Orbene, esaminiamo il modo attraverso il quale il giudice delle leggi è intervenuto con tali pronunce in subiecta materia.
La sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019
Con la decisione n. 24, emessa il 24 gennaio del 2019, e depositata il 27 febbraio del 2019, i giudici di legittimità costituzionale hanno dichiarato: a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1); b) l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956; c) l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a); d) l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).
Pertanto è evidente che, alla stregua di quanto deciso in questa pronuncia, diverse norme (previgenti e attualmente in vigore), concepite dal legislatore per il contrasto alla mafia, sono state oggetto di censura di illegittimità costituzionale. In particolare, va rilevato come la Consulta abbia avuto modo di rilevare in siffatta pronuncia che se, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso, risulti oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011 (“1. I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano a: (…) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”), sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» – oltre che in quali «modi» – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca in guisa tale che la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato, si è evidenziato tuttavia come l’altra fattispecie di cui all’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011 (“1. I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano a: a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”), apparisse invece affetta da radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza de Tommaso posto che alla giurisprudenza non è stato possibile riempire di significato certo, e ragionevolmente prevedibile ex ante per l’interessato stante l’esistenza di due contrapposti indirizzi interpretativi che definiscono in modo differente il concetto di «traffici delittuosi» e segnatamente: da un lato, quella giurisprudenza che fa riferimento a «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti […]», ricomprendendovi anche attività «che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili» (tra le tante, Corte di cassazione, sent. n. 11846 del 2018), dall’altro, quell’orientamento nomofilattico con cui ci si riferisce al «commercio illecito di beni tanto materiali […] quanto immateriali […] o addirittura concernente esseri viventi (umani […] ed animali […]), nonché a condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite […], ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto […] da cui sia derivato una qualche forma di provento», osservando ulteriormente che «nel senso comune della lingua italiana […] trafficare significa in primo luogo commerciare, poi anche darsi da fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di operazioni, di lavori, in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile, e infine, in ambito marinaresco, maneggiare, ma non può fondatamente estendersi al significato di delinquere con finalità di arricchimento» (tra le tante, Corte di Cassazione, sent. n. 53003 del 2017).
Chiarito ciò, la Consulta ha fatto altresì presente, per un verso, che le definizioni di un termine geneticamente vago come quello di «traffici delittuosi», non ulteriormente specificato dal legislatore, non apparissero in grado di selezionare, nemmeno con riferimento alla concretezza del caso esaminato dal giudice, i delitti la cui commissione possa costituire il ragionevole presupposto per un giudizio di pericolosità del potenziale destinatario della misura, per altro verso, siffatte nozioni di «traffici delittuosi», dichiaratamente non circoscritte a delitti produttivi di profitto, mai potrebbero legittimare, dal punto di vista costituzionale, misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione di ragionevole origine criminosa dei beni, che si è visto costituire la ratio di tali misure.
Tal che se ne è fatta discendere la conclusione secondo la quale la descrizione normativa in questione non soddisfasse le esigenze di precisione imposte tanto dall’art. 13 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, né quelle imposte dall’art. 42 Cost. e, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca e pertanto, se ne è fatta derivare l’illegittimità costituzionale, in ragione del loro contrasto con i parametri appena indicati, di tutte le disposizioni di cui sono state sollevate le questioni di legittimità costituzionale (e non dichiarate inammissibili) nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011 («coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi»), restando assorbita la questione relativa all’art. 25, terzo comma, Cost..
La sentenza n. 25 del 27 febbraio 2019
La Consulta, con la sentenza n. 25 emessa in data 24 gennaio del 2019 e depositata il 27 febbraio del 2019, ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” nonché, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
Il giudice delle leggi, in particolare, è addivenuto a formulare queste censure di illegittimità costituzionale osservando come la norma censurata (ossia: l’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159) avesse violato il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 CEDU e in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. evidenziandosi al contempo che il possibile bilanciamento con altri valori costituzionalmente tutelati, rispetto alla decisione intrapresa, non sarebbe stato affatto distonico rispetto al pieno dispiegarsi dei parametri interposti visto che, da una parte, l’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati, che è al fondo della ratio delle misure di prevenzione e che si raccorda alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, come valore costituzionale, è comunque soddisfatta dalle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno, dall’altra, la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura.
Precisato ciò, la Consulta ha messo altresì in risalto il fatto che, sebbene le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione riguardassero il delitto previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, gli stessi dubbi di costituzionalità si ponevano con riferimento al reato contravvenzionale di cui al comma 1 della medesima disposizione che prevede analogamente la violazione degli obblighi inerenti la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ma senza obbligo né divieto di soggiorno, allorché le prescrizioni consistono nell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi e dunque, come appena visto poco prima, in via consequenziale e per le stesse ragioni, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno, ove consistente nell’obbligo di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
Questi sono dunque i tratti salienti che connotano queste pronunce.
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