Il fatto
Il Magistrato di sorveglianza di Milano sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede(va) che i condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 630, secondo comma, del codice penale, che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. se non abbiano effettivamente espiato almeno due terzi della pena irrogata.
Esponeva il giudice rimettente di essere chiamato a decidere sull’istanza, formulata dalla detenuta, di concessione del primo permesso premio al fine di coltivare i propri affetti familiari e, in particolare, con il figlio minorenne.
Riferiva a tal proposito il giudice a quo che: a) la detenuta era stata condannata in via definitiva alla pena di ventiquattro anni di reclusione per concorso in sequestro di persona a scopo di estorsione, aggravato dalla morte della persona sequestrata come conseguenza non voluta, ai sensi dell’art. 630, secondo comma, cod. pen., in relazione al ruolo da lei assunto nel rapimento di un bimbo, conclusosi con la sua uccisione da parte di altri correi; b) al momento della presentazione dell’istanza, la detenuta aveva espiato effettivamente tredici anni, un mese e dodici giorni di reclusione, avendo altresì maturato due anni, sette mesi e cinque giorni di liberazione anticipata; c) nell’istanza la condannata aveva asserito la propria totale estraneità a contesti di criminalità organizzata e aveva dedotto, altresì, l’evidente impossibilità di una sua collaborazione “attiva” in quanto le condotte a lei ascritte erano state integralmente accertate con sentenza passata in giudicato; d) tuttavia, alla stregua della disposizione censurata, l’istanza avrebbe dovuto essere ritenuta inammissibile non avendo la condannata ancora espiato i due terzi della pena detentiva inflitta posto che non avrebbe pregio l’argomento dell’istante secondo cui la preclusione posta dall’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit. non si applicherebbe all’ipotesi aggravata di cui all’art. 630, secondo comma, cod. pen., dal momento che l’espressione «che abbiano cagionato la morte del sequestrato» sarebbe riferibile tanto all’ipotesi – contemplata dall’art. 630, terzo comma, cod. pen. – in cui il reo abbia volontariamente cagionato l’evento letale, quanto a quella – prevista dal secondo comma di tale disposizione – in cui la morte del sequestrato costituisca conseguenza non voluta della sua condotta.
Ciò posto, a sua volta il Magistrato di sorveglianza di Padova sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede(va) che i condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non siano ammessi ad alcuno dei benefici penitenziari indicati nel primo comma dell’art. 4-bis ordin. penit. se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata.
Esponeva a tal riguardo il rimettente di essere chiamato a decidere sull’istanza, formulata da un detenuto, di un permesso premio presso l’abitazione della madre per coltivare gli affetti familiari, e in particolare con il figlio, portatore di grave patologia invalidante riferendo costui al contempo che:
a) il detenuto era stato condannato in via definitiva alla pena complessiva di venti anni e due mesi di reclusione, nonché di cinque mesi di arresto, di cui diciotto anni per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato ai sensi dell’art. 630, terzo comma, cod. pen., per avere egli cagionato volontariamente la morte del sequestrato; b) al momento della presentazione dell’istanza, il detenuto aveva espiato effettivamente la pena di nove anni, cinque mesi e venticinque giorni, avendo altresì maturato 630 giorni di liberazione anticipata; c) nel 2014 lo stesso Magistrato di sorveglianza aveva riconosciuto che G. C. aveva prestato piena collaborazione con la giustizia; d) alla concessione del beneficio richiesto ostava il disposto dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit. che preclude ai condannati a pena temporanea per il delitto di sequestro a scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del sequestrato di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario ove non abbiano effettivamente espiato i due terzi della pena irrogata.
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Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Per quanto attiene il magistrato di sorveglianza di Milano, il giudice rimettente osservava prima di tutto come la compatibilità della preclusione appena citata potesse essere in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..
Si evidenziava in particolare che le questioni prospettabili nel caso di specie, da un lato, sarebbero, anzitutto, rilevanti, in quanto soltanto la rimozione della preclusione in parola – non superabile in via interpretativa – consentirebbe di esaminare nel merito l’istanza proposta dalla condannata, dall’altro, non potrebbero, d’altra parte, ritenersi manifestamente infondate posto che, per un verso, la preclusione posta dall’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit. si esporrebbe, infatti, a tutte le censure di illegittimità costituzionale già ritenute fondate da questa Corte, sotto il profilo dell’art. 27, terzo comma, Cost., con la sentenza n. 149 del 2018, per altro verso, la disciplina risultante dalla sentenza n. 149 del 2018 si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost., risultando irragionevole – ed anzi paradossale – che per i condannati all’ergastolo sia oggi vigente una disciplina più favorevole di quella applicabile ai condannati a una mera pena detentiva temporanea.
Per quanto concerne il magistrato di sorveglianza di Padova, anche costui dubitava della compatibilità di tale disciplina con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..
A detta di questa autorità giudicante, difatti, le questioni, da una parte, sarebbero anzitutto rilevanti dal momento che – in assenza della preclusione posta dalla disposizione censurata – l’istanza del condannato potrebbe senz’altro essere accolta e, avendo egli attivamente collaborato con la giustizia, l’accesso ai permessi premio gli sarebbe consentito una volta scontato il quarto della pena, ai sensi del combinato disposto degli artt. 58-ter, comma 1, e 30-ter, comma 4, lettera b), ordin. penit.: termine, questo, ormai abbondantemente scaduto tenuto conto altresì del fatto che il condannato avrebbe, inoltre, serbato regolare condotta all’interno dell’istituto penitenziario, come attestato anche dalla relazione favorevole del direttore del carcere e dalle molteplici evidenze relative alla partecipazione alle offerte trattamentali, alla rivisitazione critica del reato, ai tentativi di risarcimento posti in essere in favore dei familiari della vittima, al mantenimento di rapporti costanti con i familiari e in particolare con il figlio disabile, nonché all’assenza di elementi che lo colleghino alla criminalità organizzata, dall’altra, sarebbero, altresì, non manifestamente infondate osservandosi come: a) la disposizione censurata risulterebbe incompatibile con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento venutasi a creare, in seguito alla sentenza n. 149 del 2018 della Consulta, tra i condannati all’ergastolo e i condannati a pena detentiva temporanea, per i quali vigerebbe ormai un regime deteriore, potendo i primi essere ammessi a godere dei permessi premio una volta espiati dieci anni di pena (ulteriormente riducibili per effetto dei periodi di liberazione anticipata maturati), a fronte della necessità di espiazione effettiva dei due terzi della pena per i secondi – e dunque di un periodo superiore a dieci anni, ogniqualvolta la pena irrogata sia superiore ai quindici anni di reclusione, come nel caso del detenuto istante; b) di tale disparità di trattamento creata dalla sentenza n. 149 del 2018 sarebbe stata, del resto, consapevole anche la Consulta la quale, proprio per porre rimedio a tale effetto, aveva invocato l’intervento correttivo del legislatore, a tutt’oggi non verificatosi; c) la disposizione censurata si esporrebbe, inoltre, a una seconda censura di irragionevole disparità di trattamento ex art. 3 Cost. sottoponendo a un trattamento marcatamente deteriore i condannati per il delitto di cui all’art. 630, terzo comma, cod. pen. che abbiano collaborato con la giustizia rispetto a quello riservato alla generalità dei condannati per taluno dei delitti previsti dall’art. 4-bis ordin. penit. che parimenti abbiano collaborato con la giustizia, e per i quali vigono – per effetto dell’art. 58-ter, comma 1, ordin. penit. – gli ordinari termini per l’accesso ai benefici penitenziari applicabili a qualsiasi condannato, e non già quelli più gravosi previsti per i condannati per i delitti previsti dallo stesso art. 58-quater, comma 4, ordin. penit.; d) la disposizione censurata si esporrebbe a tutti i profili di contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. già riscontrati da questa Corte, con riferimento alla preclusione in precedenza vigente per i condannati all’ergastolo, nella sentenza n. 149 del 2018, la cui motivazione viene diffusamente richiamata dall’ordinanza di rimessione.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
I giudici di legittimità costituzionale, dopo avere rilevato che le questioni fossero ammissibili avendo entrambi i rimettenti puntualmente chiarito che soltanto la preclusione posta dalla disposizione censurata impedisce l’esame nel merito, e l’eventuale accoglimento, dell’istanza di concessione di un permesso premio formulata da entrambi i detenuti nei giudizi a quibus, affermavano come le medesime fossero altresì fondate con riferimento a entrambi i parametri evocati.
Si denotava a tal proposito come, anche per i condannati a pena temporanea per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione qualificato dalla causazione della morte della vittima, vale anzitutto il rilievo, già svolto dalla sentenza n. 149 del 2018 in riferimento ai condannati all’ergastolo per il medesimo reato che la rigida preclusione temporale posta dalla disposizione censurata all’accesso ai benefici sovverte irragionevolmente la logica gradualistica sottesa al principio della «progressività trattamentale e flessibilità della pena», già enucleato da numerose pronunce di questa Corte (sentenze n. 257 del 2006, n. 255 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995) come corollario del mandato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, fissando l’unica e indifferenziata soglia dell’espiazione effettiva dei due terzi della pena irrogata quale condizione per l’accesso a tutti i benefici penitenziari.
Alla luce pertanto di tale rilievo tracciato dalla stessa Consulta nella sentenza n. 149 del 2018, il giudice delle leggi postulava come tale disposizione, proprio alla luce di ciò, operasse in senso distonico rispetto all’obiettivo, costituzionalmente imposto, di consentire alla magistratura di sorveglianza di verificare gradualmente e prudentemente, anzitutto attraverso la concessione di permessi premio e l’autorizzazione al lavoro all’esterno, l’effettivo percorso rieducativo compiuto dal soggetto, prima di ammetterlo in una fase successiva dell’esecuzione – sulla base anche dell’esito positivo di quelle prime sperimentazioni – alla semilibertà e poi alla liberazione condizionale.
Tale distonia, di conseguenza, ad avviso della Corte, determinava la violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..
Inoltre, come rilevato da entrambi i giudici rimettenti, la rimozione della preclusione contenuta nella disposizione censurata con riferimento ai condannati all’ergastolo da parte della sentenza n. 149 del 2018, aveva prodotto l’irragionevole conseguenza che, oggi, essi godono di un trattamento penitenziario più favorevole rispetto a quello riservato ai condannati a pena detentiva temporanea per i medesimi titoli di reato dato che i condannati alla pena dell’ergastolo, che abbiano cagionato la morte del sequestrato, possono – in forza della citata sentenza n. 149 del 2018 – accedere al beneficio del permesso premio, in caso di collaborazione o condizioni equiparate, dopo aver espiato dieci anni di pena, riducibili sino a otto anni grazie alla liberazione anticipata mentre i condannati a pena detentiva temporanea per il medesimo titolo delittuoso, prima che venisse emessa questa sentenza, potevano invece accedere al predetto beneficio, a parità di condizioni quanto alla collaborazione con la giustizia, solo dopo aver scontato i due terzi della pena inflitta, senza poter beneficiare di alcuna riduzione di tale termine a titolo di liberazione anticipata: e cioè dopo aver scontato un periodo di detenzione che – tenuto conto delle elevatissime cornici edittali previste per le ipotesi delittuose in questione – è nella generalità dei casi ben superiore a otto anni, come mostrano del resto i due casi oggetto dei giudizi a quibus.
Tal che se ne faceva discendere come una siffatta conseguenza, oltre ad essere incompatibile con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., fosse stata peraltro puntualmente segnalata all’attenzione del legislatore da parte della Corte costituzionale nella sentenza n. 149 del 2018, senza che – tuttavia – a tale monito abbia fatto seguito la necessaria modifica della normativa vigente.
La Consulta, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, riteneva necessario rimuovere la preclusione stabilita dall’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit. anche con riferimento ai condannati a pena temporanea per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato (dolosamente o colposamente) la morte del sequestrato, con conseguente automatica riespansione, nei loro confronti, della disciplina applicabile alla generalità dei condannati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. mentre rimanevano assorbiti gli ulteriori profili di censura formulati dalle ordinanze di rimessione in relazione ai medesimi parametri.
Oltre a ciò, così come era avvenuto nella sentenza n. 149 del 2018, la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale veniva estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alla parte della disposizione censurata che si riferisce ai condannati a pene detentive temporanee per il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di cui all’art. 289-bis cod. pen., che abbiano cagionato la morte del sequestrato.
Pertanto, per effetto della presente pronuncia, la disposizione di cui all’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit. restava interamente caducata.
Conclusioni
Con la sentenza qui in commento, la Consulta ha completato il cammino iniziato con la sentenza n. 149 del 2018.
Difatti, in quella occasione, il giudice delle leggi, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato e ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289-bis del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato, da un lato, aveva al contempo fatto presente che questa pronuncia avrebbe potuto creare disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata dallo stesso art. 58-quater, comma 4, ordin. penit. in relazione ai condannati a pena detentiva temporanea per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato avendo comunque deciso in questo modo atteso che anche se «[q]ualunque decisione di accoglimento produce effetti sistemici[,] questa Corte non può tuttavia negare il suo intervento a tutela dei diritti fondamentali per considerazioni di astratta coerenza formale» nell’ambito del sistema (sentenza n. 317 del 2009), dall’altro, auspicava un intervento del legislatore per individuare gli opportuni rimedi alle eventuali disparità di trattamento che si sarebbero potuti produrre in conseguenza della presente pronuncia.
Orbene, nella decisione qui in commento, stante l’inerzia del legislatore, la stessa Consulta è intervenuta per far venir meno tale disparità dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si applica ai condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato nonché, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., nella parte in cui si applica ai condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 289-bis cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio essa si pone in un rapporto di completamento rispetto a quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 149/2018, dunque, non può che essere positivo.
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