Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha espresso in maniera chiara il proprio orientamento in tema di rapporti intercorrenti tra illegittimità dell’atto amministrativo tributario, in specie avviso di accertamento, e prova nel processo penale.
La pronuncia è resa in sede d’impugnazione di una sentenza di riesame avverso un sequestro preventivo finalizzato alla confisca di valore di beni intestati all’indagato.
Il Tribunale del Riesame di Sassari aveva respinto l’incidente cautelare giudicando corretto l’operato della Procura tanto sotto il profilo indiziario quanto su quello giuridico e fiscale.
L’indagato adiva, dunque, la Corte di Cassazione affidandosi a tre motivi di ricorso: la prima doglianza afferente all’assenza di preventiva verifica della disponibilità del profitto del reato rispetto al provvedimento di sequestro per equivalente; il secondo motivo di ricorso, ritenuto fondato dalla Corte, inerisce ad un errata imputazione della plusvalenza patrimoniale scaturente da una operazione di “sale and lease back” ad un unico periodo d’imposta, in luogo della sua distribuzione sull’intera durata del leasing; con il terzo motivo di ricorso, che qui maggiormente interessa, il ricorrente lamenta l’utilizzo da parte del Tribunale del Riesame, a fondamento del rigetto dell’istanza di riesame, dei contenuti di un avviso di accertamento nullo redatto dell’Agenzia delle Entrate.
Brevemente si cercherà di ricostruire le ragioni che indurrebbero a ritenere nullo l’avviso di accertamento notificato all’indagato.
Con la decisione n. 37 del 2015, che ha spiegato i propri dirompenti effetti specialmente in sede di giustizia tributaria, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 comma 24 D.L. 16/2012, convertito con modificazioni con l’art. 1 comma 1, L. 44/2012. Tale disposizione consentiva alle Agenzie fiscali italiane di espletare procedure concorsuali per la copertura di posizioni dirigenziali e, medio tempore, affidare tali incarichi a funzionari privi di qualifica dirigenziale, mediante la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato.
Ad avviso della Consulta, tale disposizione si poneva in contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 Cost., in quanto avrebbe determinato il protrarsi sine die di «un’assegnazione temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica».
La caducazione delle nomine in questione, dunque, avrebbe costituito un’ipotesi di nullità testuale degli atti sottoscritti dai dirigenti “decaduti”, in quanto l’art. 42 D.p.r. 600/1973 così recita: «L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo (…)».
Sarebbe esorbitante rispetto al contenuto del presente lavoro dar conto del dibattito giurisprudenziale che ha investito la nullità in questione, ritenendosi bastevole rilevare come la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22810 del 9 novembre 2015 abbia ritenuto validi gli atti sottoscritti dai funzionari nominati sulla base della legge dichiarata incostituzionale, affermando che: «si impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale».
Con la sentenza oggi in commento, la Corte di Cassazione, sez. III penale, affronta apertamente il rapporto intercorrente tra avviso di accertamento invalido (o almeno sospettabile di nullità) e prova nel processo penale.
La Corte dà atto che il Tribunale del riesame ha aggirato il problema in via di fatto, sostenendo che l’indagato non avesse fornito la prova dell’assenza di qualifica del funzionario sottoscrittore dell’avviso di accertamento. Tale argomentazione, a ben vedere, potrebbe lasciar intendere che i magistrati di Sassari, ove tale prova fosse stata fornita, avrebbero potuto determinarsi per la revoca del sequestro[1].
La Corte di legittimità, invece, sostiene che la questione vada risolta in diritto e riafferma il tradizionale orientamento “autonomista”, che tiene ben distinti il terreno tributario da quello penale.
Le patologie dell’avviso di accertamento, infatti, inciderebbero unicamente su tale atto e, quindi, sulla pretesa erariale nello stesso contenuta, mentre non spiegherebbero alcun effetto sul procedimento penale.
In tale sede, sostiene la Corte, l’avviso di accertamento «subisce una trasformazione genetica: non è più atto di impulso, ma documento che veicola informazioni. In sede penale il promotore dell’azione è il pubblico ministero (…)».
In effetti, l’avviso di accertamento è l’atto mediante il quale l’Agenzia delle Entrate notifica formalmente la pretesa tributaria al contribuente a seguito dell’esperimento di verifiche sostanziali. Tale atto, come è accaduto nel caso oggetto della pronuncia, può seguire ad una attività di controllo effettuata dalla Guardia di Finanza, culminante in un processo verbale di constatazione, i cui rilievi vengono fatti propri dall’Agenzia delle Entrate, anche motivando per relationem.
In presenza di un atto nullo, quindi, l’erario non può pretendere le somme accertate, né procedere alla riscossione coattiva, poiché privo di titolo.
Nel procedimento penale, sostiene la Corte, «l’avviso di accertamento è strumentale all’esercizio dell’azione, non ne è l’atto che l’incorpora. Il suo statuto non è l’art. 42, d.P.R. n. 600 del 1973, ma l’art. 191, cod. proc. pen.».
Secondo la terza sezione, dunque, l’indagine circa la validità dell’avviso di accertamento sarebbe sostanzialmente sbarrata poiché non coincidente con quella sulla liceità dell’acquisizione delle prove. Nel caso in esame, quindi, nulla quaestio, in quanto non risulterebbe violato alcun divieto imposto dalla legge cui possa conseguire l’inutilizzabilità della prova.
La Corte, nell’affermare che la patologia dell’avviso di accertamento non incide sul valore che il medesimo può ricoprire nel procedimento penale, si mostra rispettosa dei diversi canoni, principi e regole che presidiano il sistema penale e quello tributario.
A questo punto, sposando l’orientamento della Corte, è ben possibile tracciare una regola generale del medesimo segno: qualora l’avviso di accertamento o alcune sue parti siano formate in violazione della legge, allora ne conseguirebbe l’inutilizzabilità. Tale regola, non certo rivoluzionaria, potrebbe quindi essere applicata alle dichiarazioni contenute in un avviso di accertamento o in un PVC della Guardia di Finanza rese da un soggetto che avrebbe dovuto sin dall’inizio essere sentito come indagato (ad esempio, per un reato tributario) al quale non siano stati forniti gli avvertimenti previsti dall’art. 63 c.p.p.
Ciò che preme sottolineare, conclusivamente, è che la pronuncia in commento depone nella direzione della tendenziale autonomia dei sistemi penale e tributario ed afferma, conformemente al proprio costante orientamento, che l’avviso di accertamento è un documento, apprezzabile dal giudice penale e, per il medesimo, non vincolante.
In proposito si ricorda la nota sentenza che ha coinvolto un famoso attore italiano, accusato di aver posto in essere condotte elusive della legge tributaria, in cui è stato enunciato che: «Il giudice penale al fine di verificare l’avvenuto superamento della soglia che attribuisce penale rilevanza alla evasione fiscale, nel caso di condotte elusive, deve determinare l’imposta evasa al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento non opponibile alla amministrazione finanziaria»[2].
Tale principio, che nel caso dell’attore ha operato in favor rei, ben può applicarsi in direzione opposta, com’è accaduto in un caso di accertamento con adesione, del quale il giudicante non ha tenuto conto per la determinazione dell’imposta evasa ai fini della sussistenza del reato contestato[3].
Sempre maggior vigore, dunque, viene accordato al noto canone del “doppio binario” penale – tributario, giusta cui il giudice penale non subisce preclusioni nella ricostruzione della vicenda processuale né dal contenuto, né, alla luce della sentenza in commento, dalla validità dell’avviso di accertamento.
[1] A ben vedere tutta la questione avrebbe potuto essere superata in punto di fatto se fosse stato presente nel fascicolo della Procura il PVC della Guardia di Finanza, non già come allegato all’avviso di accertamento, ma come atto a sé stante.
[2] Cass. Pen., sez. IV, 30 gennaio 2014, n. 7615
[3] Cass. Pen., sez. III, 27 marzo 2013, n. 28937
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