La Consulta interviene sulla pena per sabotaggio opere militari

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    Indice

  1. Fatto
  2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  3. La soluzione adottata dalla Consulta
  4. Conclusioni

1. Fatto

La Corte militare di Appello di Roma dichiarava l’imputato colpevole del reato di sabotaggio di opere militari aggravato e continuato (artt. 81, primo comma, del codice penale, 167, primo comma, e 47, numero 2, cod. pen. mil. pace), condannandolo alla pena di sei anni e due mesi di reclusione (all’esito dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla contestata aggravante), oltre alla degradazione.

Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

La Sezione prima penale della Corte di Cassazione, investita del ricorso summenzionato, pur ritenendo manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 167 cod. pen. mil. pace – per dedotta sproporzione del trattamento sanzionatorio ivi comminato rispetto a quello contemplato dall’art. 168 del medesimo codice – prospettata dall’imputato in una memoria difensiva, riteneva pur tuttavia come il dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 167 si ponesse sotto il diverso profilo della mancata previsione, nella disposizione censurata, di una circostanza attenuante per i fatti di lieve entità e, pertanto, erano sollevate – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 167 del codice penale militare di pace, censurandolo «nella parte in cui non prevede nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità attenuazioni della pena per fatti di lieve entità».

In particolare, quanto alla rilevanza delle questioni, la Sezione rimettente osservava come l’accoglimento delle censure di illegittimità costituzionale avrebbe comportato «l’applicazione dell’elemento circostanziale, con diversa e meno afflittiva determinazione del trattamento sanzionatorio».

Invece, in ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo riteneva come la disposizione censurata fosse lesiva degli artt. 3 e 27 Cost., sotto il profilo dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, nonché dei canoni di proporzionalità e individualizzazione della pena.

Nel dettaglio, sotto il primo profilo, la Sezione rimettente rammentava che l’art. 167 cod. pen. mil. pace punisce con la reclusione in misura non inferiore a otto anni la condotta del militare che, fuori dai casi previsti dagli articoli da 105 a 108 del medesimo codice, distrugge o rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato, evidenziando al contempo che la fattispecie di distruzione o sabotaggio di opere militari, di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace, sarebbe sovrapponibile, per struttura e tipicità, a quella di distruzione o sabotaggio di opere militari contemplata dall’art. 253 cod. pen., che punisce con la medesima pena le stesse condotte, poste in essere, analogamente, su res militari, differenziandosi da essa solo in relazione al soggetto attivo (nel primo caso, il militare; nel secondo, chiunque), fermo restando che, sempre ad avviso del giudice rimettente, da un lato, al delitto di cui all’art. 253 cod. pen. sarebbe tuttavia applicabile la disposizione dell’art. 311 cod. pen., che consente di diminuire la pena «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità», laddove analoga circostanza attenuante non è contemplata dall’art. 167 cod. pen. mil. pace, dall’altro, non si potrebbe ritenere applicabile la diminuente in questione «in via d’interpretazione», «non sussistendo, nel sistema, un controllo di costituzionalità c.d. diffuso», che legittimi il giudice ordinario ad applicare «disposizioni – che pur alimentate da omogeneità e identità di ratio – non sono espressamente richiamate dal precetto della cui legittimità costituzionale si dubita», in guisa tale che, in assenza di apprezzabili «elementi di differenziazione tra i due paradigmi normativi (sabotaggio ordinario e militare in senso stretto)», mentre la mancata previsione, per quest’ultimo delitto, della diminuente legata alla lieve entità del fatto – invece applicabile al primo – violerebbe i principi di uguaglianza sostanziale e ragionevolezza.

Precisato ciò, pur alla luce della «poliedricità del bene protetto» dall’art. 167 cod. pen. mil. pace, da leggersi, per questa sezione semplice della Cassazione, «in collegamento con la qualità del soggetto attivo del reato» e la «necessità di tutelare nella sua interezza il servizio militare e la sua integrità», non sarebbe ragionevole la mancata previsione della circostanza attenuante fondata sulla lieve entità del fatto, che «incide sulla portata lesiva concreta ed oggettiva della condotta», atteso che non potrebbe escludersi l’ipotesi di una ridotta offensività della condotta anche in riferimento al sabotaggio posto in essere dal militare, specie ove «il bene sia reso solo temporaneamente inservibile in assenza di un pregiudizio permanente ed irreversibile e di una qualsiasi compromissione di altri beni giuridici tutelati quali il patrimonio, oppure la salute o l’integrità personale».

Ciò posto, quanto al secondo profilo di censura, il giudice a quo premetteva che, rispetto alle condotte di sabotaggio – poste in essere tanto dai militari quanto dai civili – la sanzione penale dovrebbe esprimere «un rapporto di proporzione e adeguatezza che sia collegato all’entità concreta dell’aggressione al bene protetto» e, a tale scopo, a suo avviso, sarebbe funzionale la diminuente relativa alla lieve entità del fatto, che consente al giudice di adeguare la pena alla concreta offensività della condotta, così come tanto più necessaria sarebbe la previsione dell’attenuante in parola, a fronte di una sanzione – quale è quella comminata dall’art. 167 cod. pen. mil. pace – «fissa e inderogabile» e improntata nello stesso minimo edittale ad «asprezza eccezionale» visto che, in difetto della stessa, la risposta penale rischierebbe di «perdere il suo profilo di duttilità dinamica e di adattarsi solo in parte alla varietà delle situazioni che astrattamente possono rientrare nell’ambito di applicazione del paradigma legale d’incriminazione».

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che l’impossibilità di mitigare, in funzione del concreto disvalore del fatto, il severo trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 167 cod. pen. mil. pace, determinando l’irrogazione di «una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato)», si risolverebbe, per la Corte di legittimità, in un ostacolo alla funzione rieducativa cui le pene devono tendere (erano richiamate le sentenze della Consulta n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993).

L’«esigenza di mobilità, o individualizzazione, della sanzione», funzionale a consentire «l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti», a sua volta, costituirebbe «naturale attuazione e sviluppo» tanto del principio di uguaglianza, quanto del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) e della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) (erano citate le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963) mentre previsioni sanzionatorie rigide non risulterebbero, in linea di principio, «in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale», salvo che, «per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (vedasi: Corte di Cassazione, sezione prima penale, ordinanza 6 luglio 2017, n. 52613, e la sentenza n. 222 del 2018 della Consulta).


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3. La soluzione adottata dalla Consulta

La Corte costituzionale – dopo avere illustrato le censure summenzionate e disattesa l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato – affermava che le questioni fossero fondate con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., congiuntamente considerati.

Si osservava a tal proposito innanzitutto che, in base alla costante giurisprudenza della Consulta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 73 del 2020, n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n. 341 del 1994).

Il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità (da ultime, sentenze n. 63 del 2022, punto 4.1. del Considerato in diritto, e n. 28 del 2022, punto 6.1. del Considerato in diritto), rilevandosi al contempo che del resto sono state altresì numerose le pronunce in cui il Giudice delle leggi ha affrontato censure formulate in riferimento all’art. 3 Cost. e concernenti differenze di trattamento sanzionatorio tra reati militari e reati comuni.

In diverse occasioni, invero, sono state dichiarate costituzionalmente illegittime previsioni dalle quali discendeva per il militare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello riservato al comune cittadino, così come sono state ritenute contrarie all’art. 3 Cost.: la mancata applicazione, in determinate ipotesi, di un’amnistia al peculato militare di cui all’art. 215 cod. pen. mil. pace, e la sua previsione invece per il peculato comune (sentenza n. 4 del 1974); la mancata estensione, da parte dell’art. 49 cod. pen. mil. pace, a tutti i reati militari dell’attenuante della provocazione, prevista dal codice penale comune per la generalità dei reati (sentenza n. 213 del 1984); la persistente punibilità, nell’ordinamento militare, del peculato militare per distrazione, abolita nel diritto penale comune nel 1990 (sentenza n. 448 del 1991); la mancata previsione del rilievo scusante, anche nell’ordinamento militare, dell’ignoranza inevitabile della legge penale, il cui valore esimente nel diritto penale comune era stato riconosciuto dalla sentenza n. 364 del 1988 (sentenza n. 61 del 1995); la mancata estensione di un’amnistia al delitto di truffa militare aggravata e la sua previsione, invece, per il corrispondente reato comune (sentenza n. 272 del 1997); la mancata previsione, nel codice penale militare di pace, di un’ipotesi delittuosa meno grave di peculato d’uso, similmente a quella prevista nel diritto penale comune dall’art. 314, secondo comma, cod. pen. (sentenza n. 286 del 2008); l’inapplicabilità alla diffamazione militare dell’exceptio veritatis disciplinata dall’art. 596, commi terzo, numero 1), e quarto, cod. pen. (sentenza n. 273 del 2009).

Orbene, come rilevato nella pronuncia qui in commento, in tutte queste occasioni, la differenza di trattamento è stata ritenuta priva di ragionevoli giustificazioni, a fronte della sostanziale identità della condotta, dell’elemento psicologico e del bene giuridico protetto dalle norme poste a raffronto, e ciò è stato fatto sulla base del presupposto – esplicitato da una sentenza con la quale è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una differente disciplina in materia processuale per i reati comuni e per quelli militari – che «[l]a Costituzione repubblicana supera radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare e, ricondotto anche quest’ultimo nell’ambito del generale ordinamento statale, particolarmente rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari oppur no, definitivamente impedisce che la giurisdizione penale militare si consideri ancora come “continuazione” della “giustizia disciplinare” dei capi militari, tesa a garantire e rafforzare l’ordine e la gerarchia militare contro le violazioni “più gravi”» (sentenza n. 278 del 1987, punto 5 del Considerato in diritto).

Invece, in altre pronunce, la Consulta ha dichiarato non fondate questioni di legittimità costituzionale ex art. 3 Cost. relative a differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e militari, evidenziando la non irragionevolezza di tali distinte discipline, così come sono state giudicate non incompatibili con la Costituzione: l’inapplicabilità della scriminante degli atti arbitrari del pubblico ufficiale, prevista per delitti di cui agli artt. 336 e seguenti cod. pen., al delitto di insubordinazione con ingiuria di cui all’art. 189, secondo comma, cod. pen. mil. pace (sentenza n. 278 del 1990); la maggior pena stabilita – in forza del combinato disposto degli artt. 196 e 199 cod. pen. mil. pace – per il delitto di minaccia ad inferiore in presenza di militari riuniti per servizio, rispetto a quella prevista dall’art. 336 cod. pen. (sentenza n. 405 del 1994); la maggior pena fissata per il delitto di vilipendio alla bandiera nazionale o altro emblema dello Stato di cui all’art. 83, primo comma, cod. pen. mil. pace rispetto a quella prevista dagli artt. 291 e 292 cod. pen. (sentenza n. 531 del 2000); la perdurante rilevanza penale dell’ingiuria tra militari, pur dopo l’abrogazione, nel 2016, del corrispondente delitto comune di cui all’art. 594 cod. pen., trasformato in illecito civile (sentenza n. 215 del 2017), tenuto conto altresì del fatto che, in queste pronunce, è stato per lo più sottolineato il legittimo interesse a preservare, nei rapporti intersoggettivi tra i militari (tanto di diverso grado gerarchico, quanto di pari grado), precise «esigenze di coesione dei corpi militari» (sentenza n 45 del 1992, punto 2 del Considerato in diritto), esse stesse strumentali ad esigenze di funzionalità delle Forze armate (sentenza n. 215 del 2017, punto 5.3. del Considerato in diritto); e ciò anche in relazione alla necessità di prevenire episodi di “nonnismo” e «ingiurie di natura sessista, a seguito dell’accesso delle donne al servizio militare» (ancora, sentenza n. 215 del 2017), trattandosi di esigenze, tutte, che rendevano non irragionevole la diversità di trattamento di volta in volta in questione.

Ebbene, per la Corte costituzionale, da tale copiosa giurisprudenza può evincersi che, in linea di principio, una differenza di trattamento sanzionatorio tra reati militari e corrispondenti reati comuni viola l’art. 3 Cost. allorché essa non appaia sorretta da alcuna ragionevole giustificazione, stante la sostanziale identità della condotta punita, dell’elemento soggettivo e del bene giuridico tutelato, essendo emblematiche in questo senso le sentenze che censurano differenze di disciplina del peculato “comune” e “militare” posto che il soggetto attivo, in entrambi i reati, ha la disponibilità o il possesso di denaro o di cose della pubblica amministrazione per ragioni d’ufficio, il fatto di appropriarsi di tale denaro o cose presenta un disvalore omogeneo tanto nell’ipotesi in cui il soggetto sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio “civile”, ovvero un militare.

Al contrario, per la Consulta, differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e i corrispondenti reati militari non si pongono invece in contrasto con il principio di uguaglianza in quanto siano giustificabili in ragione della oggettiva diversità degli interessi tutelati dalle disposizioni, comuni e militari, che vengono di volta in volta a raffronto, ovvero del particolare rapporto che lega il soggetto agente al bene tutelato, essendo emblematiche in tal senso le norme incriminatrici che concernono le condotte compiute dal militare nei confronti di altri militari: lo specifico disvalore penale di tali comportamenti non dipende invero dalla loro intrinseca immoralità, né dalla mera violazione del vincolo di fiducia che l’ordinamento ripone sul rispetto della disciplina da parte dei militari; bensì dalla loro oggettiva disfunzionalità rispetto all’interesse al mantenimento di basilari esigenze di coesione all’interno delle Forze armate, a loro volta strumentali rispetto all’efficace svolgimento delle delicatissime funzioni a queste affidate, e conseguentemente rispetto alla loro efficienza e capacità operativa, oltre che dalla speciale dimensione offensiva delle condotte nei confronti dei diritti fondamentali dei singoli militari, particolarmente esposti a fenomeni di “nonnismo” o di discriminazione sessuale (così: sentenza n. 215 del 2017).

È dunque, per la Corte di legittimità costituzionale, alla luce di tali principi che deve essere vagliata la legittimità costituzionale della disposizione censurata.

Premesso ciò, era preliminarmente osservato come non fosse reputato condivisibile l’assunto del giudice rimettente secondo cui non sarebbe apprezzabile alcun significativo elemento di differenziazione tra la figura delittuosa di sabotaggio comune di cui all’art. 253 cod. pen. e quella di sabotaggio militare, tale da giustificare un loro diverso trattamento sanzionatorio dal momento che fatti di lieve entità – in relazione in particolare alla modestia del pregiudizio cagionato alla efficienza operativa delle res oggetto della condotta – sono agevolmente ipotizzabili rispetto alla figura delittuosa all’esame, in ragione della tessitura semantica particolarmente lata delle espressioni utilizzate dal legislatore.

La disposizione censurata, in effetti, sanziona, esattamente come quella parallela prevista dal codice penale comune, condotte che spaziano dalla distruzione di navi e aeromobili alla causazione della temporanea inservibilità di qualsiasi opera adibita al servizio delle Forze armate dello Stato: inclusi, ad esempio, apparecchi telegrafici, radiotelegrafici e telefonici (Tribunale supremo militare, sentenza 14 dicembre 1978, n. 339) o elaboratori di dati (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 gennaio 1992, n. 3744, con riferimento all’identica dizione utilizzata dall’art. 253 cod. pen.).

In particolare, fatti di lieve entità, per la Consulta, sono facilmente immaginabili rispetto alle condotte – su cui pone l’accento l’ordinanza di rimessione – consistenti nel rendere meramente «inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente» le cose elencate tanto nell’art. 167 cod. pen. mil. pace, quanto nell’art. 253 cod. pen.: come nel caso del rifornimento con carburante non idoneo (Tribunale supremo militare, sentenza 13 febbraio 1979, n. 144), o del mancato rifornimento di un automezzo militare (sulla configurabilità del delitto di distruzione o sabotaggio di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace mediante condotte omissive, Tribunale militare di Roma, sentenza 20 marzo 2009, n. 75; Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 20 gennaio 2011, n. 20123).

La previsione nel diverso sistema del codice penale comune della possibilità di una diminuzione della pena fino a un terzo, rispetto a una pena minima eccezionalmente elevata come quella di otto anni di reclusione, opera pertanto come una valvola di sicurezza che consente al giudice, rispetto a condotte che non abbiano prodotto danni significativi alla funzionalità del servizio, di evitare l’irrogazione di una sanzione destinata a essere necessariamente eseguita in carcere, per diversi anni, anche laddove sia riconosciuta la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche, la cui applicazione non varrebbe comunque a ricondurre la pena entro i limiti che consentono la concessione di misure alternative alla detenzione in fase esecutiva, e, quindi, l’indisponibilità di un’analoga valvola di sicurezza nel sistema penale militare comporta, invece, che anche rispetto a condotte del militare che non provochino alcun disservizio significativo, il tribunale militare sia vincolato ad applicare la pena della reclusione non inferiore a otto anni, il che comporta che un tale trattamento sanzionatorio può risultare, anche per il militare in servizio che pure è titolare di specifici doveri di custodia rispetto all’oggetto materiale della condotta, manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto, e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, con pregiudizio allo stesso principio di individualizzazione della pena e alla sua necessaria funzione rieducativa.

La situazione è, dunque, in larga misura corrispondente a quella oggetto della pronuncia con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen. nella parte in cui non prevedeva che la pena da esso comminata fosse diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità dal momento che, anche in quell’occasione, la Corte costituzionale ha stigmatizzato l’impossibilità, discendente dalla disciplina censurata, di «mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale» (sentenza n. 68 del 2012, punto 5 del Considerato in diritto, nonché le numerose pronunce con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata di circostanze attenuanti fondate sulla «lieve entità» del fatto – sentenze n. 143 del 2021 e n. 251 del 2012 –, sulla sua «particolare tenuità» – sentenza n. 105 del 2014 –, sulla sua «minore gravità» – sentenza n. 106 del 2014 –, ovvero sulla «speciale tenuità» – sentenza n. 205 del 2017 –).

Orbene, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, al vulnus così accertato non è possibile porre rimedio semplicemente estendendo al delitto di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace la circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., che non costituisce idoneo tertium comparationis, non prestandosi così a essere “importata”, attraverso una pronuncia additiva, all’interno del codice penale militare di pace il quale, però, già conosce,diverse ipotesi in cui, rispetto a gravi reati militari, è previsto che la pena sia diminuita quando il fatto risulti di lieve entità.

In particolare, quanto appena esposto accade rispetto ai pur gravissimi reati richiamati dall’art. 102 cod. pen. mil. pace (tra i quali si annoverano, ad esempio, l’alto tradimento e le intelligenze con lo straniero), nonché per i delitti di danneggiamento di edifici militari e di distruzione o deterioramento di cose mobili militari, disciplinati rispettivamente dagli artt. 168 e 169 cod. pen. mil. pace che immediatamente seguono la disposizione in questa sede censurata, e per i quali l’art. 171, numero 2), dello stesso codice prevede che la pena sia «diminuita» «se, per la particolare tenuità del danno, il fatto risulta di lieve entità» tenuto conto che, in applicazione della disposizione generale di cui all’art. 51, numero 4), cod. pen. mil. pace, il giudice è tenuto in tali ipotesi a diminuire la pena sino a un terzo.

L’estensione alla disposizione censurata della possibilità di attenuazione della pena già prevista dall’art. 171, numero 2), cod. pen. mil. pace, applicabile a figure criminose contigue (anche in relazione alla sostanziale coincidenza dell’interesse protetto) a quella che qui viene in considerazione, costituisce di conseguenza, per il Giudice delle leggi, una soluzione idonea a riparare il vulnus accertato nel caso di specie da questo stesso giudice fermo restando che tale estensione, sempre a parere della Consulta, deve essere limitata al solo frammento dell’art. 167 cod. pen. mil. pace sul quale il giudice rimettente ha appuntato i dubbi di legittimità costituzionale, e cioè alla sola previsione delle condotte di sabotaggio temporaneo (consistenti nel rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, le cose elencate dallo stesso art. 167 cod. pen. mil. pace).

Chiarito ciò, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, l’art. 167, primo comma, cod. pen. mil. pace era dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevedeva che la pena potesse essere diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità.

4. Conclusioni

Con la decisione in esame la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 167, primo comma, del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità.

Pertanto, per effetto di questa pronuncia, la pena prevista dall’art. 167, co. 1, codice penale militare di pace (“reclusione non inferiore ad otto anni”) ben può essere diminuita, nella misura pari ad un terzo, se la condotta incriminata preveduta da questa norma incriminatrice (vale a dire: distruggere o rendere inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle forze armate dello Stato) abbia cagionato un danno particolarmente tenue in quanto di lieve entità.

Non resta dunque che vedere come, in sede giudiziale, tale danno verrà considerato, per tale illecito penale, in questi termini.

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