La Corte Costituzionale dichiara inammissibili le q.l.c. delle norme che hanno disposto l’abrogazione dell’art. 594 c.p.

(Corte Costituzionale sent. 6 marzo 2019 n. 37)

L’ordinanza di rimessione

Con ordinanza del 24 gennaio 2017 il Giudice di pace di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 co. 3 lett. a) n. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67 («Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili») e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 («Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67») nella parte in cui dispongono l’abrogazione dell’art. 594 del codice penale.

Il giudice a quo, in particolare, osserva che il giudizio principale da cui trae origine l’ordinanza ha ad oggetto un’imputazione per il delitto di ingiuria di cui all’art. 594 c.p. abrogato – in epoca successiva alla commissione del fatto contestato – in forza dell’art. 1 co. 1 lett. c) del d.lgs. n. 7 del 2016 e che, per effetto di tale abrogazione, egli dovrebbe dichiarare di «non doversi procedere ex art. 129 c.p.p.» in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Tuttavia, secondo il rimettente, laddove si dichiarasse l’illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate si realizzerebbe invece «la ri-espansione della rilevanza penale del comportamento oggetto del reato di ingiurie» il che consentirebbe la prosecuzione del processo al fine di verificare in dibattimento la sussistenza del reato contestato all’imputato.

Secondo il rimettente, infatti, «la rilevanza della questione appare sussistere anche se l’oggetto riguarda norme penali di favore e precisamente norme abrogative di ipotesi delittuose come nel caso di specie» non potendosi a suo avviso concepire che le norme penali di favore sfuggano al controllo di costituzionalità precludendosi in tal modo ogni possibilità di garantire la preminenza della Costituzione sulla legislazione statale ordinaria.

Sul punto, il rimettente richiama l’orientamento della Corte Costituzionale (e in particolare le sentenze n. 394 del 2006 e n. 148 del 1983), secondo cui sarebbe possibile esperire il sindacato di costituzionalità anche su norme di favore, nonché la sentenza n. 5 del 2014 in cui è stata dichiarata l’incostituzionalità della legge abrogativa del reato di associazione paramilitare con conseguente reviviscenza della previgente norma incriminatrice.

A sostegno della non manifesta infondatezza delle questioni prospettate il giudice a quo rileva anzitutto che «l’onore costituisce uno dei beni fondamentali della persona umana riconosciuto tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione», tanto che «la stessa Corte costituzionale […] lo annovera tra i beni e gli interessi inviolabili in quanto essenzialmente connessi con la persona umana (Corte costituzionale n. 38/1973)».

Si tratterebbe, in particolare, di «un bene giuridico ascritto nel rango dei diritti essenziali, assoluti, personali, non patrimoniali, inalienabili, intrasmissibili, imprescrittibili, originari e innati»; un diritto da ritenere quale «estrinsecazione, nelle società democratiche, del fondamentale principio di uguaglianza di tutti gli essere umani che trova le sue profonde radici nel principio del rispetto per ogni persona, per ogni essere umano, senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Il rimettente osserva, inoltre, che le disposizioni censurate «determinano la fuoriuscita del bene dell’onore e del decoro dal sistema di tutela pubblicistica dei diritti fondamentali»; ciò nel contesto di un ordinamento in cui non vi sarebbero «diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione che non siano protetti anche dalle norme penali, proprio in virtù della massima tutela che ad essi viene garantita».

La stessa Corte costituzionale, secondo il giudice di Venezia, avrebbe ritenuto che gli artt. 2, 3 e 13, primo comma, Cost. «riconoscano e garantiscano i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali rientrano quelli del proprio decoro, del proprio onore, della propria rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione, sanciti espressamente negli artt. 8 e 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (sent. n. 38/1973)».

E tali diritti potrebbero essere tutelati soltanto attraverso norme incriminatrici «poiché sono proprio le norme penali che sono poste, ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell’essere umano»; e ciò «sia per l’efficacia deterrente della sanzione penale che per l’inadeguatezza delle sanzioni amministrative o civili che appaiono inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive dei diritti fondamentali».

Un secondo aspetto a sostegno della non manifesta infondatezza, secondo il giudice rimettente, si può apprezzare in relazione all’art. 3 Cost. in quanto la depenalizzazione del reato di ingiuria avrebbe determinato una irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di diffamazione di cui all’art. 595 cod. pen., delitto riconducibile «alla stessa medesima ratio e allo stesso diritto fondamentale», distinguendosi solamente per la presenza o meno dell’offeso al momento della condotta.

Tale discriminazione sarebbe particolarmente evidente in riferimento all’abrogazione dell’ipotesi aggravata di cui all’art. 594 co. 4 c.p. che disponeva un aumento di pena qualora l’offesa fosse commessa «in presenza di più persone». Secondo il rimettente, infatti, sarebbe del tutto irragionevole «[l]a scelta di perseguire un fatto “comunicando con più persone” in assenza dell’offeso (diffamazione) e di non punire il medesimo fatto “commesso in presenza di più persone” con la presenza dell’offeso (ingiurie)».

Un terzo argomento a sostegno della non manifesta infondatezza delle q.l.c. andrebbe, infine, apprezzato in relazione alla «difforme tutela processuale garantita al medesimo diritto fondamentale nell’abrogato reato di ingiuria rispetto al reato di diffamazione».

In particolare, la deposizione testimoniale della persona offesa, che ben potrebbe essere posta a fondamento della decisione nel processo penale a quo, non potrebbe esserlo nel giudizio civile, poiché in quella sede la parte non può testimoniare a favore di sé stessa.

Ciò condurrebbe alla conseguenza per cui un’ingiuria commessa in assenza di testimoni sarebbe destinata a restare impunita, così determinandosi un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alle vittime della diffamazione, le quali hanno la possibilità di costituirsi parte civile e deporre come testimoni nel processo penale.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato tutte le questioni prospettate inammissibili.

In linea di principio, secondo la Corte, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante.

Principio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del 2009).

Come ribadito anche di recente dalla stessa Corte (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), peraltro, tali principi non sono senza eccezioni.

Anzitutto, può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006).

Un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale; da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge. In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata.

Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018).

Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.

La Consulta rileva, tuttavia, che nessuna di queste condizioni sussiste rispetto alle questioni di legittimità costituzionale oggi sottoposte dal giudice di Venezia.

La disciplina abrogata non si atteggiava, infatti, a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina penale di carattere generale coesistente, sottraendo a quest’ultima un sottoinsieme di ipotesi che altrimenti sarebbero ricadute nella normativa generale. L’abrogata disposizione che criminalizzava l’ingiuria aveva, invece, ad oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone.

Né viene in considerazione, nel caso in esame, uno scorretto esercizio del potere legislativo, avendo il Governo depenalizzato il delitto di ingiuria, con il decreto legislativo n. 7 del 2016, in puntuale adempimento della delega conferitagli con la legge n. 67 del 2014.

Né, ancora, oggetto delle presenti questioni di legittimità costituzionale è una disciplina processuale, la cui reductio ad legitimitatem potrebbe determinare, in via collaterale e indiretta, effetti in malam partem.

Né infine il giudice a quo ha dimostrato che l’abrogazione del delitto di ingiuria si ponga di per sé in contrasto con gli obblighi sovranazionali che gravano sul nostro Paese.

Il giudice rimettente – secondo la Consulta – ha giustamente sottolineato il carattere fondamentale del diritto all’onore come tale ascrivibile non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; sezione terza, sentenza 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia).

 

Ciò posto, tuttavia, dal riconoscimento di un diritto come fondamentale non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali: tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei.

Ciò accade, segnatamente, in relazione al diritto all’onore: diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili obblighi di incriminazione, di origine costituzionale o sovranazionale, che limitino la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle modalità della sua tutela. Quest’ultima, pertanto, ben potrà restare affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile, come quelle apprestate dal decreto legislativo n. 7 del 2016, sulla base di scelte non censurabili dalla Corte Costituzionale.

Per tutte le ragioni esposte la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 37/2019, dichiara:

1) la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Venezia;

2) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dal Giudice di pace di Venezia.

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