso gli elementi caratteristici dello smuggling (ossia lo scopo di lucro, accompagnato alternativamente dalla presenza di un’organizzazione criminale o dal rischio per la vita dei migranti: cfr. art. 1, par. 3 della decisione quadro)».

Precisato ciò, cotale parte si soffermava quindi su taluni profili di fatto del caso all’esame del giudice a quo, riferendo in particolare che: 1) tanto l’imputata, quanto le due bambine da lei trasportate – nate rispettivamente nel 2006 e nel 2011 – provenivano dalla Repubblica Democratica del Congo; 2) la donna era stata arrestata appena giunta all’aeroporto di Bologna, ma che nei suoi confronti non era successivamente stata applicata alcuna misura cautelare; 3) la stessa aveva quindi presentato richiesta di protezione internazionale; 4) le minori erano state quindi affidate a una comunità e qui avevano manifestato il desiderio di ricongiungersi all’imputata, sulla base di un legame affettivo che emergerebbe dalle relazioni degli assistenti sociali, allegate all’atto di costituzione; 5) in effetti, le minori risultavano essere la figlia e la nipote dell’imputata.

Da tali circostanze se ne faceva dunque discendere la conclusione che l’obiettivo dell’imputata, «benché perseguito con modalità fraudolente, era volto in ultima analisi al bene delle minori coinvolte».

Richiamando la sentenza n. 236 del 2016, la parte evidenziava altresì come non potrebbe negarsi la rilevanza delle questioni prospettate sulla base dell’argomento secondo cui il giudice sarebbe comunque in grado di infliggere una pena non sproporzionata avvalendosi dell’ampia cornice edittale, dal momento che proprio la pena minima di cinque anni di reclusione sarebbe irragionevolmente severa rispetto alla gravità del fatto, né sarebbe possibile affermare che la sproporzione possa venir meno in ragione di un bilanciamento dell’aggravante censurata con eventuali circostanze attenuanti, dal momento che la funzione delle circostanze medesime sarebbe quella di consentire l’adeguamento della sanzione penale al reale disvalore del fatto concreto, e non certo quella di ovviare alla manifesta sproporzione di una sanzione prevista dal legislatore (sono citate le sentenze n. 249 del 2010 e n. 119 del 1970 della Corte costituzionale).

Secondo la parte in oggetto, la disposizione censurata contrasterebbe anzitutto con il principio di uguaglianza-ragionevolezza fondato sull’art. 3 Cost. atteso che difetterebbe ogni ragionevole giustificazione della risposta sanzionatoria più intensa ivi prevista rispetto alla fattispecie base, dal momento che avvalersi di documenti falsi per accedere ai vettori internazionali di trasporto non approfondirebbe il disvalore insito nella condotta di favoreggiamento dell’ingresso irregolare, trattandosi di «una modalità del tutto fisiologica – si potrebbe definire “ordinaria” – di realizzazione di una condotta che offende il bene giuridico dell’ordinata gestione dei flussi migratori», tanto che, proprio in conseguenza della presenza della circostanza aggravante in esame, l’ambito di applicazione della fattispecie base finirebbe per essere ridotto «a ipotesi del tutto marginali, con l’inversione logica del rapporto che normalmente intercorre tra una figura di reato e le relative circostanze».

Oltre a ciò, era oltre tutto notato che l’irragionevolezza dell’aumento di pena previsto dalla disposizione censurata risulterebbe particolarmente evidente anche alla luce del confronto con altre aggravanti previste dall’art. 12 t.u. immigrazione, aventi natura chiaramente plurioffensiva e caratterizzate dalla sottoposizione dello straniero a pericoli per la propria vita o integrità fisica, o a trattamenti inumani o degradanti: situazioni assai diverse da quella in esame in termini di disvalore, né il trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione censurata potrebbe giustificarsi in ragione del disvalore connesso all’uso di documenti contraffatti, alterati o illegalmente ottenuti, che resterebbe comunque autonomamente sanzionato, in misura proporzionata, ai sensi dell’art. 497-bis cod. pen..

Inoltre, la disposizione censurata contrasterebbe con il principio di proporzionalità della sanzione penale, desumibile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., da leggersi anche alla luce dell’art. 49, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), che – pur se non evocato dal rimettente – rappresenterebbe un parametro implicito di legittimità, che dovrebbe comunque fungere da criterio per l’interpretazione conforme del principio di proporzionalità nazionale.

Indipendentemente dal raffronto con uno specifico tertium comparationis, difetterebbe infatti in radice, nel trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione all’esame, la proporzione tra sanzione e offesa, in ragione del «tasso di disvalore particolarmente tenue» che contraddistinguerebbe le condotte in questione, che, secondo l’id quod plerumque accidit, sarebbero compiute con lo scopo di «aiutare lo straniero senza esporlo ai pericoli tipici dell’attraversamento clandestino delle frontiere» fermo restando che, d’altra parte, la stessa sentenza n. 236 del 2016 della Corte costituzionale avrebbe ritenuto che «i falsi commessi per finalità altruistiche appartengano al novero delle condotte (ancorché tipiche) dotate di minore offensività, tanto dal ritenerle incompatibili, nella prospettiva della proporzionalità della pena, con una cornice edittale da cinque a quindici anni di reclusione», identica – quanto alla pena detentiva – a quella che ora era all’esame.

Per di più, presentavano un’opinione scritta, in qualità di amici curiae, l’Accademia di diritto e migrazioni (ADiM), composta da studiosi che svolgono attività di ricerca, anche applicata, in materia di immigrazione, istituita nell’ambito del progetto di eccellenza 2018-2022 del Dipartimento di studi linguistico-letterari, storico-filosofici e giuridici dell’Università della Tuscia; e, congiuntamente, l’European Council on Refugees and Exiles (ECRE), l’International Commission of Jurists (ICJ) e l’Advice on Individual Rights in Europe (AIRE Centre), tre associazioni internazionali senza fine di lucro impegnate nella promozione dei diritti umani e nella tutela dei diritti di migranti e rifugiati.

Nel dettaglio, l’ECRE, l’ICJ e l’AIRE avevano svolto considerazioni a sostegno della fondatezza delle censure sollevate dal rimettente, fornendo alla Consulta un contributo (stimato) consistente anzitutto in una ricostruzione articolata del quadro normativo europeo e internazionale di riferimento.

Più nel particolare, secondo gli amici curiae, da tale quadro – e in particolare dall’art. 6, paragrafo 3, del Protocollo di Palermo – si ricaverebbe un vincolo per gli Stati parte ad adottare misure legislative per conferire il carattere di circostanza aggravante a due sole ipotesi, relative «al fatto di mettere in pericolo, o di rischiare di mettere in pericolo, la vita e l’incolumità dei migranti coinvolti» e all’esposizione degli stessi a «trattamenti disumani o degradanti, incluso lo sfruttamento» mentre, viceversa, nessun obbligo si rinverrebbe rispetto alle due ipotesi aggravanti oggetto di censura, «frutto di una libera scelta del legislatore nazionale»; scelta che la Consulta, a loro avviso, dovrebbe vagliare anche alla luce dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, che «pur non essendo stato espressamente menzionato dal giudice rimettente, congiuntamente agli artt. 3 e 27 Cost., rappresenta un parametro implicito di legittimità evocato dal generale riferimento al principio di proporzionalità delle sanzioni penali» (erano richiamate le sentenze della Consulta n. 251 del 2012, n. 105 del 2014, n. 106 del 2014 e n. 236 del 2016).

Ebbene, sempre ad avviso di siffatti amici curiae, a tale principio non si sarebbe conformata la disposizione censurata poiché non prevede «alcuna verifica dei criteri di necessità e di proporzionalità» ma al contrario «vieta, e quantomeno limita seriamente qualsiasi attività di chi tenti di favorire un ingresso irregolare per ragioni di soccorso, assistenza famigliare o genuinamente altruistiche a richiedenti protezione internazionale».

Detto questo, anche l’ADiM svolgeva considerazioni a sostegno della fondatezza nel merito delle censure sollevate dal rimettente.

Anzitutto si osservava come l’odierna questione di legittimità costituzionale fosse «nuova, mancando precedenti con identico thema decidendum» dal momento che nella sentenza n. 142 del 2017 era stata valutata la previsione della pena pecuniaria prevista dall’art. 12, commi 3 e 3-bis, t.u. immigrazione e che le altre decisioni della Consulta, che concernono il medesimo articolo, hanno riguardato disposizioni diverse da quelle odierne (erano richiamate le sentenze n. 331 del 2011, n. 21 del 2009 e le ordinanze n. 75 del 2007, n. 445 del 2004 e n. 78 del 2001).

Questo amicus affermava, inoltre, che la natura di circostanza aggravante della disposizione censurata (era richiamata ancora la sentenza della Corte di Cassazione n. 40982 del 2018) non la sottrae al rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità, per cui dovrebbe farsi riferimento alla relativa giurisprudenza costituzionale, ed in particolare a quanto affermato nella sentenza n. 236 del 2016.

L’ADiM osservava altresì che le aggravanti censurate – di cui, a suo dire, non è rinvenibile alcuna ragione giustificatrice in seno ai lavori parlamentari – risulterebbero affette «da manifesta irragionevolezza, in quanto selezionano modalità di condotta che risultano, per un verso, radicalmente prive di surplus di disvalore rispetto alla fattispecie base (l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto) e, per un altro verso, dotate di un surplus di disvalore che trova un’adeguata risposta sanzionatoria nell’ambito dei reati di falso (utilizzo di documenti contraffatti, alterati o illegalmente ottenuti)» e che «[i]n entrambi i casi, si tratta di condotte manifestamente eterogenee rispetto alle altre ipotesi aggravate previste dal medesimo art. 12, co. 3, TUI, e ciò malgrado irragionevolmente assoggettate alle medesime sanzioni edittali».

Ciò premesso, sempre cotale amicus riteneva che la manifesta irragionevolezza della disposizione censurata si evincerebbe sotto tre profili, fondati rispettivamente: a) su un’interpretazione sistematica dell’art. 12 t.u. immigrazione; b) sulla natura dei beni giuridici protetti da tale disposizione; c) sul raffronto con il diritto dell’Unione europea e il diritto comparato.

Sotto il primo profilo, l’ADiM evidenziava che le due circostanze prese in considerazione rappresenterebbero una modalità fisiologica di realizzazione del reato, come confermerebbe la casistica giurisprudenziale (sono richiamate in particolare Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 maggio 2019, n. 35510, quanto all’utilizzo di documenti falsi; sezione prima penale, sentenza 5 febbraio 2020, n. 15531; sezione prima penale, sentenza 25 novembre 2014, n. 12542, relativa a un caso di favoreggiamento consistente nel nascondere lo straniero a bordo di mezzi che svolgono servizi di trasporto internazionale) mentre, quanto al secondo profilo, era richiamata la sentenza n. 142 del 2017 della Consulta nella parte in cui ha riconosciuto che le disposizioni di cui all’art. 12, commi 3 e 3-bis, t.u. immigrazione non solo tutelano i beni giuridici dell’ordine pubblico e della sicurezza dei confini, ma «abbracciano anche i diritti fondamentali delle persone trasportate o illegalmente introdotte nel territorio dello Stato italiano».

Ebbene, secondo codesto amicus, da questo punto di vista le circostanze oggetto di censura evidenzierebbero, anziché un maggior disvalore, una minore intensità di offesa, tenuto conto altresì del fatto che non sarebbe neppure possibile affermare che il vulnus al canone di proporzionalità possa essere sanato in concreto dal giudice attraverso la commisurazione della pena giacché detto vulnus riguarderebbe proprio il minimo edittale dell’aggravante, né sarebbe possibile che la sproporzione venga meno attraverso un bilanciamento tra circostanze attenuanti e aggravanti.

Quanto al terzo profilo, l’ADiM riteneva come le medesime fonti internazionali ed europee richiamate dalla parte costituita e dagli altri amici curiae corroborassero le ragioni della manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di accomunare sotto la stessa cornice edittale tanto le ipotesi di maggiore gravità prese in considerazione dal legislatore sovranazionale (come l’esposizione della persona trasportata a pericolo per la sua vita), quanto le ipotesi oggetto di censura.

L’ADiM osservava infine come, sotto il profilo del diritto comparato, la scelta politico-criminale compiuta dal legislatore italiano non trovasse corrispondenza in alcuno degli ordinamenti esaminati (Belgio, Francia, Germania e Spagna).

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Iniziando la sua motivazione, partendo dall’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, il Giudice delle leggi riteneva come l’Avvocatura generale dello Stato, pur eccependo l’inammissibilità delle questioni, non avesse però fornito alcuna motivazione in proposito.

L’eccezione era, pertanto, rigettata né, sempre ad avviso della Consulta, sussistevano ragioni di inammissibilità delle questioni rilevabili ex officio.

Le questioni, invece, erano, per la Corte, in particolare, rilevanti rispetto a entrambe le ipotesi contemplate dall’art. 12, comma 3, lettera d), t.u. immigrazione sottoposte all’esame della Corte costituzionale dal giudice rimettente dal momento che all’imputata del giudizio a quo risultava in fatto contestato, nel capo di imputazione, di avere accompagnato in Italia le due bambine, sia mediante un volo proveniente dal Marocco, sia mediante l’uso di documenti falsi.

Premesso ciò, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano come convenisse premettere all’esame del merito delle questioni prospettate un inquadramento relativo allo sviluppo storico della disposizione censurata, alla sua interpretazione ad opera della giurisprudenza penale e agli obblighi internazionali di cui la disposizione stessa costituisce attuazione, il che era fatto nei seguenti termini: “Il delitto comunemente qualificato come “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” fece la propria comparsa nell’ordinamento italiano in sede di conversione del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia di asilo), ad opera della legge 28 febbraio 1990, n. 39, altrimenti nota come “legge Martelli”. L’art. 3, comma 8, del d.l. n. 416 del 1989, come convertito, stabiliva: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente decreto è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire due milioni. Se il fatto è commesso a fine di lucro, ovvero da tre o più persone in concorso tra loro, la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da lire dieci milioni a lire cinquanta milioni». In questa formulazione, la fattispecie delittuosa base era dunque già configurata come reato a consumazione anticipata, caratterizzata dal compimento di attività «dirette» a favorire l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, ed era sanzionata in particolare con la reclusione «fino a due anni»: con un minimo – dunque – di quindici giorni risultante dalla regola generale di cui all’art. 23 cod. pen. Erano poi previste due ipotesi aggravate, integrate dal fine di lucro e dalla commissione da parte di tre o più persone, sanzionate con l’autonomo quadro edittale della reclusione da due a sei anni e da una multa assai più severa rispetto a quella prevista per il fatto base. (…) Il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione confluì poi nell’art. 12 t.u. immigrazione, recependo la formulazione della previsione incriminatrice contenuta nell’art. 10 della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), altrimenti nota come “legge Turco-Napolitano”, la quale aveva al contempo abrogato il menzionato art. 3, comma 8, del d.l. n. 416 del 1989 e conferito delega al Governo per l’adozione del t.u. immigrazione. Nella versione originaria dell’art. 12 t.u. immigrazione, la fattispecie delittuosa base di cui al comma 1 restò strutturalmente inalterata rispetto alla previsione contenuta nella “legge Martelli”, ma le pene furono innalzate. In particolare, la reclusione divenne «fino a tre anni», mantenendosi peraltro il minimo di quindici giorni derivante dall’art. 23 cod. pen. Furono invece previste, oltre alle due già contemplate dalla “legge Martelli”, numerose circostanze aggravanti al comma 3, il cui testo originario recitava: «[s]e il fatto di cui al comma 1 è commesso a fine di lucro o da tre o più persone in concorso tra loro, ovvero riguarda l’ingresso di cinque o più persone, e nei casi in cui il fatto è commesso mediante l’utilizzazione di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni e della multa di lire trenta milioni per ogni straniero di cui è stato favorito l’ingresso in violazione del presente testo unico. Se il fatto è commesso al fine di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione, ovvero riguarda l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni e della multa di lire cinquanta milioni per ogni straniero di cui è stato favorito l’ingresso in violazione del presente testo unico». Nel 1998, dunque, compare per la prima volta un’ipotesi aggravata assai simile a quella oggi all’esame, relativa al fatto compiuto «mediante l’utilizzazione di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti». Per tale ipotesi era prevista – come per quelle preesistenti del fatto commesso a fine di lucro e della commissione da parte di tre o più persone, nonché per l’altra nuova ipotesi dell’ingresso di cinque o più persone – la reclusione da quattro a dodici anni, unitamente a una multa determinata in misura fissa per ogni straniero di cui fosse stato favorito l’ingresso. (…) L’art. 12 t.u. immigrazione fu poi incisivamente modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), la cosiddetta “legge Bossi-Fini”. Il comma 1 fu arricchito della previsione degli atti «diretti a procurare l’ingresso illegale in un altro Stato membro diverso dall’Italia», e la pena pecuniaria divenne anch’essa proporzionale al numero di stranieri oggetto della condotta delittuosa. Quanto al comma 3, esso fu integralmente riscritto nei termini seguenti: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l’ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona. La stessa pena si applica quando il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti». Furono poi aggiunti altri due commi, che contemplavano ulteriori ipotesi aggravanti. In particolare, il nuovo comma 3-bis prevedeva: «[l]e pene di cui al comma 3 sono aumentate se: a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; b) per procurare l’ingresso o la permanenza illegale la persona è stata esposta a pericolo per la sua vita o la sua incolumità; c) per procurare l’ingresso o la permanenza illegale la persona è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante». Il nuovo comma 3-ter, dal canto suo, recitava: «[s]e i fatti di cui al comma 3 sono compiuti al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni e la multa di 25.000 euro per ogni persona». Di fronte al dato letterale del nuovo comma 3, che – subordinatamente a una clausola espressa di sussidiarietà rispetto ad altri più gravi reati – reiterava pressoché integralmente la descrizione della condotta contenuta nel comma 1 arricchendola di ulteriori requisiti, la giurisprudenza si orientò a considerare le fattispecie ivi previste come figure autonome di reato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 25 gennaio 2006, n. 11578). Tra queste fattispecie comparivano, ancora, il fine di profitto, la commissione da parte di tre o più persone, nonché le due ipotesi ora all’esame – utilizzazione di servizi internazionali di trasporto e utilizzazione di documenti «contraffatti ovvero alterati o comunque illecitamente ottenuti». La commissione da parte di tre o più persone passò invece a integrare l’ipotesi aggravata prevista dal nuovo comma 3-bis, accanto a quella dell’ingresso o della permanenza illegale di cinque o più persone e a quelle, di nuova introduzione, dell’esposizione della persona trasportata a pericolo per la vita o l’incolumità, ovvero a trattamento inumano o degradante. Per queste ipotesi veniva disposto che le pene previste dal comma 3 fossero ulteriormente aumentate.

Un autonomo e più severo quadro edittale (comprensivo, in particolare, della pena della reclusione da cinque a quindici anni) veniva invece previsto per le nuove circostanze aggravanti di cui al comma 3-ter, integrate dal fine di destinare le persone trasportate alla prostituzione, allo sfruttamento sessuale o allo sfruttamento di minori. (…) Ulteriori modifiche furono apportate all’art. 12 t.u. immigrazione dall’art. 1-ter del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), aggiunto in sede di conversione dalla legge 12 novembre 2004, n. 271. In particolare, la pena detentiva per la fattispecie di cui al comma 1 fu elevata, stabilendosi la reclusione da uno a cinque anni. Nel comma 3 si conservò soltanto il fine di trarre profitto anche indiretto, prevedendosi una cornice edittale – per ciò che concerne la pena detentiva – da quattro a quindici anni di reclusione. Le ipotesi in questa sede all’esame (utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di documenti contraffatti, alterati o comunque illecitamente ottenuti) furono a questo punto trasferite nel comma 3-bis, accanto a quelle che già erano state collocate in quest’ultimo comma dalla “legge Bossi-Fini” (fatto concernente l’ingresso o permanenza illegale di cinque o più persone; pericolo alla vita o all’incolumità fisica della persona trasportata; sottoposizione della stessa a trattamenti inumani o degradanti), prevedendosi per tutte queste ipotesi l’aumento della pena stabilita dai commi 1 e 3. Conseguentemente, ai fini della determinazione del quadro edittale applicabile, decisivo divenne il discrimine tra fatto commesso senza fine di lucro (rilevante ai sensi del comma 1, e punito con la reclusione da uno a cinque anni, su cui operare l’aumento sino a un terzo ex art. 64 cod. pen.) e fatto commesso con fine di lucro (rilevante ai sensi del comma 3, e punito con la reclusione da cinque a quindici anni, su cui operare l’ulteriore aumento sino a un terzo). Infine, per le ipotesi di cui al comma 3-ter, rimaste inalterate nella loro definizione rispetto alla “legge Bossi-Fini”, fu previsto l’aumento da un terzo alla metà delle pene detentive stabilite dal comma 3. (…) L’art. 12 t.u. immigrazione fu, una volta ancora, riformulato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), acquisendo così l’attuale fisionomia. In particolare, il comma 1 recita: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona». La legge n. 94 del 2009 ha, dunque, confermato – in relazione alla fattispecie base di cui al primo comma – la cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione già introdotta dalla legge n. 271 del 2004. Il comma 3 è, ora, così formulato: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui: a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; b) la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; c) la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; d) il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti; e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti». Nel comma 3 così riformulato sono state dunque ricollocate cinque diverse ipotesi: le quattro già regolate dalla legge n. 271 del 2004 nel comma 3-bis – tra cui quella descritta alla lettera d), che comprende le due sottoipotesi oggetto di censura in questa sede (utilizzazione di servizi internazionali di trasporto e utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti) –; ed una quinta, descritta alla lettera e), di nuovo conio. Per tutte queste ipotesi la pena è stata ulteriormente innalzata, prevedendosi una nuova cornice edittale da cinque a quindici anni di reclusione, oltre alla multa di 15.000 euro per ogni persona. Il comma 3-bis riformulato dispone che, in caso di concorso tra due o più delle ipotesi di cui al comma precedente, la pena ivi prevista sia aumentata. Il comma 3-ter, parimenti riformulato, prevede poi che «[l]a pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3: a) sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento; b) sono commessi al fine di trarne profitto, anche indiretto». Ai sensi del nuovo comma 3-quater, infine, eventuali circostanze attenuanti (diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 cod. pen.) non possono essere ritenute prevalenti o equivalenti rispetto alle circostanze aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-quater, le relative diminuzioni di pena dovendosi operare sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti. (…) Risolvendo un contrasto giurisprudenziale sul punto, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto natura di circostanze aggravanti anche alle ipotesi descritte dal comma 3, così come oggi formulato, tra le quali dunque anche quelle – inserite nella lettera d) – oggetto del presente giudizio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 21 giugno 2018, n. 40982). Pertanto, è possibile il loro bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti ai sensi dell’art. 69 cod. pen., e la conseguente commisurazione della pena – in caso di equivalenza o prevalenza delle attenuanti – a partire dall’assai più mite quadro edittale previsto dal comma 1 (caratterizzato, in particolare, dalla reclusione da uno a cinque anni, anziché da cinque a quindici anni); e ciò sempre che non ricorrano due o più di tali aggravanti ovvero il fine di profitto, operando in tal caso il divieto di equivalenza o prevalenza delle attenuanti stabilito dal comma 3-quater. (…) L’art. 12 t.u. immigrazione, e in particolare i suoi commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, investono una materia interessata da obblighi assunti in sede di diritto internazionale e imposti dal diritto dell’Unione europea. (…) Sul fronte del diritto internazionale, viene anzitutto in considerazione il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria (cosiddetto Protocollo di Palermo), il cui art. 6, paragrafo 1, obbliga gli Stati parte a criminalizzare tra l’altro, allorché il fatto sia commesso intenzionalmente e a scopo di profitto, il «traffico di migranti» («smuggling of migrants» nella versione ufficiale inglese, «trafic illicite de migrants» in quella francese), a sua volta definito dall’art. 3, lettera a), del medesimo Protocollo come «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o altro tipo di vantaggio materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente». L’indicato art. 6, al paragrafo 3, impone poi a ciascuno Stato parte di adottare le misure legislative e di altra natura che si rendano necessarie a conferire il carattere di circostanze aggravanti, tra l’altro, del reato di traffico di migranti alla messa in pericolo della vita o dell’incolumità dei migranti interessati (lettera a), ovvero alla loro sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, incluso lo sfruttamento (lettera b). Gli obblighi di criminalizzazione stabiliti dal Protocollo in parola sono, dunque, limitati a condotte commesse a scopo di profitto, coerentemente con lo stesso uso linguistico dei termini “smuggling” (letteralmente, contrabbando) e “trafic illicite”, che evocano immediatamente l’attività di gruppi criminali organizzati; mentre l’obbligo di prevedere specifici aggravamenti di pena sussiste solo per le ipotesi coperte oggi, nel diritto italiano, dall’art. 12, comma 3, lettere b) e c), t.u. immigrazione, relative rispettivamente all’esposizione a pericolo per la vita o l’incolumità del migrante e alla sua sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti. (…) Quanto al diritto dell’Unione europea, gli obblighi di incriminazione in materia – già anticipati nel 1990 dalla Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen – sono essenzialmente quelli stabiliti dal combinato disposto della decisione quadro 2002/946/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, e dalla direttiva, adottata in pari data, 2002/90/CE del Consiglio, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (che assieme formano il cosiddetto “Facilitators Package”). L’art. 1, paragrafo 1, della decisione quadro prevede che ciascuno Stato membro adotti le misure necessarie affinché gli illeciti definiti, in particolare, nell’art. 1 della direttiva 2002/90/CE siano passibili di «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che possono comportare l’estradizione». L’art. 1 della direttiva, dal canto suo, dispone che ciascuno Stato membro adotta sanzioni appropriate, tra l’altro, «nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all’ingresso o al transito degli stranieri». L’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro prevede poi che ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché gli illeciti definiti, tra l’altro, all’art. 1, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2002/90/CE, «se perpetrati a scopo di lucro, siano passibili di pene privative della liberta`, il cui massimo non può essere inferiore a 8 anni, quando sono commessi in una delle circostanze seguenti: – il reato e` commesso da un’organizzazione criminale, quale definita nell’azione comune 98/733/GAI; – la commissione del reato mette in pericolo la vita delle persone che ne sono vittime»”.

Ciò premesso, le questioni erano ritenute fondate con riferimento a entrambi i profili di censura formulati dal rimettente.

Si osservava a tal proposito innanzitutto che cuore di tali censure, ampiamente approfondite dalla parte e dagli amici curiae, consisteva nell’asserita manifesta irragionevolezza dell’aumento della pena detentiva (nei termini di una quintuplicazione del minimo, che passa da uno a cinque anni, e di una triplicazione del massimo, che passa da cinque a quindici anni) stabilita per le due ipotesi aggravate all’esame, rispetto a quella prevista per la fattispecie base di cui all’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione e tale manifesta irragionevolezza si tradurrebbe, nella prospettazione del rimettente, nella comminatoria legislativa di una pena manifestamente sproporzionata sia alla intrinseca gravità della tipologia di fatti sanzionati, sia alla pena prevista, appunto, per la fattispecie base di reato di cui al comma 1.

Ebbene, a fronte di ciò, il Giudice delle leggi faceva presente che, in base alla costante giurisprudenza della stessa Corte costituzionale (per una più estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019), ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 136 e n. 73 del 2020, n. 284 e n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n. 341 del 1994) fermo restando che il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato, il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità (da ultimo, sentenza n. 28 del 2022).

In applicazione di tali principi, occorreva dunque, per la Corte, verificare se l’aumento della pena edittale previsto per le due ipotesi aggravate all’esame, nei termini sopra descritti, sia tale da vincolare il giudice a irrogare pene manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità dei fatti riconducibili a quelle figure normative.

Chiarito ciò, i giudici di legittimità costituzionale mettevano in risalto il fatto come occorresse anzitutto sottolineare che l’intera gamma delle ipotesi delittuose descritte dall’art. 12 t.u. immigrazione ha quale comune oggetto di tutela l’ordinata gestione dei flussi migratori: interesse che la Consulta ha da tempo definito quale «bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata» (sentenza n. 250 del 2010 e ivi numerosi precedenti in senso conforme) quali, in particolare, gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse (limitate) del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica e, precisamente alla tutela di tali interessi sono funzionali, del resto, gli obblighi stabiliti in materia dall’Unione europea, e segnatamente quelli discendenti dal “Facilitators Package” poc’anzi menzionato che a loro volta comprendono l’obbligo per gli Stati membri di prevedere «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive» a carico, in particolare, di chi intenzionalmente aiuti un cittadino di uno Stato terzo a entrare o a transitare illegalmente nel territorio di uno Stato membro.

Ciò posto, nell’adempimento di tali obblighi di matrice europea, il legislatore italiano, dal canto suo, ha ritenuto di apprestare una sanzione penale di carattere detentivo, in particolare prevedendo a partire dal 2004 una cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione per tale condotta, integrante l’ipotesi base di cui all’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione fermo restando però che la cornice edittale si innalza però bruscamente – da cinque a quindici anni di reclusione – nelle ipotesi aggravate contemplate dal comma 3 del medesimo articolo, con ulteriori aumenti di pena (più sopra analiticamente descritti: punto 3.5.) nelle ipotesi di cui ai successivi commi 3-bis e 3-ter, e tali aumenti di pena – che in termini percentuali sono notevolmente superiori a quelli che ordinariamente connotano le fattispecie aggravate rispetto alle corrispondenti figure base di reato – a loro volta si ricollegano chiaramente, nella prospettiva del legislatore, alla dimensione plurioffensiva delle ipotesi ivi contemplate, il cui orizzonte di tutela trascende di gran lunga quello dell’ordinata gestione dei flussi migratori, al punto che la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare, in relazione alle disposizioni di cui ai commi 3 e 3-ter dell’art. 12 t.u. immigrazione, che esse «sono volte anzitutto, anche se non esclusivamente, a tutelare le persone trasportate, che spesso versano in stato di bisogno, anche estremo» (sentenza n. 142 del 2017).

Ciò che dunque appare evidente, per la Consulta, rispetto alle due ipotesi aggravate previste dalle lettere b) e c) del comma 3, è quello di essere integrate dall’essere stata la persona trasportata esposta rispettivamente a un pericolo per la propria vita o incolumità, e addirittura a trattamenti inumani o degradanti: ipotesi, entrambe, che non possono non richiamare alla mente le drammatiche immagini di viaggi su imbarcazioni di fortuna e sovraffollate, o in precari nascondigli in celle frigorifere destinate al trasporto di merci, che spesso sfociano in eventi fatali tenuto conto altresì del fatto che le due ipotesi sono, del resto, oggetto di obblighi sovranazionali di maggiore punibilità: il Protocollo di Palermo richiede per entrambe un aggravamento di pena mentre il “Facilitators Package” impone per la prima ipotesi l’adozione di pene «privative della libertà, il cui massimo non può essere inferiore a otto anni», così come, parimenti, la fattispecie aggravata di cui al comma 3-bis, lettera a) – caratterizzata dal fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione ovvero allo sfruttamento sessuale o lavorativo, e confinante con la fattispecie di tratta di persone di cui all’art. 601 cod. pen., quest’ultima punita con la reclusione da otto a venti anni – appare calibrata sulle esigenze di tutela dello straniero assai più che sul controllo dei flussi migratori, che pure resta sullo sfondo dell’incriminazione come in ogni altra ipotesi disciplinata dall’art. 12 t.u. immigrazione fermo restando però che una dimensione plurioffensiva, seppure in diversa direzione, è caratteristica anche di altre ipotesi aggravate previste dall’art. 12 t.u. immigrazione.

Le fattispecie aggravate di cui al comma 3, lettera a) (fatto riguardante l’ingresso o la permanenza illegale di cinque o più persone), lettera e) (disponibilità di armi o materie esplodenti da parte degli autori del fatto), nonché lettera d) all’inciso iniziale (fatto commesso da tre o più persone in concorso tra loro) appaiono dunque tutte evocare, secondo le verosimili intenzioni del legislatore, scenari di coinvolgimento di organizzazioni criminali attive nel traffico internazionale di migranti: ipotesi rispetto alle quali la decisione quadro 2002/946/GAI richiede, ancora, allo Stato membro di adottare pene privative della libertà non inferiori, nel massimo, a otto anni.

Orbene, chiarito ciò, per il Giudice delle leggi, occorreva, a questo punto della disamina, verificare se possa analogamente trovare una ragionevole giustificazione la cornice edittale, drasticamente più severa rispetto a quella prevista per la fattispecie base, stabilita per le due sottoipotesi previste dal comma 3, lettera d), che erano sottoposte all’esame della Consulta nel caso di specie.

Al riguardo, si rendeva necessario, ad avviso della Consulta, preliminarmente sgomberare il campo dall’erroneo argomento addotto dall’Avvocatura generale dello Stato sulla base di un’isolata pronuncia della Corte di Cassazione (sezione prima penale, sentenza 25 marzo 2014, n. 40624), secondo cui le ipotesi aggravate di cui al comma 3 – comprensive anche di quelle in esame – sarebbero strutturate quali reati di danno, implicando l’effettivo ingresso dello straniero nel territorio dello Stato. Come emerge dall’inequivoco tenore letterale del comma 3, e come ormai riconosciuto dalle stesse sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza 21 giugno 2018, n. 40982) nonché, da epoca ben anteriore, dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 331 del 2011), invero, tutte le fattispecie previste dall’art. 12 t.u. immigrazione sono strutturate quali reati “a consumazione anticipata”, che si perfezionano con il solo compimento di «atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri», senza che tale scopo debba necessariamente essere conseguito dall’agente mentre, per altro verso, si è sottolineato come queste ipotesi non fossero previste dall’art. 6, comma 8, della “legge Martelli” e abbiano invece fatto la propria comparsa nell’art. 12 t.u. immigrazione come configurato dalla “legge Turco-Napolitano” in cui quella originaria disciplina confluì accanto a varie altre circostanze aggravanti mantenutesi nelle successive versioni dello stesso art. 12 ma nessuna illustrazione della ratio delle due ipotesi all’esame si rinviene, però, nei lavori preparatori di quella legge.

Ebbene, a fronte di quanto sin qui enunciato, per la Corte, l’individuazione di una (qualsivoglia) ratio dell’aggravamento di pena rispetto alla fattispecie base è, in verità, particolarmente ardua rispetto all’ipotesi dell’utilizzazione di servizi internazionali di trasporto posto che non pare ragionevolmente ravvisabile alcun surplus di disvalore del fatto commesso mediante l’utilizzazione di servizi internazionali di trasporto rispetto alla generalità dei fatti riconducibili alla fattispecie base descritta nel comma 1, dal momento che una tale modalità di commissione non offende alcun bene giuridico ulteriore rispetto a quello tutelato dal comma 1 (l’ordinata gestione dei flussi migratori), né rappresenta una modalità di condotta particolarmente insidiosa o tale da creare speciali difficoltà di accertamento alla polizia di frontiera.

Ed allora, se argomentava in proposito l’Avvocatura generale dello Stato che i vettori internazionali di trasporto, per «evidenti esigenze di speditezza», non potrebbero essere assoggettati a «lunghi e penetranti controlli», a ciò è agevole replicare, per i giudici di legittimità costituzionale, che i passeggeri che utilizzano servizi internazionali di trasporto (linee aeree, traghetti, autobus, treni), nella normalità dei casi, devono necessariamente sottoporsi a tutti gli ordinari controlli di frontiera finalizzati primariamente a evitare ingressi non autorizzati nel territorio dello Stato; controlli che, invece, vengono elusi qualora lo straniero utilizzi altri strumenti per superare clandestinamente i confini.

Precisato ciò, quanto all’utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti, per il Giudice delle leggi, il discorso è parzialmente diverso in quanto se non v’è dubbio che il possesso e l’uso di documenti totalmente o parzialmente falsi, o anche solo illecitamente ottenuti (presumibilmente, a mezzo di un’attività integrante altri reati), conferisca alla condotta una connotazione offensiva ulteriore rispetto a quella propria della fattispecie base, tenuto conto che la “fede pubblica”, individuata dal codice penale come bene giuridico dell’intera classe dei reati di falso, evoca in effetti esigenze di tutela di interessi di grande rilievo per l’ordinamento e la società nel suo complesso, a cominciare dall’ordine e dalla sicurezza pubblica, i quali richiedono la veritiera identificazione di tutte le persone presenti nel territorio nazionale, ciò che sfugge a ogni plausibile giustificazione è, tuttavia, l’entità dello scarto tra la pena prevista per la fattispecie base e quella ora all’esame, peraltro progressivamente accresciutosi dal 1998 a oggi per effetto del succedersi vorticoso di novelle di cui si è dettagliatamente dato conto poc’anzi poiché la generalità dei delitti di falsità in atti e personali previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del Libro II del codice penale è punita con pene che, nel minimo, non oltrepassano la soglia di un anno di reclusione; e lo stesso art. 6, comma 6-bis, t.u. immigrazione, che incrimina la contraffazione o alterazione di permessi di soggiorno o di altri documenti correlati alla presenza legittima dello straniero nel territorio nazionale, prevede una cornice edittale da uno a tre anni di reclusione mentre il solo delitto di possesso e fabbricazione di documenti falsi validi per l’espatrio di cui all’art. 497-bis cod. pen. – introdotto con il decreto-legge 27 luglio 2005, n 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155, all’indomani degli attentati di Londra del 7 e 21 luglio 2005 con lo scopo di ostacolare gli spostamenti transfrontalieri di persone coinvolte in attività terroristiche – prevede un minimo di due anni e un massimo di cinque anni di reclusione, limitatamente però al possesso di documenti «falsi»: con esclusione, dunque, di quelli autentici, ma «illecitamente ottenuti», pure abbracciati dall’ipotesi aggravata ora all’esame.

Di conseguenza, per quanto la fattispecie aggravata in esame configuri un reato complesso, la previsione di una pena minima di cinque anni, e di una massima di quindici anni di reclusione per un fatto ordinariamente punibile con la reclusione da uno a cinque anni, solo in ragione dell’utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o anche soltanto illecitamente ottenuti rappresenta, dunque, per la Corte costituzionale, una assoluta anomalia “intrasistematica” rispetto alle scelte sanzionatorie tanto del codice penale, quanto della legislazione di settore, e una simile anomalia non può che tradursi in una valutazione di manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto per l’ipotesi aggravata all’esame, e ciò sulla base del medesimo ordine di considerazioni che ha condotto la Consulta, nella sentenza n. 236 del 2016, a considerare manifestamente sproporzionato l’identico quadro edittale della reclusione da cinque a quindici anni previsto dall’art. 567, secondo comma, cod. pen. per il delitto di alterazione di stato compiuto mediante «false certificazioni, false attestazioni o altre falsità»: modalità di condotta, queste ultime, pure certamente offensive della fede pubblica, in un settore così delicato dell’ordinamento come lo stato civile; ma non tali da poter ragionevolmente giustificare il drastico aumento di pena rispetto alla ordinaria ipotesi di alterazione di stato, prevista dal primo comma dell’art. 567 cod. pen..

D’altronde, le conclusioni sin qui raggiunte erano ritenute, peraltro, corroborate, ad avviso della Consulta, da un’ulteriore considerazione.

Dalla “legge Martelli” in poi, la norma incriminatrice su cui si è incardinato il contrasto all’immigrazione clandestina (l’art. 6, comma 8, del d.l. n. 416 del 1989, come convertito, e poi l’art. 12 t.u. immigrazione) ha progressivamente differenziato, con sempre maggiore nettezza, il trattamento sanzionatorio di due distinte classi di condotte: da un lato, l’aiuto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato compiuto in favore di singoli stranieri, per finalità in senso lato altruistiche e, dall’altro, l’attività posta in essere a scopo di lucro da gruppi criminali organizzati nei confronti di un numero più o meno ampio di migranti destinati a essere trasportati illegalmente nel territorio dello Stato.

Orbene, per la Corte, il ben maggiore rigore sanzionatorio previsto per la seconda classe di condotte riflette l’evidente distinzione, sul piano criminologico, tra due fenomeni radicalmente diversi, come la stessa Consulta ha avuto modo di rimarcare già nella sentenza n. 331 del 2011.

Nel dichiarare costituzionalmente illegittima la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per tutte le ipotesi abbracciate dall’art. 12 t.u. immigrazione, la Corte costituzionale ha infatti osservato che «le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante».

Come sopra rammentato, del resto, i due “tipi” criminologici sono tenuti ben distinti anche dalle fonti sovranazionali vincolanti per il nostro Paese.

In particolare, il Protocollo di Palermo ha unicamente di mira il fenomeno del traffico internazionale di migranti, gestito per lo più da grandi organizzazioni criminali che ricavano ingenti profitti da tale attività; mentre il “Facilitators Package” dell’Unione europea mira sì a colpire entrambi i fenomeni (rispetto all’obiettivo del controllo dei flussi migratori all’interno, in particolare, dell’area Schengen), ma calibra i propri obblighi di incriminazione e di punizione in maniera distinta per le due tipologie di condotte, riservando l’obbligo di adottare severe sanzioni privative della libertà soltanto a quelle riconducibili al traffico internazionale di migranti.

Ebbene, per il Giudice delle leggi, del tutto diversa appare essere la posizione dello straniero nella struttura di queste due macroipotesi.

Rispetto al favoreggiamento “individuale”, o “altruistico”, abbracciato nella legge italiana dall’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione, lo straniero il cui ingresso illecito viene facilitato compare invero quale soggetto nella sostanza “beneficiario” della condotta illecita, i suoi interessi restando comunque estranei al fuoco della tutela apprestata dalla disposizione, tutta incentrata sul bene giuridico dell’ordinata gestione dei flussi migratori mentre, rispetto invece a svariate ipotesi aggravate previste dai commi 3, 3-bis e 3-ter, lo straniero assurge indubitabilmente a titolare degli altri beni giuridici di volta in volta tutelati, costituendo anzitutto la “vittima” della condotta criminosa: esposta ora a pericolo per la propria vita o incolumità, ora a trattamenti inumani e degradanti, ora al rischio di essere avviata alla prostituzione o sfruttata in attività lavorative, e comunque – nel caso ordinario in cui la condotta sia compiuta con finalità di profitto – costretta a sborsare ingenti somme di denaro in cambio dell’aiuto a varcare le frontiere.

Quindi, per la Consulta, la parificazione ai fini sanzionatori delle due condotte – utilizzo di servizi internazionali di trasporto, e di documenti contraffatti, alterati o illecitamente ottenuti – a numerose altre condotte coerenti con la tipologia criminosa del traffico internazionale di migranti costituisce una scelta legislativa manifestamente irragionevole dato che, né l’una né l’altra delle condotte ora all’esame, allorché compiute senza scopo di lucro, sono plausibilmente indicative del coinvolgimento dell’agente in un’attività di traffico internazionale di migranti, risultando per contro ordinariamente compatibili con situazioni in cui lo straniero venga aiutato a entrare illegalmente in Italia per finalità assai lontane da quelle del traffico internazionale: ciò su cui già aveva posto l’accento la sentenza n. 311 del 2011; situazioni, queste ultime, (stimate) emblematicamente esemplificate dal caso oggetto del procedimento a quo che vedeva come protagonista una donna imputata di avere illegittimamente accompagnato in Italia la figlia e la nipote, entrambe minorenni.

Né, per la Corte, persuadeva l’argomento, speso dall’Avvocatura generale dello Stato nella discussione in udienza, secondo cui chi si procura un documento falso, o illecitamente consegue la disponibilità di un documento autentico, necessariamente entra in contatto con organizzazioni criminali in grado di fornirgli un tale “servizio” poiché, anche ammesso che quanto descritto dalla difesa statale sia ciò che accade nella normalità dei casi, l’argomento non suggerisce affatto che l’autore dell’illecito sia per ciò stesso stabilmente coinvolto nell’organizzazione criminale – come sarebbe necessario a giustificare il drastico innalzamento di pena previsto rispetto alla fattispecie base –, ma semplicemente che egli si sia occasionalmente rivolto all’organizzazione al solo scopo di essere aiutato a far entrare in Italia uno straniero in violazione della normativa vigente, esattamente come potrebbe fare lo stesso straniero che intenda raggiungere un tale scopo (il quale resterebbe punibile ai sensi della sola contravvenzione di cui all’art. 10-bis t.u. immigrazione, in concorso con i delitti di falso eventualmente realizzati).

Né, ancora, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, queste conclusioni avrebbero potuto essere revocate in dubbio sulla base dell’argomento per cui la cornice edittale prevista dal comma 3 potrebbe essere comunque “neutralizzata” in caso di equivalenza o prevalenza di eventuali attenuanti, e in particolare delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., atteso che l’applicazione di circostanze attenuanti è soltanto eventuale, e non è in grado pertanto di sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di una pena manifestamente eccessiva nel minimo (analogamente, sentenza n. 236 del 2016), e ciò vale anche rispetto alle circostanze attenuanti generiche la cui funzione “naturale” è quella di adeguare la misura della pena alla sussistenza di speciali indicatori (oggettivi o soggettivi) di un minor disvalore del fatto concreto all’esame del giudice rispetto alla gravità ordinaria dei fatti riconducibili alla fattispecie base di reato, e non già quella di correggere l’eventuale sproporzione dei minimi edittali stabiliti dal legislatore rispetto a un fatto il cui disvalore sia conforme a quello che ordinariamente caratterizza la fattispecie criminosa.

Il vulnus così accertato, per la Consulta, poteva essere rimosso solo mediante la semplice ablazione dall’art. 12, comma 3, lettera d), t.u. immigrazione del frammento di disposizione che era oggetto delle censure del rimettente e, per effetto di tale ablazione, i fatti di aiuto all’immigrazione clandestina commessi utilizzando servizi internazionali di trasporto, ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti, ricadranno naturalmente entro la previsione normativa di cui al comma 1, soggiacendo alla cornice sanzionatoria ivi prevista, salvo che non siano applicabili altre aggravanti previste dall’art. 12 e ciò fermo restando, ovviamente, il possibile concorso con gli eventuali reati di falsità documentale che dovessero eventualmente ravvisarsi nei singoli casi.

Conseguentemente, la disposizione all’esame era dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti» e, dunque, la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti».

Conclusioni

Con la decisione in esame è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 12, co. 3, lett. d), d.lgs. n. 286/1998, limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti».

Dunque, per effetto di questa pronuncia, non è più contemplata la pena della reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per chi, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, quando una di queste condotte si sia tradotta nell’utilizzare servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti.

Pur tuttavia, un utilizzo di siffatto genere non resta privo di rilevanza penale in quanto, come espressamente evidenziato in tale sentenza, una condotta di tal fatta è sussumibile nell’ambito della previsione normativa di cui al comma 1, soggiacendo alla cornice sanzionatoria ivi prevista (e quindi la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona), salvo che non siano applicabili altre aggravanti previste dall’art. 12 del d.lgs n. 286/1998, ovvero sia possibile concorso con gli eventuali reati di falsità documentale che dovessero eventualmente ravvisarsi nei singoli casi.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, poiché frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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