La Consulta dichiara “nuovamente” l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p.

La Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, co. 2, c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 34, co. 2

Indice:

  1. Il fatto
  2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  3. Le argomentazioni sostenute dalle parti
  4. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
  5. Conclusioni

Il fatto

Il pubblico ministero aveva chiesto l’emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di una persona imputata del reato di guida in stato di ebbrezza, di cui all’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).

Tuttavia, tale richiesta era stata rigettata dal giudice sul rilievo che non risultava essere stata contestata l’aggravante dell’aver provocato un incidente stradale di cui al comma 2-sexies (recte: 2-bis) del citato art. 186: aggravante la cui sussistenza era desumibile da una nota dei Carabinieri, nella quale si riferiva che «“la responsabilità del sinistro non può che ricadere su entrambi i conducenti” (tra i quali l’odierno imputato […])».

Di seguito a ciò, il pubblico ministero aveva formulato una nuova richiesta di decreto penale, contestando l’aggravante in questione.

Investito di tale seconda richiesta, l’autorità giudicante rilevava come l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. non contempli l’ipotesi considerata tra i casi di incompatibilità del giudice, evidenziando al contempo, come logico corollario, come essa non potrebbe quindi neppure costituire motivo di ricusazione a norma dell’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. non trattandosi di una manifestazione indebita del convincimento del giudice sui fatti oggetto dell’imputazione né, d’altra parte, risulterebbe, sempre a parere dell’organo giudicante, «appagante» il ricorso all’istituto dell’astensione per «gravi ragioni di convenienza» (art. 36, comma 1, lettera h, cod. proc. pen.) non potendo essere rimessa alla discrezionalità del singolo magistrato «la autovalutazione della propria capacità professionale di non lasciarsi influenzare da giudizi già espressi ritualmente».

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

A fronte della criticità appena esaminata, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede «l’incompatibilità del GIP che abbia rigettato la richiesta di emissione di decreto penale per ritenuta diversità del fatto a pronunziarsi su nuova richiesta di emissione di decreto penale, avanzata dal PM in conformità ai rilievi precedentemente formulati dal giudice».

In particolare, secondo il rimettente, la mancata inclusione dell’ipotesi in esame fra le cause di incompatibilità avrebbe posto la norma censurata in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. per violazione del principio di parità di trattamento e del diritto di difesa atteso che, tenuto conto anche «dell’espansione che ha caratterizzato l’evoluzione dell’istituto a seguito di numerose sentenze della Corte costituzionale», l’incompatibilità dovrebbe essere prevista in tutti i casi in cui l’attività del giudice si configuri «come oggettivamente sostitutiva del potere-dovere di iniziativa del pubblico ministero»: ipotesi che ricorrerebbe nel caso in discorso, nel quale il giudice, ponendo in evidenza la sussistenza di un’aggravante non contestata, avrebbe svolto un’attività sostitutiva di quella di naturale spettanza dell’organo dell’accusa.

Sempre ad avviso del giudice a quo, la norma censurata sarebbe stata altresì in contrasto, in parte qua, con il principio, più volte affermato dalla Consulta, per il quale «l’incompatibilità è determinata da ogni valutazione di merito circa l’idoneità delle risultanze probatorie a fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato» dal momento che, nella specie, si sarebbe stato al cospetto di una previa valutazione di responsabilità compiuta dallo stesso giudice chiamato all’emissione del decreto penale il quale, rigettando la precedente richiesta, avrebbe ritenuto – implicitamente, ma univocamente – non solo sussistente il fatto (giacché, in caso contrario, avrebbe respinto la richiesta per tale motivo), ma anche configurabile un’aggravante non contestata.

Al riguardo, il rimettente ricordava come la Corte costituzionale avesse già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il giudice che abbia, all’esito di precedente dibattimento riguardante il medesimo fatto storico a carico del medesimo imputato, ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., in ragione della ritenuta diversità del fatto da come descritto nel decreto che dispone il giudizio, divenga incompatibile alla funzione di giudizio (sentenza n. 455 del 1994), nonché alla trattazione dell’udienza preliminare (sentenza n. 400 del 2008).

Rilevava, inoltre, il giudice a quo come, nella stessa sentenza n. 455 del 1994, il giudice delle leggi abbia chiarito che l’incompatibilità alla funzione di giudizio deve essere riconosciuta in capo al giudice che abbia, in uno stadio anteriore del procedimento, espresso una valutazione di merito della stessa materia processuale riguardante il medesimo incolpato: e ciò, tanto se tale valutazione sia stata compiuta a conclusione delle indagini preliminari, quanto se sia stata compiuta in un precedente giudizio di cognizione, non potutosi definire con sentenza.

Orbene, nel caso considerato, esso rimettente avrebbe certamente espresso, per le ragioni già indicate, una valutazione di merito rigettando l’originaria richiesta di decreto penale, né avrebbe rilevato in senso contrario la circostanza che si vertesse nuovamente in una fase di decisione sulla richiesta di decreto penale visto che il rigetto di quest’ultima avrebbe comportato la restituzione degli atti al pubblico ministero, con la conseguenza che la riformulazione della richiesta avrebbe aperto un nuovo giudizio, che avrebbe dovuto essere pertanto demandato a un diverso giudice.

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale chiedeva che le questioni fossero dichiarate inammissibili o non fondate.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, invero, le questioni sarebbero state tutte inammissibili in quanto il giudice a quo non avrebbe illustrato «se si fosse in fase di valutazione astratta o concreta della questione sulla scorta della mera descrizione del fatto contenuta nel capo di imputazione».

Nel merito, la difesa dello Stato rilevava come questioni (a suo avviso) analoghe fossero già state decise dalla Consulta nel senso della non fondatezza con le sentenze n. 66 del 2019 e n. 18 del 2017.

In particolare, nella sentenza n. 18 del 2017 la Corte costituzionale aveva ritenuto decisiva, per escludere l’insorgenza di una situazione di incompatibilità allo svolgimento della funzione di giudice, e segnatamente di giudice dell’udienza preliminare, la circostanza che la valutazione della medesima res iudicanda e il conseguenziale invito a modificare l’imputazione fossero intervenuti nella stessa fase della quale il giudice interessato era investito, e non in una fase precedente e distinta poichè la valutazione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra nel complessivo giudizio demandato al giudice in quella specifica fase processuale, e l’invito a modificare l’imputazione rappresenta un «rimedio endofasico», non idoneo a creare situazioni di incompatibilità.

A parere dell’Avvocatura dello Stato, non vi sarebbero state dunque ragioni per le quali le odierne questioni avessero dovute essere decise in termini diversi, non potendo nel caso in esame prospettarsi una regressione del procedimento.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Per quanto innanzitutto concerneva l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato, i giudici di legittimità costituzionale la ritenevano infondata giacchè, dalla pur sintetica narrazione dei fatti, contenuta nell’ordinanza di rimessione, emergeva, a loro avviso, in modo chiaro e univoco come il giudice a quo avesse desunto la configurabilità dell’aggravante dagli atti di indagine (in specie, da una relazione dei Carabinieri) e non già dalla descrizione del fatto recata dal capo d’imputazione, tenuto conto altresì del fatto che, anche nel caso in cui l’aggravante fosse emersa da tale descrizione, non si poteva escludere, sempre per la Corte, che il provvedimento di rigetto della richiesta di decreto penale implicasse una valutazione “contenutistica” sulla res iudicanda.

Ciò posto, sempre sul piano dell’ammissibilità, ad avviso della Consulta, occorreva piuttosto rilevare una apparente incongruenza del petitum rispetto alla vicenda oggetto del giudizio principale posto che, se il rimettente chiedeva alla Corte costituzionale di introdurre una nuova ipotesi di incompatibilità, riferita specificamente al giudice per le indagini preliminari «che abbia rigettato la richiesta di emissione di decreto penale di condanna per ritenuta diversità del fatto» e, in questo modo, a parere del giudice delle leggi, il giudice a quo mostrava di ritenere che la nozione di «fatto diverso» (impiegata, quanto alle nuove contestazioni dibattimentali, nell’art. 516 cod. proc. pen.) equivale a (o si presta a ricomprendere) quella di «fatto diversamente circostanziato» (presa in considerazione dal successivo art. 517), la giurisprudenza di legittimità è, invece, per converso, costante nell’affermare che la mancata contestazione di una circostanza aggravante – ipotesi che viene in rilievo nel giudizio a quo – non dia luogo a «diversità del fatto» nel senso che il fatto deve considerarsi «diverso» quando, in rapporto a taluno dei suoi elementi essenziali (condotta, evento, nesso causale, elemento soggettivo), presenta connotati materiali difformi rispetto a quello contestato, non rientrando, perciò, in tale nozione, la mancata contestazione di un’aggravante la quale implica, non già una modifica dell’imputazione originaria, ma l’aggiunta ad essa di un elemento accessorio, non necessario ai fini della sussistenza del reato (l’art. 517 cod. proc. pen. qualifica, infatti, tale ipotesi come contestazione «suppletiva») (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 maggio-18 giugno 2015, n. 25882; sezione quarta penale, sentenza 25 giugno-28 luglio 2008, n. 31446).

In questa prospettiva, pertanto, sempre secondo la Corte costituzionale, l’accoglimento del petitum, così come formulato dal rimettente, sarebbe rimasto privo di effetti nel giudizio principale, proprio perché ivi non si discuteva di una ipotesi di diversità del fatto.

Pur tuttavia, a fronte di ciò, la Consulta riteneva come dovesse però essere escluso che quanto appena esposto potesse comportare l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza visto che, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione e dalle singole argomentazioni in essa svolte, si desumeva per la Corte, in effetti, che, di là dal riferimento alla diversità del fatto – il quale si risolve in una mera imprecisione tecnica –, il giudice a quo, nel richiedere l’ulteriore ampliamento del catalogo delle incompatibilità, aveva avuto specificamente di mira la fattispecie che veniva in rilievo nel giudizio principale ossia, appunto, il rigetto della richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una circostanza aggravante.

Precisato ciò, le questioni erano stimate fondate sotto il secondo dei profili prospettati dal giudice rimettente.

Si osservava a tal riguardo che, per costante giurisprudenza costituzionale, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).

Più nel dettaglio, si denotava come l’imparzialità del giudice richieda, in specie, che «la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996) e, di conseguenza, in quest’ottica, l’art. 34 cod. proc. pen. – dopo aver regolato, al comma 1, la cosiddetta incompatibilità “verticale”, determinata dall’articolazione e dalla consecutio dei diversi gradi di giudizio – si occupa, al comma 2 (oggi censurato), della cosiddetta incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede, rilevandosi al contempo che la disposizione, costruita secondo la tecnica della casistica tassativa («[n]on può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere»), è stata oggetto, nel corso del tempo, di numerose declaratorie di illegittimità costituzionale di tipo additivo che hanno significativamente ampliato l’elenco delle ipotesi di operatività dell’istituto.

Oltre a ciò, il giudice delle leggi evidenziava inoltre che, in linea generale, l’incompatibilità presuppone una relazione tra due termini: una “fonte di pregiudizio” (ossia un’attività giurisdizionale atta a generare la forza della prevenzione) e una “sede pregiudicata” (vale a dire un compito decisorio, al quale il giudice, che abbia posto in essere l’attività pregiudicante, non risulta più idoneo).

In particolare, per quanto attiene alla “sede pregiudicata – che l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. individua nella «partecipa[zione] al giudizio» – si faceva presente come la Consulta, fin dalle sue prime pronunce in materia, abbia posto in evidenza come per «giudizio» debba intendersi ogni processo che in base a un esame delle prove pervenga a una decisione di merito (sentenze n. 155 e n. 131 del 1996, n. 453 del 1994, n. 439 del 1993, n. 261, n. 186 e n. 124 del 1992).

Tal che se ne faceva conseguire come siffatta nozione comprenda, pertanto, non soltanto il giudizio dibattimentale, ma anche il giudizio abbreviato (sentenza n. 401 del 1991), l’applicazione della pena su richiesta delle parti (ordinanza n. 151 del 2004), l’udienza preliminare (almeno nell’attuale configurazione, sentenza n. 224 del 2001) e talora l’incidente di esecuzione (sentenza n. 7 del 2022), nonché – per quanto qui particolarmente interessa – il decreto penale di condanna (sentenza n. 346 del 1997).

Ebbene, proprio in relazione a quest’ultimo rito speciale, i giudici di legittimità costituzionale denotavano come il procedimento per decreto sia (per l’appunto) un rito speciale a carattere “premiale” con contraddittorio eventuale e differito dal momento che, con il decreto il giudice per le indagini preliminari, si applica all’imputato, su richiesta del pubblico ministero, per determinati tipi di reato, una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, eventualmente ridotta fino alla metà rispetto al minimo edittale, senza alcuna attivazione preventiva del contraddittorio fermo restando che, da un lato, l’imputato può presentare opposizione nei quindici giorni dalla notificazione del decreto, determinando l’instaurazione di un processo mediante giudizio immediato, giudizio abbreviato o patteggiamento, dall’altro, al giudice spetta, in base all’esame delle risultanze delle indagini preliminari, di accogliere o rigettare la richiesta del pubblico ministero, senza possibilità di apportarvi modifiche.

Si tratta quindi di una funzione di giudizio in quanto il controllo demandato al giudice per le indagini preliminari attiene non solo ai presupposti del rito, ma anche al merito dell’ipotesi accusatoria, postulando una verifica del fatto storico e della responsabilità dell’imputato, tenuto conto altresì del fatto che il giudice può sindacare, tra l’altro, la congruità della pena richiesta dal pubblico ministero (per tutte, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 22 maggio-26 giugno 2018, n. 29349), l’esattezza della qualificazione giuridica del fatto (per tutte, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 15 dicembre 2011-24 gennaio 2012, n. 2982) e la sufficienza degli elementi probatori (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 16 giugno-21 luglio 2021, n. 28288): ipotesi tutte che, in caso di esito negativo della verifica, portano al rigetto della richiesta fermo restando che l’organo giudicante può anche prosciogliere l’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. (art. 459, comma 3, cod. proc. pen.).

Chiarito ciò, quanto, invece, all’“attività pregiudicante, si evidenziava come la Consulta avesse da tempo precisato le condizioni in presenza delle quali la previsione dell’incompatibilità del giudice deve ritenersi costituzionalmente necessaria.

In primo luogo, presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda.

In secondo luogo – benché l’architettura del nuovo rito penale richieda, in linea di principio, che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – non basta a generare l’incompatibilità la semplice conoscenza di atti anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione di essi, strumentale all’assunzione di una decisione.

In terzo luogo, tale decisione deve avere natura non «formale», ma «di contenuto»: essa deve comportare, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi dell’accusa, e non già al mero svolgimento del processo.

Da ultimo, affinché insorga l’incompatibilità, è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento, essendo del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi, resti preservata «l’esigenza di continuità e di globalità»: prospettiva nella quale il giudice chiamato al giudizio di merito non incorre in incompatibilità allorché compia valutazioni preliminari, anche di merito, destinate a sfociare in quella conclusiva, venendosi altrimenti a determinare una «assurda frammentazione» del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (sentenze n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996).

Sulla base di tali criteri, è stata inclusa, in sede di giustizia costituzionale, tra le possibili “fonti di pregiudizio”, anche l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento, avendo accertato che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione, disponga, ai sensi dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al pubblico ministero posto che, nel momento in cui accerta che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione, il giudice compie una penetrante delibazione del merito della res iudicanda, non dissimile da quella che, in mancanza di una valutazione della diversità del fatto, conduce alla definizione con sentenza del giudizio di merito fermo restando che l’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero determina, d’altro canto, la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari: «la fase in corso davanti al giudice che l’ha emessa si chiude, e la fase che si aprirà all’esito delle iniziative del pubblico ministero – il quale dovrà esercitare novamente l’azione penale, sempre che ne ravvisi i presupposti – sarà, […] anche se omologa, una fase distinta e ulteriore, rispetto alla quale la valutazione di merito insita nel precedente provvedimento potrà assumere una valenza “pregiudicante”» (sentenza n. 18 del 2017).

Di qui, dunque, per la Corte, l’esigenza costituzionale che il nuovo dibattimento (sentenza n. 455 del 1994) o la nuova udienza preliminare (sentenza n. 400 del 2008), tenuti all’esito della predetta trasmissione per lo stesso fatto storico e nei confronti del medesimo imputato, siano attribuiti alla cognizione di altro giudice.

Orbene, per i giudici di legittimità costituzionale, analoga conclusione si imponeva, mutatis mutandis, anche per il caso in questione dato che, da un lato, il rigetto della richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una circostanza aggravante comporta anch’esso una valutazione di merito sulla res iudicanda visto che in tale provvedimento è insito il riconoscimento che, alla luce delle risultanze degli atti di indagine, non solo il fatto per cui si procede sussiste ed è addebitabile all’imputato (in caso contrario, il giudice rigetterebbe la richiesta per tale motivo), ma che è altresì aggravato da una circostanza trascurata dal pubblico ministero, dall’altro lato, il rigetto della richiesta di decreto penale determina, per espressa previsione del codice di rito (art. 459, comma 3, cod. proc. pen.), la restituzione degli atti al pubblico ministero e, con essa – secondo un costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità –, la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari (fase che si era chiusa con la precedente richiesta di decreto penale, che costituisce uno dei modi di esercizio dell’azione penale): tant’è che il pubblico ministero viene pienamente reintegrato nelle proprie attribuzioni, potendo anche optare per una eventuale richiesta di archiviazione, senza che vi osti il principio di irretrattabilità dell’azione penale (tra le altre, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 14 dicembre 2017-26 marzo 2018, n. 14012; sezione seconda penale, 20-27 marzo 2009, n. 13680).

Di conseguenza, anche in questo caso, come in quelli appena richiamati, per la Corte costituzionale, la successiva riproposizione della richiesta di decreto penale apre una nuova fase di giudizio che, sebbene omologa alla precedente, resta da essa distinta e nella quale, pertanto, la valutazione “contenutistica” insita nel provvedimento di rigetto della prima richiesta esplica la propria efficacia pregiudicante.

L’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. era dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

Conclusioni

Con la pronuncia qui in esame la Consulta, come appena visto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, co. 2, c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

Orbene, come trapela in questo stesso provvedimento, tale decisione si innesta lungo il solco di una pregressa giurisprudenza costituzionale con cui la Corte costituzionale, a più riprese, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34 c.p.p. ampliando il novero dei casi di incompatibilità.

Alla stregua della sentenza in commento, dunque, è stato per l’appunto contemplato un ulteriore caso di incompatibilità, ossia il caso in cui il giudice per le indagini preliminari abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante atteso che, in tale ipotesi, alla luce di questo pronunciamento, costui non può più pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

Ove, invece, si dovesse ripresentare una situazione di questo tipo, ben potrà impugnarsi una decisione di questo genere, da parte della difesa, nei modi e nelle forme contemplate dal codice di procedura penale.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta decisione, proprio perché si allinea a quanto già affermato dal giudice delle leggi in subiecta materia, non può che essere positivo.

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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