“Il gestore di un mercato online (eBay) è responsabile per le sue aste quando, in relazione alle stesse, svolge un ruolo attivo che gli permette di avere conoscenza o controllo circa i dati memorizzati sui suoi server, ruolo che consiste, in particolare, nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in asta o nel promuoverle. Quando anche non abbia svolto un ruolo attivo, in un’azione risarcitoria conseguente a talune vendite effettuate sul suo sito, non può tuttavia avvalersi dell’esclusione di responsabilità prevista dalla Direttiva 2000/31/CE, quando sia stato al corrente di fatti o circostanze in base ai quali un operatore diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità delle aste di che trattasi e, di conseguenza, non abbia prontamente agito per rimuovere le inserzioni incriminate o disabilitarne l’accesso.“
E’ questo in sostanza quanto stabilito dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea in Grande Sezione con la sentenza del 12 luglio 2011 a proposito del ruolo di eBay e della posizione responsabilistica per le vendite all’asta operate sul suo sito. Una pronuncia incidentale e meramente interpretativa di talune disposizioni comunitarie (tra cui quelle della Direttiva sull’e-commerce), ma che di peso si inserisce nell’ormai pluriennale contenzioso in materia d’aste online che vede contrapposti da un lato la multinazionale francese L’Oréal e dall’altro il gruppo eBay. Reo di permettere la vendita non autorizzata sul proprio sito di alcuni prodotti del colosso della cosmesi.
Ben dieci le questioni pregiudiziali sottoposte al vaglio della Corte di Giustizia UE, tutte sollevate dalla High Court of Justice (l’Alta Corte di Giustizia d’Inghilterra e Galles) nel corso di un procedimento -parallelo ad altri in Europa- promosso da L’Oreal nei confronti di eBay e di alcuni suoi venditori per aver permesso la conclusione di transazioni commerciali in violazione dei suoi diritti di proprietà industriale.
I fatti che avrebbero portato alla causa risalirebbero precisamente al 2007, quando la L’Oréal, notando la presenza di prodotti venduti illegalmente sul sito inglese ebay.co.uk, aveva manifestato “preoccupazione” a eBay per la sorte dei propri marchi.
Dei 17 articoli da cui è scaturito il contenzioso, 2 sarebbero risultati contraffatti, mentre i restanti 15 avrebbero violato a vario titolo i diritti di alcuni marchi di L’Oréal in quanto non vendibili, destinati al mercato del Nord America e non europeo o commercializzati senza confezione.
eBay sarebbe stata additata da L’Oréal quale responsabile delle suddette aste sostanzialmente per due ragioni:
1) per averne reso possibile lo svolgimento e visualizzazione (insieme ad altre potenzialmente lesive dei suoi diritti) sul sito ebay.co.uk;
2) per averne reso possibile la promozione attraverso il servizio pubblicitario AdWords di Google. In quest’ultimo caso, alla digitazione da parte di un utente su Google di parole chiave corrispondenti a taluni marchi di L’Oréal, eBay avrebbe volutamente predisposto la comparsa -tra i risultati del noto motore di ricerca- di link pubblicitari diretti a pagine di aste lesive dei diritti della controparte.
Prima di entrare nel merito di tali “responsabilità”, val la pena sintetizzare il contenuto delle principali questioni poste dall’High Court of Justice al vaglio della Corte di Giustizia europea, precisando ai non addetti ai lavori che la sentenza in oggetto, anche se ricollegata ad un procedimento in corso oltremanica, ha un’efficacia vincolante sul piano giuridico-interpretativo in tutti gli Stati membri dell’Unione europea e quindi anche in Italia.
Con le questioni pregiudiziali l’Alta Corte britannica ha richiesto un parere vincolante:
– sulla liceità dell’offerta online di tester di profumi e cosmetici privi di confezione e originariamente non destinati alla vendita al pubblico;
– sulla conseguente legittimità per il titolare del marchio di opporsi alla loro commercializzazione (vista la mancanza di informazioni su ingredienti e scadenza, nonché il pregiudizio al marchio che una tale vendita potrebbe arrecargli);
– sulla possibilità per L’Oréal di vietare a eBay l’uso di segni identici ai propri marchi tramite servizi pubblicitari come AdWords di Google;
– sulla possibilità -e in caso affermativo a quali condizioni- per L’Oréal di vietare la vendita su eBay.co.uk di prodotti non commercializzati nello spazio europeo o commercializzati contro il suo consenso;
– sulla differenza, in termini di violazione dei diritti di proprietà industriale, tra l’uso di un segno identico al marchio di L’Oréal direttamente sul sito di eBay e quello in un link sponsorizzato quale è quello di AdWords;
Tutte questioni formulate e interpretate alla luce degli allora vigenti (trattandosi di fatti accaduti nel 2007) Direttiva 89/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di marchi d’impresa e Regolamento (CE) n. 40/94 sul marchio comunitario, per le cui interessanti risposte -data la diversa tematica al centro del presente contributo- rinvio il lettore al testo originario della sentenza, limitandomi in questa sede solamente a evidenziare quanto stabilito dal massimo organo giurisdizionale dell’UE in merito all’applicabilità o meno ad una certa asta della normativa europea in materia di tutela dei marchi.
In linea, infatti, con quanto in precedenza già stabilito, la Corte ha ribadito che l’accessibilità di un sito Internet nel territorio di un dato Stato europeo (dove un marchio è stato registrato) non è sufficiente a concludere che le inserzioni in esso presenti siano destinate ai soli consumatori che si trovano in tale territorio e siano quindi soggette al diritto comunitario vigente in materia.
Per dirla con un esempio, se un’asta è inserita e pubblicata originariamente su ebay.it, ciò non implica automaticamente che i soli destinatari siano consumatori italiani.
Il principio, come è evidente, richiama un meccanismo ben noto agli ebayers, che spesso tra le opzioni di ricerca del sito d’aste preferiscono visualizzare anche offerte originariamente inserite in altri portali di eBay o destinate a utenti stranieri.
La Corte di Giustizia al di là del suddetto principio ha liquidato la questione con un rinvio al giudice nazionale quale soggetto incaricato -di volta in volta- di valutare in base a specifici elementi se una certa asta è destinata ai consumatori che si trovano in un dato territorio o meno (ad es. valutando i Paesi verso i quali il venditore offre la spedizione).
Tornando all’argomento di apertura (e a parere di chi scrive di maggior interesse per ebayers e addetti ai lavori), alla responsabilità dell’auction provider sono dedicate la articolate questioni n. 9 e 10 nelle quali, ai sensi della Direttiva 2000/31/CE, viene chiesto sostanzialmente alla Corte:
– se L’Oréal possa vietare a eBay l’uso dei suoi marchi anche se frutto di semplice memorizzazione di informazioni fornite da un suo venditore (c.d. hosting). Quindi, se innanzitutto il servizio fornito da eBay possa qualificarsi di “hosting” secondo le previsioni della Direttiva sull’e-commerce, e se, per effetto dell’inserimento di aste aventi ad oggetto prodotti dei marchi incriminati, eBay ponga in essere un’attività connessa con un uso illecito dei marchi, realizzando, alla luce dell’art. 14 n.1 della Direttiva 2000/31/CE, una condotta responsabile, impugnabile da parte del titolare del marchio e -in caso affermativo- passibile di richieste risarcitorie;
– qualora eBay sia “al corrente” del fatto che sul suo sito gli utenti abbiano pubblicizzato, offerto o venduto prodotti in violazione di marchi registrati e che tali attività continuino nel tempo, se una siffatta conoscenza abbia rilevanza giuridica alla luce della direttiva europea in questione;
– nel caso in cui un sito come eBay sia stato utilizzato in una data circostanza per violare un marchio registrato, se il titolare del marchio possa ottenere un provvedimento giudiziario “generalizzato” nei confronti dell’auction provider al fine di impedire il consumarsi di ulteriori violazioni di detto marchio.
Interrogativi particolarmente articolati, il cui sforzo di renderli più comprensibili in questa sede è risultato non indifferente, a causa della scarsa chiarezza e linearità sintattica che accompagnano taluni punti della suddetta sentenza.
Le due questioni, inoltre, non sono le uniche a “toccare” il tema della responsabilità del provider d’aste, potendosi rintracciare interessanti spunti di riflessione anche nelle argomentazioni che accompagnano le risposte della Corte alle altre -già sintetizzate in apertura- questioni sulla tutela e uso legittimo dei marchi di L’Oréal.
In entrambi i casi, a parere di chi scrive, i chiarimenti forniti dalla Corte di Giustizia se da un lato sembrano rispondere solo ad alcuni degli innumerevoli dubbi qualificativi che da oltre un decennio serpeggiano nel mondo delle aste online, dall’altro deludono, ed avrebbero potuto richiamare in modo più mirato le dinamiche del sito d’aste.
La sensazione che si ha infatti leggendo le argomentazioni della Corte è che la stessa -al di là dei suoi limiti funzionali- si sia volutamente mantenuta dall’andare oltre certi paletti nella qualificazione dei meccanismi di eBay, restando fin troppo incollata agli interrogativi pregiudiziali e preferendo “chiudere” le questioni più spinose con soluzioni pilatesche -come già visto- di rinvio al giudice o al diritto nazionale.
Da questo punto di vista, credo si sia persa un’ottima occasione per fare chiarezza in materia partendo dal dato normativo europeo.
Vediamo allora quali dubbi ha quanto meno dissipato la Corte di Giustizia.
Innanzitutto ha riconosciuto che, nel momento in cui eBay pubblicizza le sue aste tramite AdWords, è un’inserzionista. Il titolare di un marchio, pertanto, può vietare a eBay di fare pubblicità ad aste di prodotti lesivi dei suoi diritti quando, una tale pubblicità, non permetta o permetta difficilmente all’utente normalmente informato e ragionevolmente attento, di sapere se i prodotti o i servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio, da una impresa a questi economicamente collegata o, al contrario, da un terzo.
L’1+1 che la Corte non ha fatto è invece il seguente: poiché un annuncio testuale di AdWords permette il solo inserimento di un titolo, due righe descrittive e due URL di riferimento al sito pubblicizzato (URL di visualizzazione + URL di destinazione), la sua struttura (oggi, ma presumo ancor di più nel 2007), di fatto, non permetterebbe facilmente di informare l’utente che gironzola su Google sull’origine dei prodotti venduti in asta. Di conseguenza, il titolare di un marchio, potrebbe precludere costantemente a eBay la pubblicizzazione delle aste riguardanti i propri prodotti.
Tanto premesso, un’interessante risposta fornita dalla Corte di Giustizia e di indubbio interesse per gli ebayers, è quella concernente il ruolo attivo di eBay nelle sue aste alla luce delle c.d. tariffe d’inserzione e delle commissioni sul valore finale che la stessa da sempre percepisce e delle varie funzionalità che offre ai merchants per agevolare loro l’attività di vendita.
Riconosciuto pacificamente il ruolo di hoster e le esenzioni di responsabilità di cui alla Direttiva 2000/31/CE di eBay, pur in presenza di tariffe e commissioni percepite per le vendite all’asta, la Corte non ha tuttavia escluso che il trattamento dei dati forniti dagli ebayers non avvenga da parte del sito d’aste in modo puramente tecnico e automatico come la Direttiva sull’e-commerce vorrebbe, concretizzandosi invece in un’attività di assistenza consistente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita incriminate e nel promuoverle. In una siffatta circostanza, pertanto, eBay non assumerebbe una posizione neutra tra venditore e acquirente, bensì un ruolo attivo, atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte.
La Corte, almeno su questo punto, è parsa abbastanza chiara: ottimizzando l’attività di vendita di merce vietata, eBay non assumerebbe più una veste neutrale. Di conseguenza, non potrebbe avvalersi, riguardo a tali vendite, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE.
Una conclusione di indubbio interesse, la cui formulazione, tuttavia, è destinata a rimanere al condizionale: per la Corte di Giustizia, infatti, l’ultima parola sul punto spetta comunque al giudice nazionale.
Arrivati a questo punto ci si chiede come mai, in oltre 25 pagine di sentenza, il collegio giudicante -pur richiamandolo assiduamente- non si sia degnato di chiarire decentemente il concetto di ottimizzazione (!)
Quale sia stata la ragione di tale scelta, una dedicata puntualizzazione avrebbe assunto, probabilmente, una portata deflagrante in relazione alle poliedriche attività che eBay pone in essere nell’interesse dell’utenza. Attività sulle quali il sottoscritto ha già espresso le proprie perplessità più volte in passato.
Da un punto di vista squisitamente lessicale, infatti, “ottimizzare” identifica un’attività diretta ad ottenere il massimo vantaggio o profitto col minor rischio (o dispendio) possibile di risorse.
Ora, se guardiamo ai vari modi con cui eBay “ottimizza” l’attività dei propri iscritti, se consideriamo anche solo i vari strumenti offerti a tal fine (si pensi ad es. al “Gestore delle vendite”, allo strumento di “Analisi delle vendite”, al “Negozio eBay”, al “Turbo Lister” ecc.) l’auction provider si collocherebbe praticamente e obiettivamente agli antipodi del concetto di prestatore intermediario beneficiato dalla Direttiva 2000/31/CE!
La questione ove sviscerata aprirebbe scenari inquietanti per il gestore dell’e-marketplace, ma purtroppo -anche in questo caso- alla possibilità di infliggere una stoccata interpretativa letale in materia di aste online, la Corte ha preferito recidere un’ovvia deduzione con l’ennesimo rinvio al giudice nazionale.
Proseguendo, altro nodo al pettine affrontato dai giudici europei, è quello legato alla possibilità o meno di ritenere eBay “al corrente” dell’illiceità delle sue aste e quindi responsabile per le transazioni concluse.
Affinché tale consapevolezza sussista, alla luce dell’art. 14 della direttiva 2000/31/CE, la Corte di Giustizia ha ricompreso qualsiasi situazione nella quale il provider d’aste venga ad essere, in qualunque modo, al corrente di tali fatti o circostanze. In particolare quando scopra l’esistenza di un’attività o di un’informazione illecita a seguito di un esame effettuato di propria iniziativa o a seguito anche di una sola notifica/segnalazione ricevuta. Elemento, quest’ultimo, che per gli abusi e le incertezze a cui si presta, deve essere comunque valutato di caso in caso dal giudice nazionale.
Le argomentazioni della Corte si chiudono, anche su questo punto, con il richiamo alla già vista attività di “ottimizzazione” delle vendite all’asta, quale sinonimo di ruolo attivo, di “consapevolezza” e quindi di responsabilità del gestore dell’e-marketplace.
Sull’ultima questione, quella della possibilità per il titolare del marchio leso di ingiungere all’auction provider di adottare provvedimenti atti ad impedire il consumarsi di ulteriori illeciti (in questo caso violazioni dei diritti dei marchi di L’Oréal), la Corte di Giustizia, in linea con le Direttive 2004/48/CE e 2000/31/CE, e contrariamente alla tesi di eBay secondo cui tale possibilità debba essere ammessa solo in presenza di violazioni specifiche e chiaramente individuate, ha ribadito che gli organi giurisdizionali nazionali possano ingiungere al prestatore di un servizio online, quale colui che mette a disposizione degli utenti di Internet un mercato online, di adottare provvedimenti che contribuiscano in modo effettivo, non solo a porre fine alle violazioni condotte attraverso tale mercato, ma anche a prevenire nuove violazioni.
Sulla natura delle misure oggetto di tale ingiunzione, in sostanza sul facere imponibile a eBay, i giudici europei proprio in virtù del richiamo alle suddette direttive, hanno evidenziato la possibilità di poter costringere il provider d’aste -quando non vi provveda spontaneamente- a sospendere gli accounts dei venditori autori delle violazioni dei diritti altrui ma anche ad adottare misure che consentano di agevolare l’identificazione degli stessi venditori. Misure che, in ogni caso, devono risultare effettive, proporzionate, dissuasive e tali da non creare ostacoli al commercio legittimo.
Quest’ultimo passaggio se da un lato riprende alla lettera quanto previsto dal legislatore europeo, dall’altro non convince e lascia un alone di incertezza sull’efficacia degli strumenti e delle tecniche adottabili per prevenire concretamente nuove violazioni.
L’interrogativo, infatti, nasce spontaneo: come è possibile per un provider con milioni di iscritti prevenire efficacemente l’inserimento di aste illecite?
Nella vicenda in esame, L’Oréal prima e la High Court of Justice poi, hanno ritenuto insoddisfacente il famoso programma VeRO (il programma di eBay per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale), riconoscendo la possibilità per il sito d’aste di utilizzare ulteriori filtri, di inserire nelle sue regole il divieto di vendita -senza il consenso dei titolari dei marchi- di taluni prodotti, ma anche la possibilità di imporre restrizioni supplementari sulle quantità di prodotti che possono essere oggetto di annunci simultanei e quella di applicare sanzioni in modo più rigoroso.
Ottimi suggerimenti, ma inefficaci fintanto che la loro realizzazione -come si presume avverrebbe almeno in parte- sia affidata ad un software. La relativa facilità, infatti, con cui ancora oggi è possibile iscriversi al sito bypassando i controlli sull’identità degli utenti e l’impiego di parole chiave mirate per raggirare agevolmente taluni filtri, unitamente alla tempistica necessaria per un intervento da parte dell’assistenza clienti a fronte di una segnalazione, garantiranno, a parere di chi scrive, ancora una certa longevità al proliferare di aste del genere su eBay.
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