(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 580)
Il fatto
Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traevano origine dalla vicenda di F. A. il quale, a seguito di un grave incidente stradale, avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente).
Alla luce di tale sinistro, costui non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione ed era altresì percorso da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda ma conservava intatte le facoltà intellettive.
All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile.
Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza comunicandola ai propri cari.
Non solo. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.
Di seguito a ciò, questi aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica.
Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.
Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta e, una volta inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data.
Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come “una liberazione”».
Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte.
In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia.
Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale.
Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai carabinieri.
A seguito di ordinanza di “imputazione coatta”, adottata ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura penale dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il reato di cui all’art. 580 cod. pen. tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l’esecuzione.
Ciò posto, il giudice a quo escludeva la configurabilità della prima ipotesi accusatoria dato che, alla luce delle prove assunte nel corso dell’istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe maturato la decisione di rivolgersi all’associazione svizzera prima e indipendentemente dall’intervento dell’imputato.
La Corte rimettente riteneva, invece, come l’accompagnamento in auto di F. A,. presso la clinica elvetica, integrasse, in base al diritto vivente, la fattispecie dell’aiuto al suicidio in quanto condizione per la realizzazione dell’evento dato che l’unica sentenza della Corte di cassazione, che si era occupata del tema, aveva affermato che le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi perciò stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida fermo restando che la medesima sentenza aveva precisato, altresì, che, alla luce del dettato normativo (in forza del quale è punito chiunque agevola «in qualsiasi modo» l’esecuzione dell’altrui proposito di suicidio), la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso più ampio comprendendo ogni tipo di contributo materiale all’attuazione del progetto della vittima (fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento) (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).
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Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Delineata la fattispecie in questione in tali termini, la Corte d’assise milanese dubitava della legittimità costituzionale della norma censurata anzitutto nella parte in cui si incriminano le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima.
Il giudice a quo rilevava come la disposizione denunciata presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista.
La disposizione dovrebbe essere, però, riletta alla luce della Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13; principi alla luce dei quali la vita – primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo – non potrebbe essere «concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare» e da qui, dunque, anche la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
Il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, osservava il giudice remittente, era stato, d’altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza – in particolare, con le pronunce sui casi Welby (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) – e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale) nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato «la dignità nella fase finale della vita».
La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dato che essa avrebbe conosciuto una evoluzione il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».
A fronte di ciò, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
In quest’ottica, ad avviso del giudice a quo, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost. posto che in tale ipotesi la condotta dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale, risultando quindi inoffensiva.
Oltre a ciò, la Corte d’assise milanese censurava, per altro verso, la norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito dell’aspirante suicida, con la stessa severa pena – reclusione da cinque a dieci [recte: dodici] anni – prevista per le condotte di istigazione.
La disposizione violerebbe, per questo verso, l’art. 3 Cost., unitamente al principio di proporzionalità della pena al disvalore del fatto desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. visto che le condotte di istigazione al suicidio sarebbero certamente più incisive, anche sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell’altrui autonoma determinazione oltre a fatto che del tutto diverse risulterebbero, altresì, nei due casi, la volontà e la personalità del partecipe.
Si legga anche:”Caso Cappato: la decisione della Consulta”
Le argomentazioni sostenute dalle parti
Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale aveva eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili: per difetto di rilevanza avendo il rimettente già escluso, alla luce dell’istruttoria svolta, che il comportamento dell’imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio di F. A.; per richiesta di un avallo interpretativo e omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme a Costituzione, non preclusa dall’esistenza di un’unica pronuncia di segno contrario della Corte di cassazione risalente al 1998, inidonea a costituire diritto vivente; per richiesta, infine, di una pronuncia manipolativa in materia rimessa alla discrezionalità del legislatore – quale quella dell’individuazione dei fatti da sottoporre a pena e della determinazione del relativo trattamento sanzionatorio – e in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.
Nel merito – ad avviso dell’interveniente – le questioni risulterebbero, comunque sia, infondate.
Erroneo risulterebbe il riferimento alla disciplina di cui alla legge n. 219 del 2017 posto che il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure non implicherebbe affatto quello di ottenere un aiuto al suicidio, non potendo il paziente chiedere, in ogni caso, al medico trattamenti contrari alla legge o alla deontologia professionale.
Quanto alla denunciata violazione delle disposizioni della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, quest’ultima aveva, in realtà, affermato che l’art. 2 della Convenzione, dato il suo tenore letterale, deve essere interpretato nel senso che esso contempla il diritto alla vita e non il suo opposto e, quindi, esso non conferisce il «diritto a morire», né con l’intervento della pubblica autorità, né con l’assistenza di una terza persona (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto assoluto di aiuto al suicidio sarebbe, inoltre, del tutto compatibile con l’art. 8 della Convenzione restando affidata al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione se l’eventuale liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei pazienti più anziani e vulnerabili.
L’incriminazione dell’aiuto al suicidio risulterebbe, d’altra parte, intrinsecamente ragionevole anche qualora si ritenga che alle sue finalità di tutela non resti estranea la libertà di autodeterminazione del titolare del bene protetto atteso che tale libertà, quando si orienti nel senso di porre fine alla propria esistenza, dovrebbe essere «assicurata usque ad vitae supremum exitum»: ottica nella quale l’esecuzione di quell’estremo proposito dovrebbe rimanere riservata esclusivamente all’interessato così da assicurare fino all’ultimo istante l’efficacia di un possibile ripensamento.
Quanto, poi, alla censurata omologazione del trattamento sanzionatorio delle condotte di istigazione e di agevolazione al suicidio, secondo sempre la Presidenza del Consiglio dei Ministri, essa non contrasterebbe con i parametri evocati, potendo il giudice valorizzare, comunque sia, la diversa gravità delle condotte stesse in sede di determinazione della pena nell’ambito della cornice edittale, ovvero ai fini del riconoscimento di circostanze attenuanti.
Si era costituito, altresì, M. C., imputato nel giudizio a quo il quale, con una successiva memoria – contestate le eccezioni di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato – aveva rilevato come, al di là dalla generica formulazione del petitum, le questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie.
Alla luce dello sviluppo argomentativo dell’ordinanza di rimessione, i dubbi di legittimità costituzionale dovrebbero reputarsi circoscritti, in particolare, alle ipotesi di agevolazione del suicidio di un soggetto che versi «in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, essendo tenuto in vita grazie a presidi medici in assenza dei quali andrebbe incontro, sia pure in modo lento e doloroso per sé e per i suoi cari, alla fine della propria esistenza»: in tali termini, le questioni risulterebbero pienamente fondate.
Al riguardo, la parte costituita osservava come, nel disegno del legislatore del codice penale del 1930, la norma censurata fosse destinata a proteggere la vita, intesa come bene non liberamente disponibile da parte del suo titolare, dato che, nella visione dell’epoca, la tutela dell’individuo era secondaria rispetto a quella della collettività statale: il suicidio era visto, di conseguenza, in termini negativi, come l’atto di chi, togliendosi la vita, sottraeva forza lavoro e cittadini alla Patria.
Non ritenendosi di dover sanzionare il suicida (neppure qualora ciò fosse materialmente possibile, ossia nel caso di semplice tentativo), si apprestava quindi una tutela di tipo indiretto, punendo chi avesse contribuito, sul piano psicologico o materiale, alla realizzazione del proposito di suicidio altrui.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, il bene della vita, secondo la difesa dell’imputato, dovrebbe essere riguardato unicamente in una prospettiva personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona, secondo il disposto dell’art. 3, secondo comma, Cost. e da qui la maggiore attenzione verso la libertà di autodeterminazione individuale, anche nelle fasi finali della vita, specie quando si tratti di persone che versano in condizioni di eccezionale sofferenza: atteggiamento che ha trovato la sua espressione emblematica nella sentenza della Corte di cassazione relativa al caso di Eluana Englaro (Cass., n. 21748 del 2007).
Di fondamentale rilievo, in questa cornice, risulterebbe essere l’intervento normativo realizzato con la legge n. 219 del 2017 la quale, nel quadro della valorizzazione del principio costituzionale del consenso informato, ha «positivizzato» il diritto del paziente di rifiutare le cure e di “lasciarsi morire”.
Sempre secondo la difesa dell’imputato, tale assetto normativo renderebbe ancor più evidente l’incoerenza dell’art. 580 cod. pen. nella parte in cui punisce anche la mera agevolazione del suicidio di chi abbia liberamente maturato il relativo proposito al fine di porre termine a uno stato di grave e cronica sofferenza provocato anche dalla somministrazione di presidi medico-sanitari non voluti sul proprio corpo.
Per questo verso, la norma censurata si porrebbe dunque in contrasto con il «principio personalista» di cui all’art. 2 Cost. e con quello di inviolabilità della libertà personale affermato dall’art. 13 Cost.: precetto costituzionale, quest’ultimo, che, unitamente all’art. 32 Cost. (non evocato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, ma ripetutamente richiamato in motivazione), assicura la piena libertà dell’individuo di scegliere quali interferenze esterne ammettere sul proprio corpo e di tutelare, in questo senso, la sua dignità.
Emblematico, al riguardo, risulterebbe il caso oggetto del giudizio a quo nel quale il soggetto che aveva liberamente deciso di concludere la propria esistenza – senza essere peraltro in grado di provvedervi autonomamente – risultava sottoposto a trattamenti sanitari molto invasivi la cui interruzione, ove pure accompagnata dalla sedazione profonda, lo avrebbe portato alla morte solo dopo diversi giorni, generando un prolungato stato di sofferenza nei familiari.
La libertà di rifiuto di simili presidi, senza che la dignità del malato sia vulnerata con l’avvio di una fine lenta e dolorosa, esigerebbe il riconoscimento della possibilità di accedere, anche tramite l’aiuto di terzi, a un farmaco letale.
La norma censurata violerebbe, in quest’ottica, anche il principio di ragionevolezza, imponendo un sacrificio assoluto di libertà di primario rilievo costituzionale senza distinguere le condotte realmente lesive del bene protetto da quelle volte invece a consentire l’attuazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte di fine vita, non realizzabili da parte del diretto interessato.
La norma denunciata si porrebbe in contrasto, ancora, con l’art. 8 CEDU e, di conseguenza, con l’art. 117, primo comma, Cost., giacché, nella prospettiva della Corte EDU, il diritto all’autodeterminazione individuale, anche con riguardo alle scelte inerenti il fine vita, costituisce il terreno su cui poggia l’interpretazione del citato art. 8 della Convenzione che prevede il «diritto al rispetto della vita privata e familiare», e ciò comporta che le interferenze statali su tale diritto possono ritenersi legittime solo entro i limiti indicati dal paragrafo 2 dello stesso art. 8, cioè solo a condizione che siano normativamente previste, oltre che necessarie e proporzionate rispetto a uno degli scopi indicati dalla predetta disposizione.
Al riguardo, verrebbe in rilievo, come leading case, la sentenza Pretty contro Regno Unito del 2002, con la quale veniva ritenuto come la previsione di un generale divieto di aiuto al suicidio non si ponesse, nella specie, in contrasto con il canone della proporzionalità dell’interferenza statale, di cui al citato art. 8, paragrafo 2, CEDU, in quanto l’ordinamento penale britannico è improntato al principio di flessibilità dato che in quel sistema vige un regime di azione penale discrezionale e non è, inoltre, previsto un minimo edittale di pena per l’aiuto al suicidio cosicché è consentito al giudice di parametrare o addirittura di escludere la risposta punitiva, in rapporto al concreto disvalore del fatto.
Lo standard di proporzionalità desumibile dall’art. 8 CEDU apparirebbe, per converso, apertamente violato dall’art. 580 cod. pen. che stabilisce un divieto generalizzato e incondizionato di agevolazione dell’altrui proposito suicida in un sistema, quale quello italiano, governato dal regime di obbligatorietà dell’azione penale, prevedendo, per di più, una pena minima edittale di cinque anni di reclusione.
La norma denunciata vulnererebbe, ancora, i principi di offensività e di proporzionalità e la funzione rieducativa della pena, ponendosi così in contrasto con gli artt. 13, 25, secondo comma – anche in riferimento all’art. 3 e 27, terzo comma, Cost. visto che l’art. 580 cod. pen. rappresenterebbe una ipotesi eccezionale di incriminazione del concorso in un fatto lecito altrui giustificabile – anche per quanto attiene al particolare rigore della risposta punitiva – solo sulla base di una anacronistica visione statalista del bene giuridico della vita: visione inconciliabile, per le ragioni indicate, con l’attuale assetto costituzionale.
In questa prospettiva, di conseguenza, la condotta di chi si limiti ad agevolare la realizzazione di un proposito di suicidio liberamente formatosi dovrebbe essere considerata come un «comportamento “penalmente inane”» essendo volta a garantire il diritto fondamentale all’autodeterminazione sulle scelte del fine vita, riferite a una esistenza ritenuta – per circostanze oggettive – non più dignitosa dal suo titolare.
Evidente (sempre) secondo l’imputato sarebbe anche la violazione del principio di eguaglianza, sotto plurimi profili visto che la norma censurata determinerebbe una disparità di trattamento tra chi è in grado di porre fine alla propria vita da solo, senza bisogno di aiuto esterno e chi, invece, è fisicamente impossibilitato a farlo per la gravità delle proprie condizioni patologiche con conseguente discriminazione a scapito proprio dei casi maggiormente meritevoli di considerazione.
Irragionevolmente discriminatoria risulterebbe, inoltre, una disciplina penale che riconosca la liceità dell’interruzione delle cure con esito letale e, dunque, la non antigiuricidità di una condotta attiva di interruzione di un decorso causale immediatamente salvifico punendo invece la condotta attiva di agevolazione della causazione immediata della morte in condizioni analoghe.
La violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza si apprezzerebbe anche all’interno della struttura della fattispecie che vede equiparate quoad poenam condotte – la determinazione e il rafforzamento del proposito suicidario, da un lato, e la semplice agevolazione, dall’altro – caratterizzate da un coefficiente di offensività radicalmente diverso.
Una simile irragionevole equiparazione si risolverebbe anche in un difetto di proporzionalità del trattamento sanzionatorio, atta a compromettere la funzione rieducativa della pena.
Sulla base di tali considerazioni, la parte costituita aveva chiesto, quindi, che l’art. 580 cod. pen. venisse dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà, liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari» ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio».
In prossimità della nuova udienza, la parte costituita aveva depositato una ulteriore memoria rilevando come l’invito rivolto al Parlamento da questa Corte non fosse stato accolto atteso che nessun seguito avevano avuto le proposte di legge presentate che prospettavano, peraltro, soluzioni sensibilmente diverse tra loro.
A fronte di ciò, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., nei contorni già tracciati dall’ordinanza n. 207 del 2018, non sarebbe ulteriormente procrastinabile e ciò per ragioni radicate, oltre che nei fondamentali diritti del malato e nella sua dignità, anche nei diritti inviolabili dell’imputato il quale si vedrebbe altrimenti infliggere una sanzione penale sulla base di una norma incostituzionale per cause «ordinamentali a lui non addebitabili».
A sua volta il principio di leale collaborazione istituzionale, al quale era stata accordata la priorità in una prima fase, non potrebbe, dunque, che recedere, allo stato, dinanzi alle esigenze di ripristino della costituzionalità violata.
Né gioverebbe obiettare che il mantenimento di una “cintura di protezione” penalmente presidiata sarebbe stata giustificata, nell’ipotesi in esame, da esigenze di tutela del bene supremo della vita umana dato che le funzioni di prevenzione generale e speciale continuerebbero a essere assolte dall’art. 580 cod. pen., quale risultante all’esito della pronuncia di accoglimento, stante la verificabilità ex post, da parte del giudice penale, della sussistenza delle quattro condizioni lato sensu scriminanti indicate dall’ordinanza n. 207 del 2018: condizioni la cui coesistenza risulterebbe largamente idonea a evitare che la dichiarazione di incostituzionalità possa preludere a una vanificazione della tutela dei soggetti vulnerabili.
In questa cornice, una sentenza di «accoglimento manipolativo», che inserisca tali condizioni nel testo dell’art. 580 cod. pen., rappresenterebbe una «garanzia di certezza in senso pieno» risultando perciò preferibile tanto a una pronuncia interpretativa di rigetto, quanto a una sentenza additiva di principio: decisione, quest’ultima, che farebbe gravare sul singolo giudice l’impropria responsabilità di ricavare la regola attuativa del principio posto dalla Corte costituzionale quando invece l’art. 25, secondo comma, Cost. impone che i confini della norma penale siano determinati e precisi.
Orbene, rilevava sempre la difesa dell’imputato, a fronte dell’inerzia legislativa, la Corte costituzionale potrebbe, d’altra parte, ricercare in norme già vigenti nell’ordinamento idonei criteri ai quali parametrare l’accertamento preventivo dei requisiti di liceità del suicidio assistito e ciò particolarmente alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale dai quali emerge una netta attenuazione della tesi per cui gli interventi di accoglimento manipolativo esigerebbero l’esistenza di strette “rime obbligate” ritenendosi, di contro, sufficiente, a tal fine, che il sistema offra «precisi punti di riferimento» e «soluzioni già esistenti».
Nella specie, la Corte potrebbe utilmente attingere alla disciplina delle modalità di raccolta della volontà di revoca del consenso alle cure, di cui all’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017 atteso che i passaggi procedurali prefigurati da tale disposizione risponderebbero a molte delle esigenze di regolamentazione poste in evidenza dall’ordinanza n. 207 del 2018: in particolare, che sia un medico a verificare ex ante, all’interno dell’alleanza terapeutica con il paziente, le condizioni indicate da detta ordinanza, attestando il suo controllo mediante idonea documentazione e prospettando le possibili alternative al suicidio assistito, compresa la possibilità di ridurre le sofferenze tramite, ad esempio, le cure palliative.
La parte costituita concludeva, pertanto, chiedendo che l’art. 580 cod. pen. fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui prevede che l’aiuto al suicidio sia punibile anche se la persona che ha inteso porre fine alla propria vita è “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”».
L’ordinanza n. 207 del 2018
Fermo restando che erano intervenuti, inoltre, ad opponendum, il Centro Studi «Rosario Livatino», la libera associazione di volontariato «Vita è» e il Movimento per la vita italiano i quali venivano
dichiarati inammissibili dalla Consulta con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 23 ottobre 2018, va altresì rilevato che, in esito alla medesima udienza, veniva pronunciata l’ordinanza n. 207 del 2018, con la quale: a) veniva rilevato come – pur in assenza di una espressa indicazione in tal senso da parte del giudice a quo – le questioni attinenti al trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio dovessero ritenersi logicamente subordinate a quelle attinenti al suo ambito applicativo; b) erano ritenute non fondate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato; c) era escluso che – contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal rimettente – l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, fosse, di per sé, incompatibile con la Costituzione dato che essa si giustifica in un’ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle «persone più deboli e vulnerabili»; d) era individuata, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi (come nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»: evenienza nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio «finisce […] per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive»; e) era escluso, tuttavia, di poter porre rimedio – «almeno allo stato» – «al riscontrato vulnus» tramite una pronuncia meramente ablativa riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate visto che, in assenza di una disciplina legale della prestazione dell’aiuto, verrebbero a crearsi situazioni gravide di pericoli di abuso nei confronti dei soggetti in condizioni di vulnerabilità; tale disciplina dovrebbe, d’altro canto, investire una serie di profili, variamente declinabili in base a scelte discrezionali, spettanti in linea di principio al legislatore; f) era escluso, però, al tempo stesso, di poter ricorrere alla tecnica decisoria precedentemente adottata in casi similari costituita dalla dichiarazione di inammissibilità delle questioni accompagnata da un monito al legislatore per l’introduzione della disciplina necessaria alla quale dovrebbe fare seguito, nel caso il cui il monito resti senza riscontro, la declaratoria di incostituzionalità stante il fatto che tale tecnica aveva «l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione»; effetto che «non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti»; g) era ritenuto, perciò, di dover percorrere una via alternativa: facendo leva, cioè, sui «propri poteri di gestione del processo costituzionale», la Consulta aveva rinviato il giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni all’udienza del 24 settembre 2019, «in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela»; in questo modo, si era lasciata pur sempre al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità evitando, però, che la norma censurata potesse trovare applicazione medio tempore (il giudizio a quo era rimasto, infatti, sospeso mentre negli altri giudizi i giudici hanno avuto modo di valutare se analoghe questioni fossero rilevanti e non manifestamente infondate).
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
La Consulta, nel decidere la questione sottoposto al suo vaglio di legittimità costituzionale, osservava prima di tutto come, in assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento, costei non potesse ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018 non essendo a ciò d’ostacolo la circostanza che la decisione di illegittimità costituzionale facesse emergere specifiche esigenze di disciplina che, pur suscettibili di risposte differenziate da parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese dato che il rinvio disposto all’esito della precedente udienza risponde, con diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella giurisprudenza costituzionale, il collaudato meccanismo della “doppia pronuncia” (sentenza di inammissibilità “con monito” seguita, in caso di mancato recepimento di quest’ultimo, da declaratoria di incostituzionalità) nel senso che, decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità.
Come più volte si è avuto modo di rilevare, rileva il giudice delle leggi nella decisione qui in commento, «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011; analogamente sentenza n. 96 del 2015) dato che occorre evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale e ciò «specie negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore» (sentenza n. 99 del 2019).
Se era risalente, nella giurisprudenza della Consulta, l’affermazione per cui non può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958) ma ove i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa), ad avviso della Corte, i giudici di legittimità costituzionale possono e devono farsi carico dell’esigenza di evitarli non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016).
Premesso ciò, per quanto attiene ai contenuti della presente decisione, la Consulta osservava come in sede di legittimità costituzionale fosse stato già puntualmente individuato, nell’ordinanza n. 207 del 2018, le situazioni in rapporto alle quali l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio, prefigurata dall’art. 580 cod. pen., entra in frizione con i precetti costituzionali evocati trattandosi in specie dei casi nei quali venga agevolata l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Quanto, poi, all’esigenza di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi «per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità» (ordinanza n. 207 del 2018), si faceva presente come già più volte la Consulta, in passato, si fosse fatta carico dell’esigenza di scongiurare esiti similari: in particolare, subordinando la non punibilità dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo al rispetto di specifiche cautele, volte a garantire – nelle more dell’intervento del legislatore – un controllo preventivo sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta.
Ciò era avvenuto, ad esempio, in materia di aborto, con la sentenza n. 27 del 1975 (la quale aveva dichiarato illegittimo l’art. 546 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse «danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre»); ovvero, più di recente, in materia di procreazione medicalmente assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015 (le quali avevano dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano l’accesso alle relative tecniche alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche, trasmissibili al nascituro, «accertate da apposite strutture pubbliche», e la disposizione che puniva ogni forma di selezione eugenetica degli embrioni, senza escludere le condotte di selezione volte a evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili accertate nei predetti modi).
Nell’odierno frangente, peraltro, ad avviso della Corte, un preciso «punto di riferimento» (sentenza n. 236 del 2016) già presente nel sistema – utilizzabile ai fini considerati, nelle more dell’intervento del Parlamento – era costituito dalla disciplina racchiusa negli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017: disciplina più volte richiamata, del resto, nella stessa ordinanza n. 207 del 2018 atteso che la declaratoria di incostituzionalità attiene in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata: disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una “procedura medicalizzata” estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo.
A sua volta il riferimento a tale procedura, pur debitamente integrata dalla stessa Consulta in questa pronuncia (come vedremo da qui a poco), secondo la Corte, si presta a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell’ordinanza n. 207 del 2018, e ciò vale, anzitutto, con riguardo alle «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto» atteso che, mediante la procedura in questione, è già possibile accertare la capacità di autodeterminazione del paziente e il carattere libero e informato della scelta espressa dal momento che l’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017 riconosce il diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona «capace di agire» e stabilisce che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente comma 4 per il consenso informato.
Tal che se ne faceva conseguire come la manifestazione di volontà debba essere, dunque, acquisita «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente» e documentata «in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare», per poi essere inserita nella cartella clinica «[f]erma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà»: il che, peraltro, nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale.
Oltre a ciò, si notava come lo stesso art. 1, comma 5, preveda, altresì, che il medico deve prospettare al paziente «le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative», promovendo «ogni azione di sostegno al paziente medesimo anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica» e, in questo contesto, deve evidentemente darsi conto anche del carattere irreversibile della patologia: elemento indicato nella cartella clinica e comunicato dal medico quando avvisa il paziente circa le conseguenze legate all’interruzione del trattamento vitale e sulle «possibili alternative».
Orbene, secondo la Consulta, lo stesso ragionamento deve dirsi anche per le sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento delle azioni di sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore, presuppone una conoscenza accurata delle condizioni di sofferenza, e ciò anche perché il riferimento a tale disciplina implica, d’altro canto, l’inerenza anche della materia considerata alla relazione tra medico e paziente.
Quanto all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative, la Corte costituzionale rilevava come l’art. 2 della legge n. 219 del 2017 preveda che deve essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come già ricordato, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza) fermo restando che, ad avviso della Consulta, tale disposizione risulta estensibile anch’essa all’ipotesi che qui interessa visto che l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita.
Similmente a quanto già stabilito dalla Consulta con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, si osservava come la verifica delle condizioni, che rendono legittimo l’aiuto al suicidio, dovesse restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale e a queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
Oltre a quanto sin qui rilevato, si metteva in risalto il fatto che la delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità e, nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti dato che, secondo la Consulta, tali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013, recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici»): funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante «Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica»).
Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, i giudici di legittimità costituzionale osservavano come la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limiti a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici e dunque resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato.
Oltre a ciò, veniva chiarito che, in quanto enucleate da questa Corte solo con la presente sentenza, in attesa dell’intervento del legislatore, le condizioni procedimentali in questione non possono essere richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore della legge n. 219 del 2017 in quanto, rispetto alle vicende pregresse, le condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente soddisfatte.
Tale situazione, dunque, impone, ad avviso della Corte, una diversa scansione del contenuto della pronuncia sul piano temporale nel senso che, riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti e occorrerà dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua fermo restando che la sussistenza di tutti questi requisiti dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto.
La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, provvedeva a dichiarare l’art. 580 cod. pen. costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Conclusioni
Con la decisione qui in commento, la Consulta è intervenuto significativamente sull’art. 580 c.p. che, come è noto, sanziona l’istigazione o l’aiuto al suicidio.
Difatti, come appena visto, viene escluso la punibilità dell’autore di questo illecito penale, qualora costui, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Perché non sia punibile una persona che commetta tale illecito penale, occorre prima di tutto che costui agisca con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 e dunque rilevano nel caso di specie queste disposizioni legislative che prevedono quanto segue: art. 1 (“1. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2,13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1,2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignita’ e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario puo’ essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. 2. E’ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilita’ del medico. Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo. 3. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonche’ riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Puo’ rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 4. Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti piu’ consoni alle condizioni del paziente, e’ documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilita’, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, e’ inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilita’ per il paziente di modificare la propria volonta’, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. 6. Il medico e’ tenuto a rispettare la volonta’ espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di cio’, e’ esente da responsabilita’ civile o penale. Il paziente non puo’ esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali. 7. Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volonta’ del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla. 8. Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura. 9. Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalita’ organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale. 10. La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative. 11. E’ fatta salva l’applicazione delle norme speciali che disciplinano l’acquisizione del consenso informato per determinati atti o trattamenti sanitari”; art. 2 (“1. Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, e’ sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38. 2. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico puo’ ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. 3. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”).
Oltre a ciò, la Consulta richiede che l’oggetto del reato riguardi l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi di una persona, da un lato, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, dall’altro, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
E’ dunque la scelta di porre fine alla vita deve essere presa da colui che decide di non volere vivere più e non può essere surrogabile in alcun modo fermo restando che ciò può avvenire solo se tale persona è affetta da sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili da costui.
Ad ogni modo, tale diritto riconosciuto al malato, precisa la Corte costituzionale, non vuole significare la creazione di un obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici restando affidato, alla coscienza del singolo medico, scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato.
Ciò posto, un altro requisito richiesto è che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente, vale a dire, come trapela in questa stessa pronuncia, da quei organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013, recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici») fermo restando come la stessa Consulta richieda comunque la necessità che intervenga il legislatore per regolare espressamente tali organismi nonché quale struttura sanitaria dovrà essere deputata a svolgere siffatta verifica.
La Consulta, inoltre, affronta un’altra tematica ossia come devono essere regolati i fatti anteriori alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica affermandosi che, per tali fattispecie, la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti e occorrerà dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua fermo restando che la sussistenza di tutti questi requisiti dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto.
La verifica di tutte questi requisiti, dunque, rimane affidata alla valutazione da parte del giudice.
In conclusione, dopo aver esaminato i tratti salienti che connotano tale pronuncia, ad avviso dello scrivente, sarebbe forse opportuno che il legislatore intervenisse per riformulare la normativa vigente alla luce delle indicazioni fornite dalla Consulta in tale pronuncia, nonché nell’ordinanza n. 207 emessa nel 2018: solo una regolamentazione organica di questa delicata materia, difatti, potrà consentire una chiara applicazione di questa pronuncia ed evitare la possibilità di contrasti interpretativi in ordine al come (specie per i fatti anteriori) deve essere data attuazione a questa decisione.
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