La corretta ripartizione dell’onere della prova nelle operazioni oggettivamente/soggettivamente inesistenti

Premessa

La questione, circa, la corretta ripartizione dell’onere probatorio, assume rilevanza in merito a quelle operazioni realizzate al solo scopo di evadere il pagamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Va, innanzitutto, premesso che una regolare fattura conforme ai requisiti ex lege richiesti, fa presumere la veridicità di quanto in essa rappresentato, costituendo titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione IVA, spettando poi all’Ufficio, a fronte della sua esibizione, desumere l’insussistenza delle condizioni richieste.

Aspetti generali del diritto alla detrazione Iva e l’emissione di fatture false quale schema tipico utilizzato nelle frodi c.d. “carosello”

L’articolo 19 del DPR n. 633/72 disciplina, in via generale, il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati, individuando un termine iniziale e un termine finale per il relativo esercizio, stabilendo che esso sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile (termine iniziale) ovvero può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto, precisando, altresì, che il diritto deve comunque essere esercitato alle condizioni esistenti al momento della sua nascita (termine finale).

In altre parole, alla registrazione della fattura segue il diritto alla detrazione della relativa imposta. Nella liquidazione periodica Iva, dall’Iva a debito addebitata per rivalsa al cliente, viene detratta Iva a credito pagata ai fornitori.

Al fine di poter esercitare il diritto alla detrazione Iva occorre la coesistenza di un duplice presupposto, uno di natura sostanziale, dato dall’effettuazione dell’operazione e, uno di natura formale, dato dal possesso di una valida fattura d’acquisto, così come previsto dalla Direttiva 2006/112/CE e ribadito dalla Circolare n. 1/E/2018 dell’Agenzia delle Entrate.

Nel caso di frodi Iva, lo schema tipico adottato dal contribuente, per sottrarre materia imponibile a tassazione, è dato dall’emissione di fatture che dal punto di vista formale/contenutistico rispondono ai requisiti stabiliti dalla legge ma che, tuttavia, a tale apparenza non corrisponde altrettanta veridicità; la falsità della fattura, a prescindere dalla sua regolarità formale, è sintomatica di operazioni che in realtà non sussistono.

L’inesistenza dell’operazione può essere sia oggettiva, allorquando le operazioni indicate in fattura non siano mai avvenute (la relativa prova ricade sull’A.F., per cui il contribuente sarà tenuto a fornire prova contraria) pertanto, essa non è altro che “mera espressione cartolare” di un’operazione mai avvenuta, oppure soggettiva, laddove le operazioni siano state concretamente poste in essere ma da soggetti diversi rispetto a quelli che risultano dalla fattura medesima, ossia l’operazione è effettivamente esistente ma la fattura è stata emessa da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o committente è stato realmente destinatario).

La legge sui reati tributari (D.lgs. 74/2000), all’articolo 2 (la cui rubrica è “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) punisce con la reclusione chiunque si avvalga dell’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti col solo scopo di evadere le imposte sul reddito o sul valore aggiunto. Pertanto, è necessaria la compresenza di un doppio elemento affinché si realizzi la fattispecie penalmente sanzionata, cioè un dolo specifico di evasione, per cui il reato può essere commesso da qualsiasi contribuente purché sia mosso dall’intenzione di evadere le imposte sul reddito o Iva corroborato da un elemento oggettivo dato dalle c.d. “operazioni inesistenti”, pertanto il contribuente procede alla registrazione di tali fatture o documenti nelle scritture contabili obbligatorie oppure vengono detenuti “a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria”(cui il 2° comma, art. 2, D.lgs. 74/2000).

Operazioni inesistenti e onere della prova tra giurisprudenza europea e nazionale

La ripartizione dell’onere della prova tra le parti, nel caso di operazioni inesistenti, è una querelle ancora aperta e dibattuta tra giurisprudenza europea ed interna.

La delicatezza della questione risiede nel fatto che costituendo il diritto alla detrazione un principio fondamentale nel sistema europeo, non sarebbe (lo stesso) comprimibile di natura.

La giurisprudenza nazionale sul punto dimostra d’essere in linea con quella europea: la Corte di Giustizia UE ha sottolineato la non comprimibilità del diritto alla detrazione IVA, quale uno dei principi regolatori dell’imposta, sottolineando come l’onere probatorio, nel caso di frodi c.d. “carosello”, gravi sull’Ufficio il quale è tenuto a dimostrare la “malafede del cessionario”, cioè dovrà provare la sussistenza di elementi oggettivi da cui scaturisca la consapevolezza (in capo al cessionario) di partecipare ad un’operazione fraudolenta.

Sempre la giurisprudenza europea, ha sottolineato che allorquando un’operazione venga considerata inesistente, l’A.F. è tenuta a dimostrare, alla luce di elementi oggettivi e sulla base dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato di appartenenza, che il soggetto sapeva o avrebbe dovuto sapere sulla base dell’ordinaria diligenza che l’operazione realizzata andava ad inserirsi in un complesso quadro di evasione dell’Iva (Corte di giustizia UE, 6 dicembre 2012, causa C-285/11).

Quindi, qualora l’Ufficio pretendesse di negare il diritto di un contribuente alla detrazione dell’IVA, nel caso di fatture relative ad operazioni inesistenti, lo stesso (Ufficio) dovrà in primis dimostrare che l’operazione commerciale è stata posta in essere tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura (nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti), avendo riguardo della conoscenza e/o presunta conoscibilità da parte del cessionario circa la fittizietà dell’operazione, in altri termini dovrà dimostrare la consapevole partecipazione (del contribuente) al disegno fraudolento realizzato dal cedente. Bisogna sottolineare come “l’Amministrazione possa assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni, quindi non necessariamente con prova certa ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purché dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza, consistenti nell’esposizione di elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente; in buona sostanza, elementi indiziari che, avuto riguardo alle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare della regolarità dell’operazione. In presenza di tali elementi indiziari, si riversa sul contribuente l’onere di provare di essersi trovato nella situazione di oggettiva inconoscibilità delle pregresse operazioni intercorse tra il cedente e i precedenti fornitori, ovvero, nonostante l’impiego della dovuta diligenza richiesta dalle specifiche modalità in cui si è svolta l’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione” (Cfr. Cass., civ., Sez. VI – 5 Ord., 13/02/2018, n. 3473).

Una volta assolto tale onere incombente in capo all’A.F., il contribuente dovrà dimostrare la propria buona fede, ossia la mancata consapevolezza di essere stato parte di un disegno fraudolento; occorre sottolineare che la regolarità formale delle scritture è condizione necessaria ma non sufficiente per dimostrare la buona fede dello stesso, essendo dati o circostanze facilmente falsificabili.

Considerazioni conclusive

In conclusione, la mera sussistenza di una fattispecie fraudolenta non potrebbe comportare ex se la perdita del diritto di detrazione previsto innanzitutto a livello Ue dalla “Direttiva Iva”, in quanto è necessario provare che il contribuente sapeva (o avrebbe dovuto sapere) di partecipare ad una operazione volta ad evadere le imposte.

In altre parole, l’Amministrazione finanziaria che contesti la c.d. “frode carosello” deve provare, anche per il tramite di presunzioni purché siano gravi, precise e concordanti, gli elementi di fatto che fanno capo al cedente (si tratta di quegli elementi probanti che dimostrino la sua natura di cartiera, l’inesistenza di una struttura operativa e il mancato pagamento dell’IVA) e la connivenza del cessionario, dimostrabile sulla base di elementi oggettivi che avrebbero indotto un normale operatore economico a sospettare dell’irregolarità dell’operazione, spettando solo successivamente al contribuente di assolvere il proprio onere probatorio dimostrando di aver concluso effettivamente l’operazione e di essersi trovato in uno status di oggettiva impossibilità di percepire il carattere fraudolento della medesima operazione, nonostante l’impiego dell’ordinaria diligenza; facendo uso della comune diligenza, il contribuente deve verificare, ossia provare, la regolarità sostanziale dell’operazione e non soltanto la regolarità formale della fattura (Cfr. Cass. Civ., Sez. V, sentenza n. 13803 del 2014). Neppure la constatazione tra la corrispondenza del prezzo fatturato a quello corrente di mercato è sufficiente al fine di provare la buona fede soggettiva intesa quale non conoscibilità da parte del cessionario dell’operazione fraudolenta (Cfr. Cass. Civ. Ord., Sez. VI, n. 12615 del 2018).

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Andrea Agnese | 2017 Maggioli Editore

Giurisprudenza di riferimento:

Corte di giustizia UE, 6 dicembre 2012, causa C-285/11

Cass., civ., Sez. VI – 5 Ord., 13/02/2018, n. 3473

Cass. Civ., Sez. V, sentenza n. 13803 del 2014

Cass. Civ. Ord., Sez. VI, n. 12615 del 2018

 

 

Raffaella Ascolese

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