Premessa
La corruzione ammnistrativa è un fenomeno che coinvolge le pubbliche amministrazioni quindi i rapporti tra le persone, in qualità di cittadini, e gli uffici pubblici.
Questo accade quando il potere pubblico viene sviato dalla sua naturale esplicazione tradendo i valori della c.d. etica pubblica, che si individuano in regole dell’agire umano generalmente condivise e spesso riconosciute in norme cogenti.
Il corretto esercizio del potere pubblico, infatti, si esplica nel rispetto del principio di legalità ma anche in relazione alla rispondenza a valori etici, morali, sociali e giuridici[1].
Questi valori ispirano l’agire corretto nell’ambito della Pubblica Amministrazione trasposto dalla Carta Costituzionale nella locuzione di “buon andamento”[2].
L’etica pubblica definisce il corretto agire dei pubblici agenti al servizio della collettività, in tutta la sua pienezza, dal rispetto della legge sino alla soddisfazione ultima degli interessi protetti, della legge sino alla soddisfazione ultima degli interessi protetti delle giuste aspirazioni dei cittadini utenti, nel rispetto della loro dignità.
I costi economici della corruzione sono considerevoli tanto da determinare una grave predita di competitività del Paese e pericolose conseguenze sul bilancio dello Stato.
La corruzione è così dilagante da minare le fondamenta stesse del nostro sistema democratico. Il legislatore ha ravvisato l’urgenza di un’analisi conoscitiva delle criticità e degli elementi che contribuiscono a determinare tale manifestazione patologica delle attività delle pubbliche amministrazioni, per capirne le cause e tentare di porre rimedi.
È proprio sull’individuazione e sulla valorizzazione di regole etiche che il legislatore ha puntato nell’attività di riforma della normativa anticorruzione adottata partire dalla legge 6 novembre 2012, n. 190.
Le riforme nascono, infatti, dalla consapevolezza che, a fronte di un fenomeno poliedrico, anche gli strumenti da adottare devono essere differenti: la corruzione penalmente rilevante si combatte principalmente con la repressione, cioè l’irrogazione di sanzioni: viceversa, le forme di malcostume rilevanti per il diritto amministrativo si combattono con meccanismi organizzativi e procedurali, agendo sui controlli amministrativi e sulla trasparenza, puntando sulla deontologia e sulla formazione del personale.
Il legislatore ha posto l’etica professionale al centro della missione amministrativa e ha imposto alla stessa una serie di comportamenti al fine di garantire qualità nell’erogazione dei servizi e dar conto della propria attività, sia in termini di scelta che in termini di spesa pubblica.
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La normativa anticorruzione del 2012 e i decreti attuativi e successive modifiche
La legge 6 novembre 2012, n. 190 è la prima legge organica contro la corruzione.
Le misure adottate da questo provvedimento muovono in diverse direzioni e possono distinguersi in:
- misure in materia di reati penali, che hanno ampliato la portata punitiva degli artt. 318 e ss. c.p., facendovi rientrare anche fattispecie che la previgente disciplina escludeva. Nello specifico sono state introdotte nuove fattispecie criminose come “corruzione per l’esercizio della funzione in sostituzione della previgente “corruzione d’ufficio”[3] e il nuovo reato di “traffico di influenze illecite” ex art 346 c.p. con l’intento di punire esclusivamente condotte prodromiche ai casi di corruzione propria ed impropria. È stata effettuata anche una divisione del delitto di concussione[4] tra l’art. 317 c.p. e l’art. 319 quater c.p… La riforma, dunque, è intervenuta anche sul fronte della repressione penale della corruzione;
- misure ordinamentali e di organizzazione amministrativa, finalizzate a delineare un nuovo sistema di vigilanza e prevenzione in materia di corruzione, che faceva perno sul ruolo della CIVIT e del Dipartimento della funzione pubblica. Invero, sebbene si trattasse di organismi preesistenti, la riforma ne ha ridisegnato i contorni, attribuendo poteri nuovi e più incisivi. Le funzioni e i poteri di tali organismi sono stati in seguito[5] ampliati e trasferiti in capo alla nuova Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), di cui si parlerà più approfonditamente in seguito. Ma non solo, l’organizzazione delle amministrazioni è stata arricchita dall’introduzione di nuove figure, prima tra tutte, quella del Responsabile per la corruzione, che ciascuna amministrazione è tenuta ad individuare[6] tra i dirigenti amministrativi[7] di ruolo[8] di prima fascia. Tale figura è strettamente funzionale all’introduzione dei Piani di prevenzione della corruzione: le sue funzioni, infatti, sono rivolte principalmente a sostenere e guidare il processo di formulazione ed adozione del piano di prevenzione della corruzione e a verificarne l’attuazione. Il responsabile per la corruzione ha anche il compito promuovere corsi di formazione e aggiornamento del personale, nonché il compito di verificare l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione;
- misure riguardanti l’attività amministrativa, che si è arricchita di nuovi poteri-doveri finalizzati alla prevenzione del fenomeno corruttivo. La riforma ha infatti introdotto uno strumento di pianificazione a cascata, che si compone di un piano nazionale anticorruzione, adottato di concerto da CIVIT e Dipartimento della funzione pubblica, e di piani triennali attuativi predisposti dalle singole amministrazioni.
A livello statale, la formazione del Piano nazionale anticorruzione è oggi attribuita all’ANAC, che lo predispone e lo approva sulla base degli indirizzi forniti dal Comitato interministeriale per la prevenzione e il contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione. Il Piano ha lo scopo principale di individuare le linee guida per indirizzare le pubbliche amministrazioni nella predisposizione dei rispettivi piani triennali. A livello decentrato, gli organi di indirizzo politico delle amministrazioni pubbliche, su impulso dei responsabili per la prevenzione della corruzione, adottano il Piano triennale per la prevenzione della corruzione e lo trasmettono all’autorità nazionale, che opera un vaglio in termini di adeguatezza ed efficacia delle misure ivi predisposte. Tale pianificazione, infatti, deve contenere una puntuale valutazione delle possibili esposizioni dei propri uffici a fenomeni corruttivi, l’indicazione delle misure adottate per prevenirli e i tempi di attuazione delle stesse; infine, il piano deve delineare dei puntuali meccanismi di monitoraggio e controllo sull’intera attività espletata;
- misure riguardanti il personale e la dirigenza, sottoposti ad un nuovo e più attento sistema di incompatibilità. La normativa, se da un lato vuole scongiurare il pericolo di conflitti di interesse nell’attribuzione di incarichi, dall’altro è attenta a tutelare le esigenze di contenimento della spesa pubblica e vuole quindi evitare la inutile duplicazione di incarichi.
In un unico testo normativo, dunque, vengono previste congiuntamente misure penali che modificano i reati di corruzione e concussione e misure di diritto amministrativo.
A seguito della legge n.190/2012, il governo ha poi adottato tre decreti legislativi attuativi: il d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, avente ad oggetto la questione dell’incandidabilità a cariche elettive, il decreto legislativo 24 marzo 2013, n. 33[9], specificamente dedicato alla trasparenza amministrativa, individuata quale primo e principale strumento preventivo contro fenomeni corruttivi (modificato dal d.lgs. 97/2016[10]), e il decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39[11] sulla ineleggibilità e incompatibilità a cariche amministrative per coloro che subiscono condanne, anche non definitive, per reati contro le amministrazioni pubbliche[12]. Inoltre con d.p.r. n. 62/2013 è stato approvato il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
La novità principale della riforma sta nell’aver introdotto un sistema generale, organico e diversificato di misure di prevenzione, che involge tutte le sfere dell’agire pubblico: dai principi generali a disposizioni specifiche dedicate ad alcune categorie di soggetti. Viceversa, come si è detto, prima del 2012 la corruzione era sanzionata quasi esclusivamente come reato nel Codice penale, ma non vi erano serie misure di contrasto per prevenire la corruzione nell’esercizio dell’attività amministrativa, né tantomeno era mai stato predisposto un apparato amministrativo ad hoc.
In altri termini, la riforma ha operato un vero e proprio cambio di rotta riguardante le politiche messe in atto per contrastare il fenomeno corruttivo; con la legge n. 190/2012, infatti, si assiste ad una evoluzione degli strumenti giuridici di lotta alla corruzione, attraverso il netto passaggio da un modello basato essenzialmente sulla predisposizione di figure repressive di carattere penale, che sanzionano a posteriori le condotte corruttive, ad un assetto normativo che attraverso l’utilizzazione degli strumenti tipici del diritto amministrativo, volti a disincentivare, in primis, il malcostume politico e amministrativo nella gestione dei pubblici poteri.
Il primo passo compiuto in questa direzione è stato efficacemente individuato nella politica volta a rafforzare la pregnanza del principio di trasparenza, attuandolo attraverso gli strumenti della pubblicità – individuando in modo specifico i soggetti che ne sono responsabili e le conseguenze per il mancato adempimento a tali obblighi – e dell’accesso agli atti, che viene svincolato da qualsiasi interesse qualificato.
Ancora, la riforma ha contribuito a delineare una nuova fisionomia del fenomeno corruttivo, svincolata dalle figure di reato e riconducibile ad una nozione amministrativistica, più ampia e idonea a inglobare fattispecie di malcostume di vario genere.
La nozione amministrativistica di corruzione che si afferma con la legge n. 190, infatti, è sicuramente diversa da quella penalistica, in quanto rinvia non solo a condotte penalmente rilevanti, ma anche a condotte che sono fonte di responsabilità di altro tipo o non espongono ad alcuna sanzione, ma possono ugualmente generare situazioni di illegittimità e sono considerate comunque con sfavore dall’ordinamento giuridico. In altri termini, i fatti di corruzione non costituiscono solo singoli episodi criminosi, né possono considerarsi il risultato del fallimento di politiche settoriali, ma derivano spesso da tendenze comuni e disfunzioni frequenti, che richiedono interventi di carattere strutturale e generale.
Il legislatore ha preso atto del fatto che la corruzione, intesa in questa accezione così ampia, rappresenta un fenomeno multiforme che, al contempo, segue logiche e modelli che si ripetono. Pertanto, la sua prevenzione richiede una strategia articolata e duttile, che sia in grado di programmare l’elaborazione delle misure più adeguate e di attivare efficaci meccanismi di controllo. Il legislatore ha scelto di valorizzare questi aspetti, consapevole che lo svolgimento procedimenti decisionali trasparenti, o più nello specifico, di una corretta applicazione delle procedure di gara possono costituire già a monte una barriera a pratiche corruttive. Parallelamente, la riforma ha individuato un sistema sanzionatorio proporzionato al disvalore riconosciuto alle pratiche legate al malcostume amministrativo, qualora tali comportamenti non siano idonei a configurare ipotesi di reato. Sono stati predisposti, dunque, strumenti sanzionatori tipici del diritto amministrativo, dalle sanzioni disciplinari alla responsabilità erariale, che risultano parimenti dotati di efficacia dissuasiva, atteso che, sovente, colpiscono la sfera patrimoniale dei destinatari.
Con legge n. 69/2015 del 27/05/2015 contenente “ Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio” il Parlamento italiano è tornato sulla disciplina penale della corruzione pubblica e fattispecie contigue, con l’intendo di rafforzare ulteriormente il sistema repressivo delle patologie corruttive, avvertite nel nostro Paese come sempre più dilaganti e corrosive del tessuto economico e politico- democratico[13]. L’impatto della legge n. 69 sulla formulazione tecnica dei reati contro la P.A. sottolinea il reingresso dell’incaricato di un pubblico servizio tra i soggetti attivi del delitto di concussione. Di ben maggiore spessore è, invece, la sezione della novella legislativa concernente lo statuto sanzionatorio delle norme penali anticorruzione.
In quest’ambito , si intrecciano tre direttrici politico- criminali: l’aggravio cospicuo delle pene; l’introduzione di una nuova misura premiale volta ad incentivare la collaborazione post factum di corrotti e corruttori; una serie di disposizioni sostanziali e processuali, rivolte al recupero coattivo delle utilitates indebitamente percepite dai pubblici agenti. L’intervento riformatore del 2015 incide in vario modo sulla disciplina dei rati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Anzitutto, le pene edittali comminate per i delitti di peculato ordinario, corruzione, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità sono sensibilmente aumentate. La sfera d’incidenza soggettiva del delitto di concussione torna, opportunamente , a comprendere anche l’incaricato di un pubblico servizio. Di particolare interesse è, poi la nuova attenuante speciale, consistente nel “ravvedimento operoso” del reo che collabori o eviti conseguenze ulteriori della propria condotta delittuosa. La rimozione di quanto il pubblico agente abbia indebitamente tratto dalla commissione dei principali delitti contro la P.A., diviene il fil rouge che congiunge l’inedita sanzione pecuniaria etichettata come “riparatoria£ (art. 322 quater) alle modifiche concernente i contenuti positivi della sospensione condizionale della pena (comma 4 dell’art. 165 c.p.) e il rito del patteggiamento.
Ultima in ordine di tempo è la legge n. 3/2019[14] del 9/01/2019 contenente: “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”.
Nonostante la riforma riguardi – almeno a giudicare dalla “copertina” (rectius, rubrica) e dal fatto che le modifiche in materia di prescrizione sono un’aggiunta sopravvenuta a quella che sarebbe (o meglio, aspira ad essere) una legislazione riformatrice del settore dei reati contro la pubblica amministrazione che si pone l’ambizioso obiettivo di incidere significativamente sul dilagante fenomeno corruttivo e di mercimonio delle pubbliche funzioni e di sradicarlo dalla vita pubblica italiana (“spazzacorrotti”)– i reati contro la P.A., occorre riservare la trattazione alle modifiche in materia di prescrizione dei reati[15].
La Legge n° 3/2019 ha modificato, notevolmente, l’istituto sostanziale della prescrizione (art. 157 c.p.), previsto – come è noto – dal nostro ordinamento quale causa di estinzione del reato, qualora lo Stato non eserciti (o non riesca ad esercitare) la propria pretesa punitiva nei confronti del reo concludendo il procedimento penale in un tempo ragionevole, previsto ed imposto (in via preventiva) dalla legge, al fine di assicurare la ragionevole durata del processo stesso (art. 111 Cost.). a prima modifica apportata dalla legge 3/2019 alla prescrizione riguarda l’art. 158 c.p., che ha visto sostituito il testo del primo comma dalla seguente disposizione: “Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione”.
Nulla quaestio (e nulla di strano) nel prevedere che per il reato consumato la prescrizione decorra dal momento della consumazione o per il reato tentato decorra dalla cessazione dell’attività colpevole (si sarebbe potuto dire dall’ultimo atto idoneo ex art. 56 c.p.), in quanto è stato semplicemente trasposto e riportato il vecchio testo della norma per legarlo alle successive modifiche apportate.
Viene equiparata ai fini del regime della decorrenza della prescrizione tra gli istituti della continuazione e della permanenza.
Il vecchio testo dell’art. 158 c.p. si riferiva, soltanto, alla determinazione del tempo necessario a prescrivere per il reato permanente (cioè quel reato che continua a produrre i suoi effetti nel tempo per effetto di una condotta cosciente e volontaria dell’agente), non menzionando affatto il reato continuato.
Questo in quanto il legislatore penale dell’epoca era ben consapevole della diversità tra i due istituti – permanenza e continuazione – ai fini della individuazione del tempo necessario a prescrivere. Il Legislatore “riformatore” invece ha assimilato, ad prescriptionem, permanenza e continuazione. Il fine è di “spostare in avanti” le lancette della prescrizione, in modo tale che essa cominci a decorrere per il reato continuato non dal primo atto (legato agli altri da un medesimo disegno criminoso) ma dall’ultimo di essi, come avviene per il reato permanente.
La modifica più importante – in materia di prescrizione – è però costituita dall’art. 159, comma 2, c.p., secondo cui: “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto penale di condanna”.
Il rafforzamento del contrasto dei reati contro la P.A. si articola in una serie di misure volte a inasprire le pene principali e accessorie per i reati di corruzione, rendere più efficaci le indagini preliminari e limitare l’accesso dei condannati ai benefici carcerari.
Sono anche aumentate le pene accessorie in caso di condanna per reati contro la P.A.:
- l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione e l’interdizione dai pubblici uffici divengono perpetue in caso di condanna superiore a 2 anni di reclusione (c.d. “Daspo per i corrotti”);
- la riabilitazione non produce effetti sulle pene accessorie perpetue: decorsi almeno 7 anni dalla riabilitazione, è prevista l’estinzione della pena accessoria perpetua quando il condannato abbia dato “prove effettive e costanti di buona condotta”;
- l’incapacità di contrattare con la P.A è introdotta anche come misura interdittiva, che si applica all’imputato prima della condanna.
Il d.l. 90/2014 la nascita dell’a.n.a.c. e i relativi poteri in materia di prevenzione della corruzione negli appalti
La riforma del 2014 nasce dall’esigenza di presidiare il settore degli appalti pubblici da condotte di corruzione, e si inserisce in un percorso per tappe in cui il legislatore italiano ha introdotto nuove misure ed ha centralizzato in un’unica autorità amministrativa, dotata di caratteristiche di indipendenza, l’attività di presidio dell’integrità della Pubblica Amministrazione, con poteri particolarmente incisivi anche in materia di appalti.
La costituzione dell’Autorità è stata operata in adempimento agli obblighi internazionali derivanti dalla sottoscrizione della Convenzione delle ONU contro la corruzione[16] e dalla già richiamata Convenzione GRECO stipulata in seno al Consiglio d’Europa. La portata di questi obblighi pattizi è assai estesa: gli Stati parti contraenti sono infatti tenuti, conformemente ai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico, a elaborare, applicare e perseguire efficaci politiche di prevenzione; ad attuare e promuovere pratiche egualmente efficaci di prevenzione; a sottoporre il proprio sistema di prevenzione a valutazioni periodiche per valutarne, ancora una volta, l’efficacia e l’adeguatezza; a cooperare reciprocamente e con le Organizzazioni internazionali competenti nel settore, anche partecipando a progetti internazionali in materia. Orbene, l’A.N.AC. è direttamente coinvolta in tutte queste attività— nel rispetto di ruolo, funzioni e competenze attribuitile —, poiché le norme contenute nella pertinente disciplina fanno di essa l’istituzione principalmente responsabile in materia di prevenzione delle condotte di corruzione. Il decreto legge 24 giugno 2014. n. 90[17], in definitiva, pone le premesse per una svolta nell’organizzazione amministrativa della prevenzione della corruzione. nonostante l’ANAC nasca da organismi preesistenti, la riforma del 2014 che l’ha formalmente istituita rappresenta un momento di svolta, avendo conferito all’Autorità quei pieni poteri correlata alla necessaria autonomia, tanto da rendere tale organismo li vero fulcro del sistema anticorruttivo.
L’obiettivo del legislatore era garantire l’aumentare dell’efficienza e dell’efficacia degli interventi in materia di anticorruzione, facendo confluire nella nuova autorità anche le funzioni precedentemente attribuite all’AVCP, le competenze della CIVIT e talune funzioni prima attribuite al Dipartimento della funzione pubblica.
La riforma ha tracciato le linee direttrici di un nuovo impianto in tema di politica della prevenzione della corruzione e di trasparenza della Pubblica Amministrazione. Invero, già la l. 190 aveva superato il tradizionale approccio alla corruzione incentrato sulla repressione, ma non era riuscita nell’intento di superare le incertezze in ordine all’assetto organizzativo degli organismi deputati alla prevenzione del fenomeno corruttivo. La legge aveva infatti diviso le competenze tra la CIVIT e il Dipartimento della funzione pubblica, disegnando un assetto cd. bicefalo. Il sistema non si dimostrava del tutto efficace, atteso che le strutture avevano un assetto organizzativo differente, ma si trovavano ad operare sul medesimo terreno, fornendo risposte differenti e non sempre omogenee.
La riforma ha operato nel senso di eliminare la distinzione fra l’organo destinato a concorrere all’elaborazione delle politiche anticorruzione a livello internazionale e quello chiamato a coordinarne l’attuazione sul piano nazionale ed ha unificato le determinazioni fondamentali, anche in termini di pianificazione, in capo ad un unico soggetto.
Allo stesso, modo, la legge del 2014 ha sanato la frattura tra la funzione di elaborazione della strategia nazionale di prevenzione e coordinamento della sua attuazione e quella di controllo e vigilanza sull’effettiva applicazione ed efficacia delle misure adottate dalle amministrazioni.
Invero, l’ANAC non rappresenta la semplice sommatoria delle organizzazioni preesistenti, ma è un’istituzione nuova e diversa rispetto agli organismi in essa confluiti, le cui funzioni sono quelle che originariamente le norme attribuivano all’AVCP, cui si aggiungono le competenze della CIVIT e delle funzioni del tutto nuove, individuate dal citato d.l. n. 90/2014.
La nascita della nuova Autorità, a seguito delle inchieste della magistratura, ha permesso di focalizzare l’attenzione sulla mala gestione della cosa pubblica realizzata attraverso procedure di appalto illegittime Il Presidente dell’ANAC, infatti, si è occupato dell’analisi sugli affidamenti nella Capitale, consegnando alla Corte dei Conti una relazione ove evidenzia la sistematica e diffusa violazione delle norme e il ricorso costante e ingiustificato a procedure negoziate, aggiudicate in capo ad imprese e cooperative prive dei requisiti e proroghe ingiustificate.
Per fronteggiare la situazione di dilagante illegalità nella realizzazione di opere pubbliche di importanza strategica per la Nazione, il legislatore non ha ritenuto opportuno puntare, come già era avvenuto in passato sull’onda di fatti emergenziali, sul potenziamento dell’impianto repressivo penale, ma ha tentato di innestare, nel complessivo sistema istituzionale, alcune novità idonee ad esplicare i propri effetti sul lungo periodo, attraverso il rafforzamento dell’impianto preventivo anticorruzione.
La nuova Autorità è nata, quindi, con l’obiettivo, manifesto ed ambizioso, di costituire un presidio a tutela della legalità e della trasparenza.
Alla stessa è stata attribuita una missione istituzionale più ampia di quella pensata dal legislatore del 2012. Missione che può essere ora individuata nella prevenzione e nel contrasto alla corruzione in tutti gli ambiti dell’attività amministrativa, attraverso il controllo sull’applicazione della normativa anticorruzione, sul conferimento degli incarichi pubblici, sulla trasparenza e sull’affidamento ed esecuzione dei contratti pubblici.
In definitiva, con la legge di conversione 11 agosto 2014, n. 114, si è intervenuti a raffinare il disegno di un’Autorità posta a generale e diffuso presidio dell’integrità della Pubblica Amministrazione, provvedendo a far confluire nell’A.N.AC. le risorse di persone e le competenze dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici: il legislatore nazionale ha, tra l’altro, posto in capo all’Autorità Nazionale Anticorruzione tutti i poteri necessari a contrastare in via preventiva il fenomeno della corruzione negli appalti pubblici, conferendo alla stessa un potere d’intervento più ampio e integrato per quanto concerne le funzioni finalizzate ad assicurare un’azione coordinata dell’attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione, attribuendo dunque a un unico soggetto tutti i compiti di vigilanza sulla correttezza delle procedure di affidamento delle opere pubbliche e di accertamento che dall’esecuzione dei contratti di appalto non derivi alcun pregiudizio per il pubblico erario.
a) Il piano di riordino
Nel decreto legge vi sono quattro disposizioni (19, 30, 32 e 37) che si riferiscono specificamente all’ANAC.
In particolare, l’art. 19 del decreto che prevede la soppressione dell’AVCP e il trasferimento dei poteri di quest’ultima in capo all’ANAC.
Tale trasformazione, per rendersi efficace, necessita, secondo la norma citata, della predisposizione di un piano di riordino strutturale, comprendente disposizioni relative alla razionalizzazione della spesa.
La prima risposta al dettato normativo, stante la complessità del lavoro di riorganizzazione, è giunta il giorno successivo all’entrata in vigore del decreto; con la pubblicazione di un atto descrittivo del modus operandi dell’Autorità, nelle more dell’approvazione del piano di riordino. La delibera (n. 102 del 26 giugno 2014) stabiliva che fino all’adozione di specifichi atti organizzativi, l’Autorità avrebbe agito tenendo separate le gestioni delle precedenti Autorità.
L’art. 19 conteneva delle indicazioni in ordine alle linee da seguire e agli obiettivi da raggiungere nell’opera di riorganizzazione e fusione delle due strutture. In particolare la norma prevedeva che il Piano doveva necessariamente definire: le modalità di trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali, necessarie per lo svolgimento delle funzioni cui l’Autorità è preposta, facendo confluisce in un unico ruolo i dipendenti di ANAC e AVCP; la riduzione non inferiore al venti per cento del trattamento economico accessorio del personale dipendente, inclusi i dirigenti; la riduzione delle spese di funzionamento non inferiore al venti per cento.
Il piano, secondo la norma citata, doveva essere presentato al Presidente del Consiglio dei Ministri, a cura del Presidente della nuova autorità entro e non oltre il 31 dicembre 2014.
Nelle intenzioni del legislatore, dunque, la riorganizzazione strutturale e organizzativa dell’organismo, cui venivano affidate numerose funzioni prima sconosciute, doveva essere accompagnata da una significativa spending review, attraverso la creazione di un unico soggetto istituzionale altamente strutturato e specializzato e, al contempo, dotato di competenze tecniche e organizzative idonee a raggiungere gli scopi istituzionali
A ben vedere, infatti, il piano non è chiamato a svolgere una mera funzione di “riordino” ma deve consentire la nascita di una nuova Autorità, operazione ben diversa e più complessa rispetto alla mera incorporazione dei due organismi preesistenti.
La complessità della riorganizzazione non è solo strutturale, ma anche e soprattutto funzionale, atteso che l’AVCP e l’ANAC erano titolari di poteri e compiti diversi e che la riforma ne ha aggiunti degli altri, relativi alla nuova funzione istituzionale di Autorità preposta alla lotta alla corruzione.
Il Piano, dunque, ha la funzione di delineare le complessive coordinate ordinamentali della nuova ANAC e non può essere considerato meramente ricognitivo delle disposizioni del passato; piuttosto è un provvedimento che si muove, in una logica di delegificazione, con una funzione parzialmente innovativa, che consente anche di ritenere abrogate le norme incompatibili con il nuovo assetto normativo. Il legislatore, infatti, nell’art. 19 comma 3, si limita a tracciare la cornice entro cui il Presidente dell’ANAC, in ottemperanza al potere monocratico riconosciutogli dalla stessa norma, dovrà concretamente operare.
L’analisi della struttura organizzativa della vecchia AVCP aveva messo in evidenza un’organizzazione molto gerarchizzata, con un numero di dirigenti eccessivo rispetto alle funzioni istituzionali e al numero complessivo di personale. L’AVCP risultava così una struttura inefficiente, che andava riformata anche in termini di contenimento della spesa.
Nel Piano, infatti, si delineano le caratteristiche e le funzioni della nuova Autorità che, nello specifico, è preposta a:
- delineare, integrando e innovando competenze e funzioni, un nuovo modello di governance e di organizzazione costruendo una rinnovata identità istituzionale, la cui azione è improntata ai parametri dell’efficienza e dell’efficacie, sia nella regolazione che nella vigilanza;
- ridurre le spese di funzionamento “con atti di ingegneria organizzativa”, evitando tagli lineari, poco funzionali al cambiamento, ed apportando, viceversa, una riorganizzazione strutturale con semplificazione delle mansioni ed eliminazione di sprechi e duplicazione di incarichi;
- definire il nuovo ordinamento del personale e la dotazione, passando per una sperimentazione organizzativa, coinvolgendo nelle scelte il personale medesimo e le organizzazioni sindacali, al fine di testare il modello e conoscere il fabbisogno concreto di professionalità e competenze necessarie per realizzare la missione istituzionale;
Le azioni poste in essere, in tal senso, hanno avuto una funzione propedeutica all’individuazione di un nuovo ordinamento del personale con una dotazione organica ad hoc.
Il piano è stato definitivamente approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° febbraio 2016[18].
L’art. 22 del d.l. 90/2014, inserisce espressamente l’ANAC nel novero delle autorità indipendenti.
La caratterista dell’indipendenza dall’esecutivo costituisce, infatti, un presupposto essenziale della natura e del corretto funzionamento dell’Autorità e dello stesso modello anti-corruzione. L’indipendenza va riscontrata in tutti i profili che interessano il funzionamento dell’organo e le finalità cui esso è preposto: le modalità di selezione dei componenti, i soggetti titolati alla nomina, l’esclusione di fattori condizionanti la durata in carica prevista per legge, l’attribuzione di adeguate risorse per lo svolgimento dei compiti.
Il disposto normativo, sebbene non provveda in via diretta a regolamentare struttura e organizzazione della nuova Autorità, è parimenti di primaria importanza perché, assimilandola testualmente alle autorità amministrative indipendenti, fornisce una chiara volontà di indirizzo.
L’indipendenza, infatti, svincola l’Autorità dal perseguimento e dall’attuazione di uno stretto indirizzo politico-governativo, permettendole parallelamente di intervenire con autorevolezza anche nell’indirizzare lo stesso lavoro legislativo nell’attuazione di politiche di prevenzione prive di colore politico e finalizzate a rendere il sistema innovativo ed efficiente.
Tale caratteristica è correlata da una fitta struttura che regolamenta le modalità di raccordo e coordinamento con tutte le istituzioni e le pubbliche amministrazioni coinvolte nella lotta al fenomeno corruttivo.
L’autorità può infatti suggerire misure efficaci o valutare la qualità delle misure adottate in concreto dagli organi di governo, lavora di concerto con la Corte dei Conti in relazione ai procedimenti giudiziari per danno erariale ed è in costante collegamento con le singole amministrazioni, attraverso la figura del Responsabile dell’anticorruzione.
Le funzioni attribuite all’Autorità sono diverse.
In primo luogo, l’Autorità al pari delle altre autorità indipendenti conosciute dall’ordinamento italiano, è titolare di un potere di regolazione, sia a monte degli interventi legislativi che al momento della loro attuazione. L’ANAC, infatti, è chiamata ad integrare il disposto normativo attraverso la predisposizione di atti a contenuto essenzialmente regolatorio, che facilitano e forniscono dei parametri omogenei per assicurare l’efficacia e la corretta attuazione dello stesso disposto normativo.
Detta funzione, infatti, non è volta ad aggiungere ulteriori regole, ma a fornire, attraverso l’introduzione di regole flessibili, proporzionate e adattabili ai diversi contesti amministrativi, un contributo attivo all’intero sistema amministrativo, sempre nell’ottica di delineare soluzioni effettive ed efficaci per contrastare il fenomeno corruttivo.
In secondo luogo, l’A.N.AC., inoltre, è chiamata a svolge compiti di vigilanza, particolarmente stringenti nel settore degli appalti pubblici, che mirano alla predisposizione di interventi tempestivi e preventivi. A tale scopo sono preposti anche i poteri monocratici affidati al Presidente, che rappresentano la più importante novità nell’ambito delle autorità indipendenti.
All’A.N.AC. vengono attribuiti poteri di intervento che mirano, in primis, ad accertare l’esistenza di situazioni potenzialmente a rischio, al fine di dare tempestivamente ordini su atti e provvedimenti da assumere per contrastare specifiche situazioni di illegalità.
Il potere di intervento viene esercitato a seguito di segnalazioni e notizie provenienti dalle amministrazioni o dai singoli dipendenti. Il comma 5, infatti, prevede un obbligo in capo alle amministrazioni e agli avvocati di Stato di segnalare gli illeciti rilevati e qualsiasi violazione di disposizioni di legge o di regolamento o altre anomalie o irregolarità relative ai contratti pubblici.
La riforma, dunque, si è prefissata l’ambizioso obiettivo di imprimere una nuova visione della funzione di vigilanza, potenziando l’attività di controllo, anche in senso preventivo, e ciò per rispondere in maniera sempre più efficacie alle domande di maggiore trasparenza e di contrasto alla corruzione nel sistema di affidamento delle commesse pubbliche e nell’azione amministrativa in generale.
In definitiva, il modello predisposto dal d.l. 90 vede l’elaborazione di un’Autorità che fa da perno del sistema nazionale di prevenzione della corruzione e che è dotata di un ventaglio di funzioni che vanno dalla promozione e diffusione della cultura e della legalità laddove, in coerenza con quanto disposto dalla legge 190/2012 , il rispetto pieno e diffuso degli obblighi di trasparenza è il primo valido strumento di prevenzione e di lotta alla corruzione, fino alla predisposizione di un sistema sanzionatorio ad hoc.
Inoltre, il pieno riconoscimento del ruolo di Autorità nazionale anticorruzione rende oggi l’ANAC in grado di collaborare e interloquire con tutte le organizzazioni internazionali di lotta alla corruzione e con le relative autorità che, attraverso l’elaborazione di soluzioni organizzative diversificate, si occupano di prevenzione della corruzione in altri Paesi.
In via generale, si può affermare che con il d.l. n. 90 l’ANAC trova nell’ordinamento una posizione più chiara, perché essa diviene l’Autorità nazionale cui tutto il Paese può guardare come soggetto titolare in proprio di funzioni decisive per prevenire la corruzione, nell’esercizio di funzioni che in gran parte sono concentrate nell’Autorità.
Dunque, tenendo conto della necessità di riunire in un unico soggetto tutti i compiti di vigilanza sulla correttezza delle procedure di affidamento delle opere pubbliche e di accertamento che dall’esecuzione dei contratti di appalto non derivi alcun pregiudizio per il pubblico erario, il legislatore pone in capo alla nuova Autorità nazionale anticorruzione tutti i poteri necessari a contrastare in via preventiva il grave fenomeno della corruzione, con particolare riferimento ai lavori pubblici, conferendo alla stessa un potere di intervento più ampio e integrato per quanto concerne le funzioni finalizzate ad assicurare un’azione coordinata dell’attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione.
Il d.l. n. 90 attribuisce all’ANAC, tra l’altro, il compito di “favorire la cultura della trasparenza e prevenire fenomeni di corruzione”.
In particolare, l’articolo 19, comma 15, trasferisce all’autorità le funzioni di cui era titolare il Dipartimento della funzione pubblica in materia di trasparenza.
In particolare, la norma rinvia all’art. 1, commi 4, 5 e 8 della legge n.190 prevede che (comma 4) spetta alla nuova Autorità, sulla base delle linee di indirizzo adottate dal Comitato interministeriale, coordinare l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale; promuovere e definire norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali; predisporre il Piano nazionale anticorruzione; definire modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla presente legge, secondo modalità che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata; definire criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni.
Il comma 5 attribuisce all’ANAC il compito di valutare l’efficacia dei piani di prevenzione della corruzione elaborati dalle amministrazioni centrali e elaborare, con le stesse, le procedure di selezione e formazione dei dipendenti che operano in settori esposti alla corruzione, prevedendo altresì un meccanismo di rotazione.
Ancora, l’art. 19 comma 15, sempre in relazione al compito di promuovere la trasparenza e la legalità, attribuisce all’ANAC i poteri di cui all’art. 48 del d.lgs. 33/2013. Ivi si prevede che l’Autorità “definisce criteri, modelli e schemi standard per l’organizzazione, la codificazione e la rappresentazione dei documenti, delle informazioni e dei dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente, nonché relativamente all’organizzazione della sezione Amministrazione trasparente”. In sostanza, l’Autorità è chiamata a assicurare il coordinamento informativo e informatico dei dati, per la soddisfazione delle esigenze di uniformità delle modalità di codifica e di rappresentazione delle informazioni e dei dati pubblici, della loro confrontabilità e della loro successiva rielaborazione; ed a definire, anche per specifici settori e tipologie di dati, i requisiti di qualità delle informazioni diffuse, individuando, in particolare, i necessari adeguamenti da parte di singole amministrazioni con propri regolamenti, le procedure di validazione, i controlli anche sostitutivi, le competenze professionali richieste per la gestione delle informazioni diffuse attraverso i siti istituzionali, nonché i meccanismi di garanzia e correzione attivabili su richiesta di chiunque vi abbia interesse[19]. Le linee così individuate sono poi adottate con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Garante per la protezione dei dati personali, la Conferenza Unificata, l’Agenzia Italia Digitale e l’ISTAT.
Tali strumenti sono funzionali a rendere effettiva la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. L’accessibilità si configura, da un lato, come obbligo posto in capo alle amministrazioni, oggetto di vigilanza da parte dell’ANAC, e dall’altro, come pieno diritto riconosciuto ai cittadini, nell’ottica della democrazia partecipata. A ben vedere, si tratta dell’aspirazione, piuttosto risalente[20], di rendere l’amministrazione come una “casa dalle mura di vetro”, aperta e collaborativa in cui le istituzioni forniscono le informazioni cittadini a prescindere dal loro interesse giuridicamente rilevante.
Il legislatore crea un forte nesso di correlazione tra obblighi di pubblicità e lotta alla corruzione: la trasparenza consente di verificare se la fiducia che i cittadini hanno riposto nei propri rappresentanti sia stata ben riposta, per ribadire quella relazione fiduciaria o, in caso contrario, revocarla al momento delle elezioni.
Si assiste dunque ad un vero e proprio salto di qualità del principio di trasparenza, chiamato a svolgere un compito ancor più penetrante e delicato, non solo di conoscenza ai fini della partecipazione, ma di controllo sociale diffuso da parte di cittadini su chi esercita pubbliche funzioni, sui risultati raggiunti e sull’impiego delle risorse umane ed economiche.
È per questo che il diritto alla trasparenza costituisce, ai sensi dell’articolo 1 comma 2 del decreto legislativo 33, una declinazione dell’articolo 117 comma 2 lett. m), integrando l’individuazione del livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai fini della trasparenza prevenzione e del contrasto alla corruzione e della cattiva amministrazione. La trasparenza assume contorni di un nuovo diritto di cittadinanza: l’accessibilità totale e gli open data costituiscono la moderna frontiera della democrazia partecipativa in cui cittadini interagiscono in maniera consapevole con le istituzioni.
La completezza, il costante aggiornamento, la semplicità di consultazione e la già richiamata comprensibilità costituiscono indici sintomatici del livello di qualità della circolazione delle informazioni. L’esigenza di chiarezza dell’azione dei pubblici poteri realizza il principio di sicurezza giuridica, richiedendo un agire delle pubbliche amministrazioni secondo i canoni della razionalità e della univocità. È per tali ragioni che la corte costituzionale affermato che “l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un corollario dello stato di diritto”.
In tal modo il principio di trasparenza riesce a configurarsi come fattore di deterrenza rispetto alla commissione di fatti corruttivi, perché induce l’amministrazione a porre in essere comportamenti legittimi finalizzati al buon andamento e all’imparzialità. La trasparenza diviene un’opportunità per la prevenzione dei fenomeni di corruzione e delle vicende di mala amministrazione.
Conclusioni
Regole di comportamento, ruoli ben strutturati e relazioni di connivenza innervano ordinamenti efficienti.
Il legislatore attraverso la sintesi di trasparenza e riservatezza mira a facilitare lo svolgimento dell’attività di vigilanza da parte dell’autorità, finalizzata all’accertamento di condotte illecite e degli autori delle stesse.
Nel prospettare, poi, alcune ipotesi di implementazione delle strategie di contrasto alla pervasività della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici, a miglior tutela della libertà di iniziativa economica e della concorrenza tra le imprese, in conformità all’art. 41 Cost. e a fondamentali principi dell’ordinamento comunitario, si pone l’accento sulla considerazione che l’azione di contrasto all’illegalità ed alla penetrazione mafiosa non si realizza esclusivamente tramite la revisione delle disposizioni vigenti o la definizione di nuove norme, ma anche mediante una promozione della legalità tramite “prassi trasparenti e responsabili, soprattutto della pubblica amministrazione come soggetto responsabile di tutto il ciclo del contratto”, in grado di per sé di superare i limiti della legislazione vigente legati al gap che si crea tra la normativa di contrasto e le multiformi e variabili azioni di aggressione delle criminalità di tipo mafioso derivanti dalle capacità strategiche di adattamento e risposta di quest’ultima.
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Il testo intende fornire un quadro completo di tutti i rimedi, giurisdizionali e non, alle controversie nascenti in materia di appalti pubblici, sia nel corso di svolgimento della procedura di gara e fino all’aggiudicazione, sia nella successiva fase di esecuzione del contratto di appalto. In primis, dopo un excursus sull’evoluzione degli ultimi anni, utile a comprenderne pienamente la ratio, viene affrontato approfonditamente il rito processuale speciale, disciplinato dal Libro IV, Titolo V del Codice del processo amministrativo, con particolare attenzione alla fase cautelare. Vi è poi un focus sul rito “super accelerato”, da ultimo dichiarato conforme alle direttive europee da una pronuncia della Corte di Giustizia Europea del 14 febbraio 2019.Alle controversie sorte in fase di esecuzione dei contratti di appalto è dedicato uno specifico capitolo, che rassegna le principali pronunce del Giudice Ordinario con riferimento alle patologie più frequenti (ritardi nell’esecuzione, varianti, riserve).Infine, quanto alla tutela stragiudiziale, il testo tratta i rimedi previsti dal Codice dei Contratti Pubblici, quali l’accordo bonario, la transazione e l’arbitrato e infine approfondisce il ruolo dell’ANAC, declinato attraverso i pareri di precontenzioso, i poteri di impugnazione diretta, e l’attività di vigilanza.Più schematicamente, i principali argomenti affrontati sono:• il rito speciale dinanzi a TAR e Consiglio di Stato, delineato dagli artt. 119 e 120 del Codice del processo amministrativo;• il processo cautelare;• il rito super accelerato ex art. 120 comma 2 bis;• il contenzioso nascente dalla fase di esecuzione del contratto di appalto;• i sistemi di risoluzione alternativa delle controversie: accordo bonario, transazione, arbitrato;• poteri e strumenti di risoluzione stragiudiziale dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.Elio Guarnaccia, Avvocato amministrativista del Foro di Catania, Cassazionista. Si occupa tra l’altro di consulenza, contenzioso e procedure arbitrali nel settore degli appalti e dei contratti pubblici. È commissario di gara nelle procedure di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in qualità di esperto giuridico selezionato da UREGA Sicilia e dall’ANAC.È autore di numerosi saggi e articoli nei campi del diritto amministrativo e del diritto dell’informatica, nonché di diverse monografie in materia di appalti pubblici, processo amministrativo, amministrazione digitale. Nelle materie di propria competenza ha sviluppato un’intensa attività didattica e di formazione per pubbliche amministrazioni e imprese. In ambito universitario, ha all’attivo vari incarichi di docenza nella specifica materia degli appalti pubblici.
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Note
[1] F.MERLONI, R. CAVALLO PERIN, Al servizio della Nazione: etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano, 2009
[2] PIGNATARO, Il principio costituzionale del «buon andamento» e la riforma della pubblica amministrazione, 2012
[3] Sostituzione applicata all’interno dell’art. 319 c.p. Si è passati dalla previgente formulazione “Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni (corruzione impropria antecedente). Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto(corruzione impropria susseguente) la pena è della reclusione fino a un anno. A “Il pubblico ufficiale che per l’esercizio delle sue funzioni dei suoi poteri indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni”
[4] F. Palazzo, Concussione, corruzione, cit., p. 229
[5] Decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, conv. in legge 11 agosto 2014, n. 114.
[6] Secondo le indicazioni fornite dalla circolare del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione n.1/2013, la scelta dell’amministrazione deve ricadere su un dirigente che non sia stato destinatario di provvedimenti giudiziali di condanna, né di provvedimenti disciplinari e che abbia dato dimostrazione nel tempo di comportamento integerrimo. L’amministrazione, inoltre, secondo tali linee guida, deve tener conto dell’esistenza di situazioni di conflitto di interesse, evitando la designazione dei dirigenti responsabili di incarichi nell’ambito dei settori maggiormente esposti al rischio della corruzione, come l’ufficio contratti o quello preposto alla gestione del patrimonio.
[7] L’art. 1 comma 7, legge 190 cit. individua un criterio di preferenza per gli enti locali, che, salva diversa e motivata di terminazione devono individuare il responsabile nella figura del segretario comunale.
[8] Considerati i vincoli legali esistenti in materia di dotazioni organiche, infatti, l’incarico di responsabile della prevenzione si configura naturalmente come incarico aggiuntivo da attribuire ad un dirigente già titolare di incarico dirigenziale di livello generale; in caso contrario, l’amministrazione si troverebbe a sostenere una nuova spesa
[9] D.lgs. 14 marzo 2013, n. 33”Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenze diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”
[10] D.lgs. 25 maggio 2016, 97 “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012 n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n.124 in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”
[11] D.lgs 8 aprile 2013, n. 39 “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’art. 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012 n. 190”
[12] CATENACCI M. (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 2016
[13] Il fulcro della novella risiede nell’inasprimento delle fattispecie di concussione, corruzione e induzione indebita, sino a lambire figure di rato di norma complementari, in ambito societario, a quelle di corruzione, come le false comunicazioni sociali, nonché il delitto di associazione di tipo mafioso, che l’analisi criminologica addita come uno dei più fertili terreni di coltura dei fenomeni corruttivi.
[14] FLORA, La nuova riforma dei delitti di corruzione. Verso la corruzione del sistema penale? In FLORA – MARANDOLA (a cura di), La nuova disciplina dei delitti di corruzione: profili penali e processuali, Pisa, 2019
[15] R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione , Giappichelli, 2020.
[16] 110 Art. 6, co. 3
[17] Convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, ed intitolato “misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”
[18] In realtà, il comma 4 dell’art. 19 prevedeva un termine di 60 giorni per l’approvazione del Piano da parte del Consiglio dei Ministri.
[19] Cfr. art. 48 comma 4 d.lgs. 33/2013 cit.
[20] contenuto già nel rapporto Giannini del 1975
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