Ai fini dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo meramente esemplificativo, un progetto di vita comune, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri.
I principi di diritto sono stati riaffermati dalla Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con l’ordinanza del 13 aprile 2018, n. 9178, mediante la quale ha accolto il ricorso e cassato con rinvio quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Milano.
La vicenda
La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che LUCREZIA propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, nei confronti di Tizio, Immobiliare Alfa S.r.l. e Compagnia di Assicurazioni S.p.a., per la cassazione della sentenza n. 46XX2013, depositata dalla Corte d’Appello di Milano, con la quale veniva confermato il rigetto della sua domanda di risarcimento danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta quale convivente del defunto sig. Caio in riferimento ai danni conseguenti alla morte di questi, che perdeva la vita precipitando nel vano ascensore dell’immobile di proprietà della Immobiliare Alfa, mentre erano in corso lavori di ristrutturazione.
Tanto perché a seguito della domanda giudiziale di Lucrezia, Il Tribunale di Como l’aveva rigettata affermando che mancasse la prova del rapporto di convivenza, in quanto le prove orali avevano dato esito contrastante, e dalle risultanze istruttorie emergeva che Caio risultava residente in Legnano al momento della sua morte, mentre Lucrezia abitava in altro comune.
A sua volta, la Corte d’Appello di Milano aveva rigettato l’appello, ritenendo che dal contesto probatorio non emergesse a sufficienza la prova dell’esistenza di una convivenza stabile tra Caio e Lucrezia, nonostante vi fossero elementi idonei a ritenere sussistente un rapporto affettivo e una relazione di coppia, ma non un legame caratterizzato da quella stabilità e continuità che legittimano il convivente di fatto ad agire per i danni da perdita del rapporto affettivo ed eventualmente per i danni patrimoniali conseguenti alla morte del convivente.
I motivi di ricorso
Per quanto è qui di interesse, la ricorrente con il primo motivo, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 Costituzione in riferimento alla qualificazione della fattispecie giuridica della famiglia di fatto, nonché la violazione dell’art. 2059 c.c., in riferimento al riconoscimento dei presupposti per il risarcimento in caso di lesione del rapporto familiare di fatto.
Sostiene la ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe rispettato la nozione di famiglia di fatto esistente nel diritto vivente, in cui all’elemento soggettivo dell’affectio si associa l’elemento oggettivo della stabile convivenza.
Segnala che, nella evoluzione giurisprudenziale, in ragione delle modifiche della vita sociale, si è recepito che, se è necessaria ai fini dell’accertamento dell’esistenza di una convivenza di fatto l’esternalizzazione della stabilità del legame affettivo, alla quale deve associarsi la condivisione di compiti ed obblighi, non necessariamente tale esternalizzazione può ravvisarsi esclusivamente in presenza della coabitazione.
Richiama in particolare Corte di Cassazione, n. 7128 del 2013, che ha affermato che non necessariamente la convivenza deve coincidere con la coabitazione e definisce la convivenza come “lo stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti“.
Sostiene che la Corte d’appello, nel valutare le istanze istruttorie, abbia errato non solo nella valutazione in fatto (svalutando l’importanza di indici assai significativi della esistenza di una relazione stabile), ma anche in diritto, laddove si è limitata a considerare la famiglia di fatto (rectius il rapporto di convivenza), come fondato imprescindibilmente sulla coabitazione, senza considerare altri importanti e concordanti elementi (l’esistenza di un conto corrente comune, la disponibilità in capo alla ricorrente delle agende lavorative del defunto, il fatto che i carabinieri si rivolsero a lei subito dopo l’incidente, indicandola a verbale come convivente del defunto) comprovanti l’esistenza di un rapporto stabile e duraturo che, anche nell’eventuale mancanza della coabitazione, possono ritenersi sicuri indici di un legame stabile, la cui perdita sia risarcibile.
La decisione
La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 9178/2018, con la quale ha ritenuto il motivo fondato ed ha accolto il ricorso e cassato quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Milano.
Sul punto controverso la Cassazione sottolinea che il primo errore in cui incorre la Corte territoriale non è un errore sulla valutazione degli elementi di prova raccolti, che naturalmente fa parte del giudizio di merito e non è rinnovabile in sede di legittimità.
E’ invece un errore di diritto sul metodo da utilizzare al fine della corretta valutazione del materiale probatorio, che deve essere in questa sede rilevato: acquisita una pluralità di elementi che costituiscono indici rilevanti – nella stessa affermazione e quindi considerazione del giudice di merito- in ordine alla configurabilità di una determinata situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti, essi non possono essere poi presi in considerazione atomisticamente, ma devono essere considerati nella loro unitarietà e nella loro interazione l’uno con l’altro.
La prova presuntiva (o indiziaria) esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli nel loro insieme e gli uni per mezzo degli altri.
È, pertanto, erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga, autonomamente, a dignità di prova (v. Corte di Cassazione, n. 7303 del 2012; v. anche recentemente Corte di Cassazione, n. 12022 del 2017; v. anche Corte di Cassazione, n. 5374 del 2017).
Il secondo errore, in diritto nel quale è incorsa la corte d’appello, ricade sulla nozione di convivenza di fatto giuridicamente rilevante e meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio.
La Corte d’appello, nel rigettare la domanda risarcitoria, pur formalmente richiamando la giurisprudenza della Corte che ha elaborato la nozione di convivenza di fatto, l’ha di fatto svuotata dall’interno, escludendo che vi fosse un supporto probatorio idoneo ad attestare le caratteristiche di continuità e stabilità della convivenza richieste dalla giurisprudenza di legittimità a fronte del fatto, cui attribuisce rilevanza dirimente, che la residenza del de cuius fosse rimasta fino al momento della morte in Legnano, ovvero in luogo diverso da quello di residenza di Lucrezia.
E’ noto che si riconosce al convivente di fatto il diritto, in caso di perdita del convivente, ad una uguale tutela rispetto al soggetto coniugato in caso di perdita del coniuge, e tuttavia che, per non estendere indefinitamente le maglie delle situazioni risarcibili fino a ricomprendervi legami labili e non sufficientemente stabilizzati e meritevoli di tutela, la Suprema Corte ha negli anni elaborato una nozione di famiglia di fatto, o di convivenza tutelabile, all’interno della quale all’elemento soggettivo della relazione affettiva stabile si accompagni l’elemento oggettivo della reciproca, spontanea assunzione di diritti ed obblighi.
Come la Corte ha avuto già modo di affermare, infatti, “Il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente “more uxorio” del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per fini anagrafici” (Corte di Cassazione, n. 23725 del 2008).
In altri casi si è affermato che “Il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale.” (Corte di Cassazione, n. 12278 del 2011).
Deve sottolinearsi che, nell’illustrazione degli elementi identificativi della convivenza di fatto, all’interno della giurisprudenza della Corte, se la coabitazione è stata finora indicata come un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, non è stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza.
Giova richiamare, in particolare, il principio di diritto affermato da Corte di Cassazione, n. 7128 del 2013, in base al quale integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 cod. civ. – giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell’art. 2 Cost. – il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione.
Deve aggiungersi che è anche necessario prendere atto del mutato assetto della società, collegato alle conseguenze di una prolungata crisi economica ma non originato soltanto da queste, dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato.
Non può non considerarsi infatti che:
-la scelta del luogo di abitazione talvolta non può essere conforme alle preferenze delle persone o alle loro scelte affettive ma può essere necessitata dalle circostanze economiche;
– la impossibilità dello Stato di mantenere tutte le provvidenze dello stato sociale porta talora gli individui a doversi attivare in supplenza del supporto assistenziale mancante, e a sostenere degli spostamenti o a scegliere il luogo di abitazione per accudire le persone del proprio nucleo familiare che ne abbiano bisogno, o comunque privilegiando le necessità di accudimento piuttosto che le esigenze della vita affettiva.
A ciò si aggiunga, come ulteriore componente di cambiamento del modo di vivere e di concepire sia i rapporti sociali in generale che le relazioni interpersonali, la maggiore facilità ed economicità sia dei contatti telefonici e a video che dei trasporti.
Tutti questi fattori di un cambiamento sociale che è ormai verificato nella società comportano che si instaurino e si mantengano rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato (non solo nelle famiglie di fatto ma, ugualmente, anche all’interno delle famiglie fondate sul matrimonio) e devono indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione. Sono tutte situazioni in cui può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia.
Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto o fondate sul matrimonio, si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partners è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte della settimana o del mese in un luogo diverso dall’altro.
Negare tutela a tutte queste molteplici situazioni vorrebbe dire perdere il contatto tra la necessità, esistente ed insopprimibile, di delimitare la sfera della risarcibilità alle situazioni giuridicamente meritevoli di tutela, e la necessità, di non inferiore dignità, di tutelare tutte le situazioni meritevoli di tutela senza trascurarne alcuna. Il dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della convivenza è quindi attualmente un dato recessivo.
Esso deve essere inteso come semplice indizio o elemento presuntivo della esistenza di una convivenza di fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l’esistenza di una convivenza.
La nozione di convivenza di fatto, intesa come un rapporto di fatto che si caratterizzi, oltre che per l’esistenza di una relazione affettiva consolidata, per la spontanea assunzione di diritti ed obblighi, tali da darle una stabilità assimilabile a quella coniugale, peraltro trova ora il suo supporto normativo nella legge n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco.
Principi di diritto
Conclusivamente, la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata e la causa rinviata per un nuovo esame alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio e si atterrà ai seguenti principi di diritto:
-si ha convivenza more uxorio, rilevante anche ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale:
-ai fini dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo meramente esemplificativo, un progetto di vita comune, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri.
Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento.
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