Uno dei problemi che contribuisce, non poco, ad appesantire la crisi del sistema gestionale dei rifiuti in Sicilia è causato dall’incertezza interpretativa che caratterizza la natura patrimoniale della tariffa d’igiene ambientale, pur in presenza dell’articolo 238 del Dlgs n. 152/2006 che ribadisce quanto già stabilito dall’art. 49 del Dlgs n. 22/97, cioè che la tariffa costituisce il “corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani”. E tale questione, questa volta, non può essere addebitata al legislatore siciliano ma a quello statale, in considerazione del fatto che non può ritenersi ammissibile “in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal parlamento nazionale”[1]. “Ne consegue che la disciplina sostanziale dell’imposta rientra nella competenza esclusiva dello Stato, in base all’art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione, e che è preclusa, se non nei limiti riconosciuti dalla legge statale, la potestà delle Regioni di legiferare su tale imposta”[2].
Secondo una ponderata e recente riflessione sull’argomento “Una precisazione è d’obbligo: l’esatta individuazione della natura della tariffa non rappresenta affatto una mera disquisizione teorico-giuridica, ma, al contrario, comporta importanti ricadute in punto di individuazione della concreta disciplina applicabile (se civilistica o tributaria), di giurisdizione, di forma degli atti e di impugnabilità, di modalità di riscossione coattiva e di sistema sanzionatorio, di applicazione dell’IVA”[3].
Migliaia sono i contenziosi attivati presso le Commissioni tributarie e presso i Giudici Ordinari, ed alluvionali sono i pronunciamenti in merito. Ancora oggi, tuttavia, si registrano sia in giurisprudenza che in dottrina due opposti orientamenti. Uno che ritiene la TIA un tassa di natura patrimoniale sottoposta alla giurisdizione tributaria e l’altro che la ritiene invece un corrispettivo, al quale legittimamente applicare l’IVA, sottoposto alla giurisdizione della giustizia ordinaria. “Sotto il profilo tecnico-giuridico, esiste una differenziazione fra tassa e tariffa. Con il termine tariffa ci si riferisce, nell’accezione propria della scienza economica, al prezzo, il corrispettivo di un contratto privatistico che l’utente trae da un pubblico servizio liberamente richiesto. Mentre, la tassa, seppure da un punto di vista economico si configura quale corrispettivo legato all’emanazione di un atto o di un provvedimento amministrativo ovvero alla prestazione di un servizio, dal punto di vista giuridico, invece, è un tributo, ossia un’obbligazione avente come presupposto la funzione di un servizio pubblico o l’emanazione di un atto amministrativo”[4].
Le ragioni della natura patrimoniale impositiva.
L’orientamento prevalente sembra riposare sulla natura tributaria della TIA. “Si tratta infatti di una prestazione interamente regolata dalla legge, che prescinde da qualsiasi accordo negoziale, a fronte di un servizio reso in privativa di legge dai comuni. Il presupposto di applicazione della tariffa, inoltre, non è costituito dalla produzione di rifiuti, bensì dalla occupazione di aree locali. Questo significa, che l’entrata non si pone in un nesso di corrispettività con il servizio svolto. La stessa possibilità concessa ai comuni di adottare degli indicatori presuntivi di produttività di rifiuti, rinviando, anche all’infinito, la commisurazione del prelievo alle effettive quantità conferite, attesta il notevole grado di astrattezza della tariffa”[5]. “A proposito della tassa si fa notare, infatti, come vi sono alcune attività e prestazioni a cui tutti i cittadini hanno diritto, indistintamente e al di fuori di controprestazioni, in quanto in tali casi si conta la funzione che è più peculiare dello Stato, ovvero quella di assicuratore di ultima istanza rispetto ad eventi capaci di compromettere il benessere dei cittadini”[6].
Sempre in questa prospettiva andrebbe approfondita la questione in ordine all’inapplicabilità di quelle modalità di riscossione mediante ruolo, che sono tipiche (anche se non esclusive) dei prelievi tributari. Infatti, “Nonostante gli evidenti caratteri pubblicistici si seguita a definire il prelievo come un’obbligazione civilistica da liquidare con fattura, senza che l’ente pubblico disponga di effettivi poteri di controllo e di sanzione salva la fattispecie di violazione del regolamento comunale”[7]. “In realtà, la natura giuridica del prelievo tariffario non è affatto pacifica, perché esso si configura come un’obbligazione coattiva avente per presupposto la funzione inderogabile dei servizi pubblici forniti in regime di monopolio, il che pone soggetti attivi e passivi all’interno di una logica di tipo pubblicistico, legata a doppio filo all’interesse generale costituito dalla tutela igienico-ambientale della realtà urbana. Detto questo, siamo quindi in presenza di un’imposizione tributaria, e non del corrispettivo di un contratto privatistico che l’utente stipulerebbe liberamente per godere di un servizio pubblico”[8].
La lettura testuale della normativa di riferimento è necessaria e, a tal fine, “A favore della tesi della natura tributaria della TIA, conduce il contenuto delle deleghe legislative (leggi n. 146/1994 e n. 42/1996), in forza delle quali è stato emanato il Dlgs n. 22/1997, che non hanno mai attribuito al governo la potestà di sopprimere la Tarsu, ovvero una radicale trasformazione della stessa, limitandosi a richiedere modifiche della disciplina vigente, al fine di recepire le direttive comunitarie emanate in materia. Ulteriori elementi a favore della qualificazione tributaria si rinvengono nella coattività del prelievo, nell’identità dei presupposti con la Tarsu, nell’assenza di un vero e proprio rapporto sinallagmatico fra l’ente locale e l’utente, visto che l’obbligazione è commisurata in base alla fruibilità del servizio (come per la Tarsu) e non in base all’uso effettivo”[9].
Da segnalare, inoltre, la circolare n. 10 del 13 marzo 2006 dell’Agenzia delle Entrate, nella quale si confermava la competenza della giurisdizione speciale tributaria a decidere in ordine alle controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere e specie, anche di nuova istituzione e senza necessità di espresse disposizioni al riguardo; in tal senso rientrano anche le controversie alla “debenza […] del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani…”.
Anche la giurisprudenza prevalente conferma tale indirizzo, sostenendo che “si tratta comunque di una tassa, essendo in essa presenti i requisiti che la caratterizzano, con un meccanismo di imposizione strutturato in tariffa e, pertanto, le relative controversie spettano alla giurisdizione delle commissioni tributarie”[10]. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 4895 dell’8/03/2006, ha attributo qualificazione tributaria alla TIA per l’analogia nell’identità dei presupposti della TARSU, (vista la riconducibilità alla coattività del prelievo e stante che le modalità della riscossione avvengono in base a ruolo, previsto dal DPR n. 602/73), ha chiarito che la TIA non rappresenta una nuova entrata comunale, ma solo una modifica della vecchia TARSU, ad oggi non soppressa. La sentenza è stata pronunciata a seguito della modifica del D.Lgs n. 546/1992 introdotta dal D.L. n. 203/2005 convertito nella legge n. 248/2005 che ha ricondotto le controversie in materia di TIA nell’ambito della giurisdizione tributaria.
La stessa Corte con sentenza n. 17526 del 9/08/2007 ha evidenziato altresì che gli atti con cui il gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani richiede al contribuente quanto da lui dovuto a titolo di tariffa d’igiene ambientale “hanno natura di atti amministrativi impositivi di un obbligo pecuniario di natura pubblicistica, perciò sottoposto dal legislatore alla giurisdizione del giudice tributario”. La stessa sentenza così recita: “Il giudizio circa una pubblica pretesa costituisce elemento caratterizzante del contenzioso tributario (ordinanza n. 8956 del 16 aprile 2007 delle S.U.). E quando il legislatore colloca un’entrata all’interno del sistema processuale tributario, è da presumere che – in ossequio all’art. 102 Cost., – abbia ravvisato il carattere tributario della pretesa stessa (o comunque una stretta connessione ed assimilabilità della pretesa alla materia tributaria)”. Dello stesso avviso è la Commissione Tributaria Provinciale di Enna che “ritiene che, attesa la natura tributaria della TIA, l’imponibile richiesto non andava assoggettato ad IVA perché diversamente si verifica una illegittima duplice imposizione rappresentata, da un lato, dal pagamento della tariffa e, dall’altro, dal pagamento dell’IVA”[11].
Nei giorni scorsi, il Consiglio di Giustizia Amministrativa, sconfessando il Giudice di primo grado, “reputa di dover ricondurre la tariffa in discorso al genus delle prestazioni patrimoniali imposte, perché ad essa gli amministrati non hanno modo di sottrarsi: si tratta dunque, almeno lato sensu, di un (con-) tributo”[12].
In sostanza, la presenza di un autonomo prelievo tributario avulso dalla tariffa tradizionale basata sul contratto d’utenza e del tutto sganciato dal sistema del servizio integrato di raccolta e smaltimento dei rifiuti giustifica l’uso della tassa per fini ambientali, diretta a far contribuire anche colui che non utilizza il servizio alla spesa pubblica necessaria per la gestione del ciclo dei rifiuti.
Le ragioni della natura patrimoniale extratributaria.
Secondo tale orientamento la tariffa d’igiene ambientale costituisce il corrispettivo di un servizio pubblico e, pertanto, va inquadrato nell’ambito di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive. A compendio appare utile ricordare il D.L. 328/1997, il quale nel modificare la tabella A, allegata al DPR n. 633 del 26/10/1972, stabilisce l’assoggettamento all’aliquota dell’IVA del 10% delle prestazioni di gestione, stoccaggio e deposito temporaneo, previste dall’art. 6, comma 1, lettere d), l) e m), del decreto legislativo 5/02/1997, n. 22, di rifiuti urbani di cui all’art. 7, comma 2, e dei rifiuti speciali di cui all’art. 7, comma 3, lettera g), dello stesso decreto. Il legislatore sembra convinto nel continuare a considerare la TIA una tariffa, tanto che, in sede di conversione del Dl n. 112/2008, ha confermato il blocco dei tributi per il triennio 2009-2011, introducendo una deroga per la TARSU, senza però citare la TIA. “Si tratta evidentemente di una tendenza a considerare la nuova tariffa un’entrata extratributaria, che peraltro trova ulteriore conferma nel certificato del conto bilancio 2007, approvato dal ministero dell’Interno l’8 agosto scorso, che colloca la TIA nel titolo III, <<entrate extratributarie>> e non nel Titolo I, <<entrate tributarie>>”[13]. Il Ministero si pone così in linea con la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 250/2008 che, rispetto alla precedente risoluzione del marzo 2006, chiarisce il proprio orientamento in merito all’applicabilità dell’IVA, sul presupposto che la TIA è un <<corrispettivo>>, cioè un’entrata <<patrimoniale extratributaria>>.
Per la Corte di Cassazione “è pacifico che la prestazione pecuniaria imposta all’Istituto Comprensivo statale n. 1, utente del servizio di raccolta dei rifiuti urbani, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 49 del decreto Ronchi non abbia natura tributaria… in quanto non vi è dubbio che l’obbligo di pagamento sorge da presupposti interamente preregolati dalla legge e da atti amministrativi generali, senza che siano riservati alla pubblica amministrazione spazi di discrezionalità circa la concreta individuazione dei soggetti obbligati, i presupposti oggettivi del corrispettivo dovuto”[14]. La Corte ha pertanto affermato la giurisdizione del giudice ordinario. Né a diversa conclusione è pervenuto il Tar Veneto che “nell’ accedere alla qualificazione della nuova tariffa di cui all’art. 49, comma 5, del D.lgs n. 22 del 1997 e succ. modd. e intt. come prezzo pubblico per il servizio e non già come tributo, afferma la sussistenza al riguardo della giurisdizione del giudice ordinario”[15].
Per il Tar di Catania, “…la Tariffa d’igiene ambientale, lungi dall’essere un tributo ovvero un imposta come erroneamente ipotizzato dall’Associazione ricorrente, rappresenta, invece, il corrispettivo da pagare per il servizio di gestione integrata dei rifiuti..”[16]Commissione Tributaria Provinciale di Pisa[17], secondo cui l’imponibile rappresenta una tariffa, e non una tassa, che deve essere pagato da chi produce rifiuti a fronte del servizio di raccolta, recupero e smaltimento. Pertanto, la copertura totale del costo del servizio a cui deve tendere la tariffa, in uno alle modalità di calcolo della stessa, rappresenta una differenza inequivocabile con la tassa.. Sulla stessa scia si registra anche un recente orientamento della
La qualificazione, anche ai fini dell’assoggettamento dell’imponibile all’IVA, della TIA quale corrispettivo, evidenzia ulteriormente la scelta del legislatore di non ricondurre la tariffa d’igiene ambientale al novero di quei <<diritti, canoni, contributi>> che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva comunitaria n. 2006/112/CE del Consiglio, del 28/11/2006) esclude in linea generale dall’assoggettamento a IVA, perché percepiti da enti pubblici <<per attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità>>.
Sotto l’aspetto della tutela da eventuali inadempimenti nel caso in cui la TIA va considerata un corrispettivo, l’utente ben potrebbe fare uso degli ordinari strumenti civilistici previsti per i contratti a prestazioni corrispettive (quali, ad esempio, l’azione di adempimento, l’eceptio inadimpleti contractus, l’azione di risoluzione per inadempimento ). Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: come fa l’utente ad attivare i citati meccanismi di tutela se non ha mai sottoscritto alcun contratto d’utenza?
Le implicazioni della natura pubblicistica dell’entrata
Atteso che le tariffe d’igiene ambientale “hanno natura di atti amministrativi impositivi di un obbligo pecuniario di natura pubblicistica, perciò sottoposto dal legislatore alla giurisdizione del giudice tributario”[18], e che l’art. 7 della legge n. 212 del 2000 si applica ai procedimenti tributari (oltre che dell’amministrazione finanziaria) dei concessionari della riscossione, in quanto soggetti privati cui compete l’esercizio di funzioni pubbliche, e che tali procedimenti comprendono sia quelli che il giudice a quo definisce come “procedimenti di massa” (che culminano, cioè, in provvedimenti di contenuto omogeneo o standardizzato nei confronti di innumerevoli destinatari), sia quelli di natura non discrezionale, non si può prescindere dal “l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, che, lungi dall’essere un inutile appesantimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. (si veda ora, l’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante << Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norma generali sull’azione amministrativa>>); del resto, fin da epoca precedente l’entrata in vigore della legge n. 212 del 2000, recante lo statuto dei diritti del contribuente, la Corte ha ritenuto l’applicabilità ai procedimenti tributari della legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 (ordinanza n. 117 del 2000, relativa all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento” [19].
L’obbligo di esternare la pretesa creditoria presuppone l’emissione di una cartella di pagamento che contenga tutti i requisiti essenziali dei provvedimenti impositivi. “Allorchè il provvedimento non rechi alcuna sottoscrizione esso non può che essere invalido, per assoluta impossibilità di individuare elementi sufficienti ad indicarne – con inequivoca precisione – l’autorità emanante”[20] . “Il nominativo del soggetto responsabile, assume, infatti, una ulteriore ed importante rilevanza, per ciò che attiene alla possibilità che l’atto stesso possa essere impugnato per querela di falso, essendo tale diritto, in mancanza di suddetto nominativo, precluso a priori al destinatario del verbale, il quale non ha la possibilità di identificare l’autore dell’atto di cui si potrebbe contestare la falsità. A ben vedere, inoltre, se si vuol considerare l’atto amministrativo redatto con sistemi meccanizzati, alla stessa stregua del documento informatico, la firma autografa, che garantisce, per ciò che ci riguarda, l’identificazione di un nominativo responsabile dell’atto, è da considerarsi in assoluto un dato giuridicamente rilevante. Dal 1° gennaio 2006, infatti, è entrato in vigore il Dlgs 7 marzo n. 82, il quale definisce il documento informatico <<la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti>>. Se si considerano tali gli atti notificati dalla P.A. e dai concessionari, redatti di fatto con sistemi informatizzati, spersonalizzati, allora solo la firma digitale, a ben vedere, potrebbe soddisfare il requisito legale della forma scritta, garantendone l’identificabilità dell’autore e l’integrità del documento” [21].
L’eventuale mancanza, quindi, di una motivazione nella cartella di pagamento della TIA, anche scarna, in ordine alla pretesa erariale, o la mancata individuazione del Responsabile del procedimento amministrativo ovvero la totale assenza di sottoscrizione dell’atto, può comportare, il vizio della citata violazione di legge e quello dell’eccesso di potere per assenza di motivazione, ciò in considerazione che si tratta di atti produttivi di conseguenze giuridiche, che inevitabilmente finiscono per incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente[22]. Più recentemente la C.t.p. di Lecce[23] e la C.t.p. di Bari[24] hanno emesso due decisioni identiche dove si stabilisce perentoriamente che sono nulle le cartelle di pagamento che non recano il nominativo del suddetto responsabile, poiché tale indicazione ha la funzione specifica di fornire all’utente ogni informazione utile sul provvedimento notificato.
Inoltre, la correttezza del procedimento di formazione della pretesa erariale esige il rispetto della sequenza ordinata degli atti, perché sia garantito “un efficace esercizio del diritto di difesa”[25] . Giova a tal fine evidenziare che “Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, la determinazione dell’ammontare delle tariffe per servizi resi a particolari categorie di utenti presuppone una chiara ed esauriente motivazione dell’onere sostenuto dal soggetto pubblico, che specifichi la misura dei costi trasferiti agli utenti, e ciò da una parte per verificare se effettivamente le somme pretese corrispondono al rimborso delle spese sostenute e, dall’altra, per evitare che esse si traducano in un sostanziale tributo privo dell’indispensabile supporto legislativo; laddove, nella specie, l’aver considerato motivato <<per relationem>> l’impugnato provvedimento con riferimento al Piano d’impresa presentato dalla Società ed approvato con la delibera giuntale, si risolve, in definitiva, in una petizione di principio”[26].
Il diritto vivente e l’intervento della Corte Costituzionale
Entrambi gli orientamenti condividono la natura pubblicistica dell’entrata, ma questo può non bastare per superare il rilievo di costituzionale che incombe sull’argomento se si considera che solo i tributi in senso stretto (e non anche le altre entrate di natura pubblicistica) possono essere attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie[27]. Da quanto precede deriva che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali. Tale illegittima attribuzione può derivare, direttamente, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, indirettamente, dall’erronea qualificazione di <<tributaria>> data dal legislatore (o dall’interprete) ad una particolare materia (come avviene ad esempio allorchè si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria e viceversa). “Per valutare la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 102, secondo comma, Cost., occorre accertare, perciò, se la controversia devoluta ai giudici tributari abbia o no effettiva natura tributaria. E, a tal fine, non si può prescindere dai criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie le entrate erariali; criteri che, indipendentemente dal nomen juris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante”[28]. Tuttavia, la Corte di Cassazione ritiene di poter scongiurare il citato pericolo d’incostituzionalità poiché i <<canoni>> a cui fa riferimento il nuovo art. 2 del D.Lgs n. 546/1992 “attengono tutti ad entrate che in precedenza rivestivano indiscussa natura tributaria (senza che acquisti rilievo l’impiego del termine tariffa, presente anche in materia tributaria in senso stretto)”[29].
In tale contesto la stessa Corte di Cassazione[30] sembra infatti andare oltre, stabilendo che “il legislatore può sia ricorrere ad una tassa sia utilizzare altri moduli estranei al regime fiscale in un’ottica più moderna di defiscalizzazione di taluni prelievi e della loro sostituzione con tariffe, canoni o prezzi pubblici”. La Corte distingue quindi “tra tassa, da una parte, che condivide la natura tributaria delle imposte, e, dall’altra, canoni (o tariffe, o diritti speciali) e prezzi pubblici, che rientrano nella categoria delle entrate patrimoniali pubbliche extratributarie; distinzione questa che si racchiude in una qualificazione formale prima ancora che contenutistica. E’ il legislatore che assegna ad una determinata prestazione del soggetto che fruisce il servizio la qualificazione di tassa – e così la assoggetta al regime dei <<tributi>> – ovvero di canone o prezzo pubblico; e costruisce alternativamente il nesso tra entrata pubblica ed erogazione del servizio vuoi in termini di mera paracommutatività (tassa), vuoi di commutatività o di vera e propria sinallagmaticità (entrate pubbliche extratributarie)”.
Ritorna quindi rilevante e d’attualità il nomen juris utilizzato dal legislatore, mitigato, nella sostanza, da chiari elementi che ereditano meccanismi analoghi a quelli della Tarsu. In pratica la suprema Corte trova la via di mezzo per giustificare la giurisdizione tributaria nel contesto di un’entrata che il legislatore si ostina a definire corrispettivo. Quest’ultimo orientamento risulta confermato dalla successive pronunce della Corte di Cassazione[31].
Proprio quando si pensava che la giurisprudenza di legittimità avesse trovato la soluzione mediana, arriva la decisione del Giudice delle leggi che dichiara incostituzionale l’art. 2 del D.Lgs n. 546/92. Nella sentenza n. 64 del 14/03/2008 la Corte Costituzionale afferma che non è “sufficiente, al fine di negare lo <<snaturamento>> della materia attribuita alla giurisdizione tributaria, affermare che le controversie relative ad alcuni particolari canoni, pur non avendo natura tributaria, sono legittimamente attribuite alla cognizione delle commissioni tributarie per la sola ragione che il fatto generatore delle suddette prestazioni patrimoniali è simile al presupposto che, in passato, avevano avuto alcuni tributi. (…). Al contrario, come già rilevato, il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l’attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un <<nuovo>> giudice speciale”.
Ritorna quindi nel cassetto la tesi della giusta considerazione da affidare al nomen juris utilizzato dal legislatore a vantaggio della sostanza del rapporto sottostante e dei criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale che, come già ricordato, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante. Da qui la conclusione secondo cui prima va individuata la natura patrimoniale dell’entrata e poi la giurisdizione, e non il contrario come aveva cercato di fare nel contesto del diritto vivente la Corte di Cassazione.
Conclusioni
Il tentativo del legislatore di mettere ordine in un dibattito senza fine tra giudici e giuristi è stato reso vano dall’intervento della Corte Costituzionale, ma i problemi rimangono tutti sul tappeto. Rimane infatti da chiarire l’esatta portata della natura patrimoniale della TIA e, di conseguenza, la giurisdizione competente a dirimere le connesse controversie.
In Sicilia il contenzioso tra utenti/contribuenti, comuni e società d’ambito sta assumendo connotazioni drammatiche e, nell’attesa che l’Assemblea Regionale Siciliana provveda a riformare l’intero sistema di gestione dei rifiuti, appare necessario ed urgente che ognuno faccia la propria parte a partire dalla Corte Costituzionale. Sulla questione va messa, ed in fretta, la parola fine così come, ad esempio, è già avvenuto in ordine al canone di depurazione per i servizi idrici. In tale occasione la Corte Costituzionale[32] ha sancito la natura non tributaria del canone di depurazione individuando anche gli strumenti di tutela giurisdizionale che l’utente ha a disposizione per fare valere le proprie ragioni in caso di controversia.
E’ pertanto necessario che in sede incidentale venga dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della normativa che esclude la giurisdizione tributaria per quelle entrate che non sono tali sostanzialmente ovvero della normativa che disciplina la TIA ma non gli strumenti di tutela per eventuali inadempimenti della Pubblica Amministrazione.
Massimo Greco
[1] Corte Costituzionale, sent. n. 37/2004.
[2] Enrico De Mita, “Le Regioni ignorano le lezioni della Corte”, Il Sole 24 Ore, 06/11/2005.
[3] Matteo Vagli e Federica Bartolini, “La tariffa di igiene ambientale tra evoluzione legislativa e posizioni giurisprudenziali”, Altalex, 30/10/2008.
[4] Maurizio Villani, componente del Consiglio dell’Unione Nazionale delle Camere degli Avvocati Tributaristi, in www.studiotributariovillani.it.
[5] Luigi Lovecchio, “La tariffa sui rifiuti ha natura tributaria”, Il Sole 24 Ore, 06/09/2007.
[6] Giuseppe Napoli e Salvatore Villani, “Tarsu riducibile senza il servizio”, Il Sole 24 Ore, 30/03/2008.
[7] Giampaolo de Paulis, “La Tariffa Ronchi”, L’Italia dei Comuni, luglio/agosto 2007.
[8] Carmine Mangone, “L’acceleratore di conoscenze su ambiente ed energia”.
[9] Angelo Buscema, “Tia: natura giuridica e giurisdizione”, Diritto.it, 24/07/2008.
[10] Cass. Sezioni Unite Civili – sent. 9/11 – 1/03/2001, e n. 3030 dell’1/03/2002; Commissione tributaria provinciale di Venezia, Sez. n. 5, Sent. N. 5 del 15/03/2004; Commissione tributaria provinciale di Treviso, Sez. V°, Sent. del 6/12/2004 n. 101; Tar Toscana, sez. I, sent. n. 800, 29/05/2007; Tar Palermo, sent. n. 1713, 2/07/2007.
[11] Commissione Tributaria Prov.le Enna, sentt. n. 49/01/2006; n. 25/02/2007; n. 243/01/2008.
[12] C.G.A. n. 48 del 09/02/2009.
[13] G.Deb, “Il canone <<perde>> la natura tributaria”, Il Sole 24Ore, 27/10/2008.
[14] Corte di Cass. Ordinanza n. 3274 del 15/02/2006.
[15] Tar Veneto sez. III°, sent. n. 2010, 09/05/2005.
[16] Tar Catania, sent. n. 52 del 04/01/2008.
[17] Comm. Trib. Prov. Pisa, sent. n. 259/04/08 del 30/12/2008.
[18] Corte Cass. sent. n. 17526 del 9/08/2007.
[19] Corte Cost., Ordinanza n. 377 del 9/11/2007.
[20] Consiglio di Stato, sez. V°, 19 aprile 2005, n. 1792.
[21] Plagenza Fabrizio, “Il nominativo del responsabile del procedimento nella procedura di riscossione dei tributi…”, Diritto.it, 06/12/2007.
[22] Comm Trib. Prov. Veneto, sent. 8 novembre 2006 n. 56; Comm Trib. Prov. Puglia sent. n. 77/07/2006.
[23] Comm Trib. Prov. Lecce sent. n. 517/2/07, relatore Cabra.
[24] Comm Trib. Prov Bari sent. n. 445/4/07, relatore Miccolis.
[25] Corte di Cass. sent. n. 16412 del 25/07/2007.
[26] Consiglio di Stato, sez. V°, sent. n. 7235 del 08/07/2003.
[27] Si vedano Corte Cost. sentt. n. 64/2008, n. 130/2008 e n. 269/2008.
[28] Corte Cost., sent. n. 64 del 14/03/2008.
[29] Corte di Cass. sent. n. 4895 del 08/03/2006.
[30] Corte di Cass. sent. n. 25551 del 07/12/2007.
[31] Corte di Cass. sentt. del 11/02/2008 e 27/03/2008.
[32] Corte Cost. sent. n. 335 del 08/10/2008.
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