La Consulta dichiara l’incostituzionalità dell’art. 516 c.p.p. nella parte in cui la norma non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, qualora intervenga la modifica dell’imputazione originaria

Con la sentenza emessa in data 16.01.2020, n. 14, depositata in data 11.02.2020, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 12.02.2020, la Corte Costituzionale (Presidente Dott.sa Cartabia – Redattore Dott. Viganò) si è pronunciata in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 516 c.p.p., nell’ipotesi in cui non consente all’imputato, a fronte dell’intervenuta modifica dell’imputazione, di formulare avanti al giudice del dibattimento la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ai sensi dell’art. 168 bis c.p. addivenendo all’affermazione della parziale illegittimità costituzionale del dettato normativo.

Normativa di riferimento: Art. 516 c.p.p., art. 168 bis c.p., art. 464 bis co. 2 c.p.p.

Il fatto.

La pronuncia della Consulta n. 14/2020 trae origine dall’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Grosseto del 25.01.2019, iscritta al n. 91 reg. ord. 2019, con la quale il rimettente ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in via incidentale dell’art. 516 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.  nella parte in cui non prevede, in caso di contestazione di un fatto diverso, la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova ai sensi dell’art. 168 bis c.p.

Avanti al Tribunale di Grosseto, un imputato era stato rinviato a giudizio per il reato di ricettazione di cui all’art. 648 c.p., in quanto sorpreso in possesso di oggetti riconducibili ad un furto commesso in una Chiesa.

Malgrado la mancata emersione di nuovi elementi di prova, durante l’espletamento dell’istruttoria, il Pubblico Ministero, sulla base degli elementi già raccolti in fase di indagini, aveva riformulato il capo di imputazione ritenendo che l’imputato avesse sottratto personalmente gli oggetti di cui era stato trovato in possesso e che, pertanto, dovesse essere sottoposto a giudizio per il reato di furto in abitazione di cui all’art. 624 bis c.p.

L’imputato, a mezzo del proprio difensore, aveva richiesto di essere ammesso all’istituto della messa alla prova, previa rimessione della questione di costituzionalità alla Corte Costituzionale. La difesa dell’imputato motivava tale istanza sostenendo che, a differenza del reato di ricettazione, il reato di furto in abitazione non è fra quelli per i quali è consentita la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656 co.9 lett. a) c.p.p. e che, pertanto, risulta legittima, ai fine difensivi, la richiesta di ammissione dell’imputato all’istituto della messa alla prova ai sensi dell’art. 168 bis. c.p.

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La motivazione dell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale.

Il rimettente nel motivare l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale si sofferma su due aspetti in particolare.

In primo luogo, il giudice a quo osserva come il reato di furto in abitazione di cui all’art. 624 bis c.p. sia da annoverare tra quelli per cui l’art. 168 bis c.p. prevede la facoltà di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.

L’art. 168 bis c.p., introdotto dall’art. 3 co.11 Legge 28 aprile 2014, n. 67, prevede infatti che, nei procedimenti per i reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria e per i delitti indicati dall’art. 550 co. 2 c.p.p., l’imputato può chiedere di essere ammesso al rito alternativo della sospensione del procedimento con messa alla prova.

Nonostante il delitto di furto in abitazione abbia una pena edittale detentiva superiore nel massimo a quattro anni e non sia tra i reati espressamente menzionati dall’art. 550 co. 2 c.p.p., per giurisprudenza costante1 della Corte di Cassazione, il delitto in questione rientra tra quelli per cui si procede a citazione diretta a giudizio in quanto la sua mancata espressa menzione nell’art. 550 co. 2 c.p.p. è da ricondursi unicamente a un difetto di coordinamento normativo, intervenuto con l’introduzione dell’art. 624 bis c.p., come ribadito dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza della Sezione V Penale n. 3807/2018.

La Legge 26 marzo 2001, n.128 ha infatti comportato l’elevazione a fattispecie autonoma del reato di furto in abitazione, fino a quel momento fattispecie rientrante tra le ipotesi di furto aggravato di cui all’art. 625 c.p., ipotesi per cui è prevista la citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 550 co. 2 lett. f) c.p.p..

A tal proposito la Suprema Corte con la recente sentenza n. 1792/2019 ha inoltre chiarito che, nonostante l’introduzione della Legge 23 giugno 2017, n. 103 abbia apportato delle modifiche ai limiti edittali del delitto, l’art. 624 bis c.p. è da annoverarsi tra quelli per cui si procede con citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 550 c.p.p.

Dopo aver motivato l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova qualora ricorra l’ipotesi di reato di cui all’art. 624 bis c.p., il giudice a quo rileva un ulteriore profilo problematico dovuto alla tardività della formulazione dell’istanza di ammissione alla messa alla prova ai sensi dell’art. 464 bis co. 2 c.p.p., norma che prevede che, nei casi in cui si proceda con la citazione diretta a giudizio, l’istanza di cui all’art. 168 bis c.p. possa essere formulata soltanto fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

Pertanto, l’imputato, a fronte di una modifica dell’imputazione intervenuta successivamente all’apertura del dibattimento, anche in assenza di fatti nuovi emersi nella fase istruttoria, vedrebbe decadere il termine utile per proporre l’istanza di ammissione alla messa alla prova ai sensi dell’art. 168 bis c.p..

In merito alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, il giudice a quo riprende la motivazione formulata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 141 del 2018 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., per contrasto con gli articoli 3 e 24 co. 2 Cost., nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, in virtù della sua natura di rito alternativo.

A detta del giudice a quo infatti lo stesso ragionamento adottato dalla Consulta in occasione della sentenza n. 141 del 2018 deve essere trasposto nell’ipotesi di contestazione di un fatto diverso ai sensi dell’art. 516 co. 1 c.p.p.

La scelta del rito costituisce infatti una delle forme più significative di esplicazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., il cui esercizio deve essere garantito in ogni ipotesi di mutamento “patologico” o “fisiologico” della fisionomia originaria dell’accusa, pena la violazione del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost.

La pronuncia della Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale ritiene fondate entrambe le questioni sollevate dal rimettente, sulla base delle considerazioni più ampiamente svolte nella sentenza n. 141 del 2018.

La Consulta muove dalla premessa secondo cui la scelta dei riti alternativi da parte dell’imputato costituisce una delle più qualificanti espressioni del diritto di difesa, ragion per cui, nel corso degli anni, gli artt. 516 e 517 c.p.p. sono stati oggetto di dichiarazioni di incostituzionalità parziali per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di essere ammesso a un rito speciale a contenuto premiale qualora, nel corso della fase istruttoria, emerga un fatto diverso da quello originariamente contestato oppure un reato connesso o una circostanza aggravante non previamente contestati all’imputato, al momento di formulazione del capo di imputazione.

Una diversa presa di posizione, sottolinea la Corte, sarebbe infatti lesiva del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. in quanto l’imputato verrebbe ingiustamente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, a causa della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del Pubblico Ministero.

Tale orientamento della Consulta che può dirsi ad oggi consolidato, in merito al diritto dell’imputato di essere rimesso in termini relativamente alla facoltà di accedere ai riti alternativi, qualora durante il corso del dibattimento intervengano delle modifiche patologiche o fisiologiche dell’imputazione, è il risultato di un lento mutamento di orientamento da parte della Corte Costituzionale.

Inizialmente la Consulta aveva ritenuto di dover escludere ogni possibilità di superare l’ordinario limite processuale fissato per la richiesta di ammissione ai riti alternativi, sostenendo che l’interesse dell’imputato all’accesso a tali riti merita tutela “solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento, permetta di raggiungere quell’obbiettivo di rapida definizione del processo”, come affermato con la sentenza n. 593 del 19902.

Successivamente, la Corte Costituzionale aveva mutato il proprio orientamento, a partire dalla sentenza n. 265 del 1994, affermando l’incostituzionalità parziale degli art. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione dei riti alternativi, qualora fosse intervenuta un’evenienza patologica del procedimento conseguente ad un errore sull’individuazione del fatto o del titolo del reato.

In seguito, la Consulta, a partire dalla sentenza n. 237 del 2012, come confermato dalle recenti sentenze n. 141/2018 e n. 82/2019, superando il precedente orientamento maggiormente restrittivo, ha affermato il principio secondo cui, a prescindere da eventuali negligenze ravvisabili nella fase di formulazione del capo di imputazione, all’imputato deve essere riconosciuto il diritto di esercitare compiutamente le proprie scelte difensive, comprese quelle riguardanti la scelta di un rito alternativo.

La Corte ha infatti osservato che, anche in presenza di una contestazione “fisiologica” del fatto diverso o di un reato concorrente “l’imputato che subisce nuova contestazione viene a trovarsi in una posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio”. Questo in virtù del fatto che “condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti”, come affermato nella sentenza n. 237 del 2012.

Tale principio generale, come già evidenziato, è stato applicato dalla sentenza n. 141 del 2018 nell’ipotesi di contestazione di nuove circostanze aggravanti nel corso dell’istruttoria dibattimentale di cui all’art. 517 c.p.p., in relazione all’istituto della messa alla prova, istituto che, come sottolineato dalla Corte Costituzione nella sentenza n. 240 del 2015, pur avendo natura sostanziale, data la capacità di produrre l’estinzione del reato, è connotato da una natura intrinsecamente processuale, costituita dalla capacità di dare vita ad un procedimento speciale, alternativo al giudizio ordinario.

Per quanto precede, lo stesso principio generale non può non trovare applicazione nel caso di specie in riferimento all’art. 516 co. 1 c.p.p., ovvero al caso in cui avvenga la contestazione di un fatto diverso, trattandosi di un’ipotesi strutturalmente analoga a quella prospettata nella sentenza n. 141 del 2018.

Considerazioni finali.

La sentenza in commento si pone nel solco di un orientamento consolidato della Consulta, la quale a partire dalla sentenza n. 265 del 1994 ha iniziato la sua opera di adeguamento del dettato codicistico a fronte dell’introduzione nell’ordinamento di riti alternativi al procedimento ordinario, inizialmente con riguardo al rito abbreviato e all’applicazione della pena su richiesta delle parti e, attualmente, all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.

Considerata, nello specifico, l’intrinseca dimensione processuale dell’istituto di cui all’art. 168 bis c.p.p., capace di dare vita ad un rito alternativo al giudizio ordinario, l’intervento della Consulta si è rilevato necessario, al fine di evitare violazioni del dettato costituzionale, riconoscendo, nel caso di mutamenti patologici o fisiologici del capo di imputazione, il diritto dell’imputato di richiedere l’ammissione all’istituto della messa alla prova, prevedendo una rimessione in termini a suo favore in deroga all’art. 464 bis co. 2 c.p.p..

La sentenza n. 14 del 2020 costituisce pertanto un ulteriore e fondamentale tassello posto dalla Corte Costituzionale nel processo di adeguamento della disciplina codicistica a fronte dell’introduzione nell’ordinamento di riti alternativi al procedimento ordinario.

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