La datio in solutum.
Focus sui profili attinenti alla cessione del credito in luogo dell’adempimento.
Indice
1 La datio in solutum: disciplina e finalità
L’esatto adempimento costituisce la normale modalità di estinzione delle obbligazioni e postula la corrispondenza qualitativa e quantitativa della prestazione eseguita rispetto a quella dedotta.
Da ciò deriva che una prestazione diversa da quella dedotta nel rapporto obbligatorio non libera il debitore dall’obbligazione.
Il legislatore, tuttavia, ha previsto delle modalità alternative di estinzione dell’obbligazione che vengono convenzionalmente classificate in modalità satisfattive, che soddisfano l’interesse creditorio, e modalità non satisfattive che, pur non soddisfacendo l’interesse del creditore, estinguono ugualmente l’obbligazione.
Nel novero dei modi satisfattivi il legislatore ricomprende, all’art. 1197 c.c., l’ipotesi della prestazione in luogo dell’adempimento, tradizionalmente nota come datio in solutum per le sue origini di natura romanistica.
Nel diritto romano la prestazione in luogo dell’adempimento identificava l’adempimento che aveva luogo mediante il trasferimento di un qualcosa per un altro, cd. aliud pro alio, per estinguere le obbligazioni di dare. La prestazione sostitutiva, nel diritto classico, veniva considerata ammissibile solo se volontaria e cioè solo previo consenso del creditore. Successivamente però il diritto postclassico estese tale possibilità anche all’ipotesi di prestazione sostitutiva necessaria.
Tale impostazione è stata, con i dovuti accorgimenti, recepita nel diritto moderno
Dal tenore letterale del citato art. 1197 c.c. si evince il carattere eccezionale della disposizione in quanto si stabilisce che il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta.
È necessario che il creditore ed il debitore procedano in modo consensuale alla modifica del rapporto obbligatorio che si estingue solo con l’adempimento della nuova prestazione.
La ratio sottesa all’istituto si rinviene nell’esigenza di assicurare il soddisfacimento dell’interesse del creditore ancorché con modalità diversa dall’adempimento.
Ai fini dell’efficacia della datio in solutum sono dunque necessari tre requisiti, ossia la volontà del debitore ad eseguire una prestazione alternativa rispetto a quella originariamente dedotta nel rapporto, il consenso del creditore ad accettare una prestazione diversa ed infine l’effettiva esecuzione della nuova prestazione.
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2 La controversa natura giuridica della datio in solutum
Se da un lato il dato letterale non solleva particolari dubbi interpretativi, dall’altro molto discussa è stata l’individuazione della natura giuridica dell’istituto.
La dottrina maggioritaria sostiene che abbia natura contrattuale e che possa qualificarsi come contratto solutorio liberatorio che estingue l’obbligazione in modo satisfattivo.
Per converso, vi è un secondo orientamento che riconosce particolare pregnanza alla volontà del debitore di eseguire una prestazione diversa, tanto da considerare la manifestazione di tale volontà come un atto unilaterale che il creditore si limita ad accogliere.
I fautori di tale teoria evidenziano che la datio in solutum non costituisce un contratto solutorio reale in quanto la dichiarazione di consenso del creditore resta una semplice dichiarazione recettizia autonoma che realizza un presupposto del trasferimento a che non fa parte del consenso che lo realizza.
Si tratta tuttavia di un orientamento minoritario, tuttora rimasto isolato e che, come evidenziato dall’opposta dottrina, troverebbe dei limiti evidenti proprio nel dettato normativo di cui all’art. 1197 c.c.: correttamente tale dottrina ha tratto argomento dal necessario consenso del creditore per poter affermare che questo, unitamente all’offerta della prestazione formulata dal debitore, si sostanzierebbe in un accordo negoziale.
3 Il contenuto della nuova prestazione
Il contenuto della diversa prestazione pattuita, nel silenzio del legislatore e stante l’assenza di limitazioni normative, può consistere in un “fare”, “non fare” o “dare”, purchè leciti.
Si ritiene inoltre non necessaria un’equivalenza economica tra la prestazione originariamente dovuta e quella sostitutiva.
La datio in solutum va tenuta distinta dalla novazione oggettiva in quanto, a differenza di quest’ultima, prevede l’estinzione del rapporto obbligatorio senza che a ciò consegua l’instaurazione di un nuovo vincolo obbligatorio.
Il secondo comma dell’art. 1197 c.c. prevede l’ipotesi specifica della sostituzione dell’originaria prestazione con il trasferimento della proprietà o di altro diritto, prevedendo in questi casi che il debitore presti la garanzia per evizione e per i vizi della cosa secondo le norme dettate in tema di vendita, salvo che il creditore preferisca esigere l’originaria prestazione e il risarcimento del danno.
3.1 Cessione del credito in luogo dell’adempimento: profili problematici
Quando in luogo dell’adempimento è ceduto un credito, ai sensi dell’art. 1198 c.c., l’obbligazione si estingue non con la semplice cessione ma con la riscossione del credito, se non risulta una diversa volontà delle parti.
Le parti possono in ogni caso convenire che l’effetto estintivo dell’obbligazione si verifichi immediatamente con il perfezionamento della cessione del credito, indipendentemente dalla sua riscossione.
L’art. 1198 c.c. al secondo comma opera un richiamo all’art. 1267 c.c. per ciò che riguarda la garanzia della solvenza del debitore. In particolare, in base al disposto di cui all’art. 1267 c.c., nell’ipotesi di cessione pro solvendo, ossia qualora il debitore cedente abbia garantito al creditore cessionario l’effettivo pagamento da parte del debitore ceduto, in caso di inadempimento del ceduto, il cedente non è più tenuto al pagamento a favore del cessionario se il mancato pagamento del debitore ceduto sia imputabile a negligenza del cessionario nel promuovere le iniziative stragiudiziali o le azioni giudiziarie nei confronti del debitore ceduto per ottenerne l’adempimento.
L’art. 1198 c.c., esplicitamente richiamando l’art. 1267 c.c., estende detta disciplina all’ipotesi di cessione di un credito in luogo dell’adempimento.
Non sempre però la distinzione tra tali due fattispecie è risultata agevole e di pronta individuazione, tanto che spesso le relative discipline venivano impropriamente ad accavallarsi e confondersi.
4 La posizione della dottrina
Secondo un orientamento dottrinale la cessione regolata dall’articolo 1267 si distingue da quella prevista dall’articolo 1198 per diversità di disciplina e ratio.
Nell’ambito della cessione ex art. 1198 c.c., il creditore cessionario è titolare di due distinte pretese: l’una, quella originaria, nei confronti del debitore cedente; l’altra, quella derivata dalla cessione, verso il debitore ceduto, con la peculiarità che, in caso di inadempimento di quest’ultimo, il creditore ha la facoltà di scegliere se agire contro di lui o del debitore originario.
Per effetto del rinvio all’articolo 1267, operato al secondo comma, tale facoltà viene meno quando la mancata realizzazione del credito ceduto sia dovuta al comportamento negligente del cessionario e, cioè, con il realizzarsi delle condizioni previste dal menzionato articolo che determinano liberazione del debitore cedente.
Altro orientamento dottrinale ritiene che la figura delineata dagli articoli 1198 e 1267 sia unitaria e costituisca una specie di “datio in solutum”, nella quale la nuova prestazione è rappresentata da una comune cessione “solvendi causa” con annessa garanzia di solvenza, sicché la responsabilità del cedente è legata alla solvibilità del ceduto ed è destinata a funzionare nel caso in cui il patrimonio di quest’ultimo sia escusso infruttuosamente.
La dottrina prevalente vede una conferma della tesi della cessione a scopo di adempimento e non in luogo di esso nel richiamo dell’articolo 1267, che prevede l’obbligo per il cessionario di agire diligentemente per la realizzazione del credito ceduto a pena della perdita della garanzia. Si tratterebbe della applicazione analogica del disposto di cui all’art. 1267, co.1, c.c., considerato che nell’articolo 1198 non è prevista garanzia di solvenza del debitore ceduto da parte del cedente.
Secondo tale tesi, per effetto della cessione, il creditore diventerebbe titolare di due distinti diritti di credito, di cui quello originario è inesigibile fino all’eventuale inadempimento di quello ceduto; il soddisfacimento di uno di essi determina, tuttavia, estinzione dell’altro.
5 La posizione della Giurisprudenza di legittimità
Tale impostazione è stata recepita dalla giurisprudenza di legittimità che, con orientamento ormai consolidato, sostiene che la cessione prevista dall’art. 1198 c.c. non estingue il credito originario, ma affianca ad esso quello ceduto con la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi mediante la realizzazione di quest’ultimo credito.
Si verifica, pertanto, la coesistenza di due crediti: quello originario e quello ceduto; stante il richiamo che l’articolo 1198 fa al secondo comma dell’articolo 1267, in cui si subordina la responsabilità del cedente non al solo adempimento del ceduto, bensì al fatto che il cessionario abbia iniziato e proseguito con diligenza le istanze contro quest’ultimo, il credito originario rimane quiescente fino a quando il cessionario non abbia inutilmente escusso il debitore ceduto; la realizzazione del credito ceduto produce l’estinzione anche di quello originario.
In altri termini, la cessione del credito in luogo dell’adempimento non comporta liberazione del debitore originario, che consegue alla realizzazione del credito ceduto; all’interno di questa situazione di compresenza, il credito originario entra in fase di quiescenza, e rimane inesigibile per tutto il tempo in cui persiste la possibilità della fruttuosa escussione del debitore ceduto, in quanto solo quando il medesimo risulti insolvente il creditore potrà rivolgersi al debitore originario.
Ne consegue ulteriormente che, non essendovi estinzione del debito originario ma rimanendo in vita entrambi i debiti, con impossibilità di chiedere al cedente l’adempimento del debito originario in difetto di previa infruttuosa escussione del debitore ceduto, solo da tale momento, in conformità con il principio posto all’art. 2935 c.c., inizia a decorrere la prescrizione relativa al debito ceduto.
La stessa dottrina riconosce il carattere derogabile del combinato disposto degli artt. 1267 e 1198 c.c., posto che le disposizioni non hanno carattere imperativo, con la conseguenza che le parti possono legittimamente prevedere nel contratto la possibilità, per il creditore cessionario, di esercitare validamente le azioni di recupero sia verso il debitore cedente, sia verso gli altri eventuali coobbligati.
Quanto all’onere della prova, secondo consolidata giurisprudenza, grava sul cessionario che agisce nei confronti del cedente, dare la prova dell’esigibilità del credito e dell’insolvenza del debitore ceduto, cioè deve provare che vi sia stata infruttuosa escussione di quest’ultimo e che la mancata realizzazione del credito per totale o parziale insolvenza del debitore ceduto non è dipesa da negligenza nell’iniziare o proseguire le istanze contro il medesimo ad opera del cessionario, il quale è tenuto ad un comportamento volto alla tutela del credito ceduto, eventualmente anche attraverso la richiesta di provvedimenti cautelari e conservativi.
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